1977 vs 2011: movimenti a confronto

Durante l’anno scolastico 1977-78 ero iscritto al primo anno di scuola superiore. Da poco piombato nell’età adulta, o almeno tale mi pareva l’appartenenza ad un istituto superiore, giravo con Lotta Continua infilato nella tasca in modo che si vedesse bene. Non posso dire che “ho fatto” il ’77, ma un po’ di quella atmosfera, di quei linguaggi, di quell’ambiente, l’ho conosciuto, quel tanto che mi basta per abbozzare un confronto tra allora e oggi.
Il ’77 era terribilmente ideologico, l’ideologia impregnava la retorica, l’analisi, la prospettiva. Il 2011 non ha quasi alcuna ideologia a supporto. Ha un’analisi, quella sì, un’analisi dell’attuale le cui deficienze sono sotto gli occhi di tutti. Ma evidenziare ciò che non va e perché non va non è ideologia, al massimo è solo buona capacità analitica.
Nel ’77 tutti parlavano di politica, il “che fare” era una domanda condivisa. Oggi finalmente, dopo tanti anni di rincretinimento collettivo, mi sembra si stia tornando ad un simile livello di partecipazione.
Il ’77 era violento, molto più di oggi, e la violenza era uno strumento, forse il principale, dell’azione ideologica. La violenza odierna fortunatamente è minore ma fa un po’ più paura perché è rabbiosa, anarchica, incontrollata, imprevedibile, può crescere a dismisura.
Se il ’77 era mosso dall’ideologia, il 2011 è mosso da “fame”, fame soprattutto generazionale. A occhio e croce l’ultima generazione che ha avuto un accesso relativamente semplice al mondo del lavoro, e parlo di lavoro con le sacrosante garanzie, se non proprio il “posto fisso” qualcosa di simile, è stata quella degli attuali 45enni. Al di sotto di questa soglia inizia il baratro del precariato, dei forse 1000 euro al mese senza versamenti, senza prospettive certe, senza il miraggio di una pensione. Questo disastro generazionale prodotto dai nostri politici ed economisti si inizia a sentire nelle sue estreme conseguenze solo ora. Non che dieci o quindici anni fa non ci fosse ma essere precario a vent’anni lo accetti, a quaranta no, a quaranta ti incazzi, ti ribelli. Non c’è famiglia col precariato, non c’è casa, non c’è previdenza, non si costruisce, si vive alla giornata. Quando parlo di “fame” intendo questa, fame di costruire il proprio futuro, di realizzarsi, di vivere sic et simpliciter.
Nell’ideologia il ’77 trovava anche la sua prospettiva, l’obiettivo a cui ambire. Obiettivo che poi fallì completamente producendo da un lato gli anni di piombo e dall’altro, per rigetto, il craxismo. Nessuna chiara prospettiva nel 2011, vaghi accenni a “mondi migliori”, qualche rimpianto di socialdemocrazia mancata, sguardi fugaci a J.M. Keynes, episodici rigurgiti di marxismo. L’unica prospettiva resta, appunto, soddisfare la “fame” il più presto possibile. Ed è in questa sensazione di un tempo limite ridotto agli sgoccioli, di un’urgenza impellente, che risiede lo spirito mondiale del 2011. Ma se il limite dell’ideologia è la sua rigidità, l’incapacità che ha nel confrontarsi col mondo che cambia, il limite della fame e dell’urgenza sta nella sua impossibilità a coesistere con la calma e la razionalità, con la “gioia e rivoluzione”.

I black bloc e i limiti del movimento

L’intervista ad uno degli incappucciati di sabato scorso, pubblicata da Repubblica , mi sembra mettere la parola fine a quella sorta di leggenda metropolitana dietro cui i movimenti no-global prima e indignados ora si rifugiano, leggenda che vuole i c.d. “black bloc” niente altro che poliziotti travestiti da manifestanti con la consegna di provocare disordini, sputtanando così l’azione e gli obiettivi del movimento. Continuando su questa interpretazione, la battaglia romana di sabato altro non sarebbe stata che un finto scontro tra polizia scoperta e polizia mascherata. Per onestà aggiungo che tale tesi è raramente formulata in termini tanto radicali: generalmente si preferisce evidenziare la presenza tra i manifestanti violenti di poliziotti infiltrati che usano le frange più estreme del corteo spingendole alla battaglia. Già questa mi pare più plausibile, o almeno certe immagini e certe testimonianze di Genova 2001 hanno dimostrato una buona attendibilità di tale ipotesi. Ma anche in questo caso non viene minimamente scalfita quella che per me è una verità scomoda e difficile da accettare, ma che va affrontata: primo, i black bloc sono un problema del movimento; secondo, è evidente una continuità tra il movimento e le sue espressioni più violente.

Mi soffermo sul concetto di “continuità” che è il centro della mia affermazione ma è anche il più difficile da sezionare e chiarire. Da più parti si legge dell’assenza tra i cappucci neri di una qualunque forma di linguaggio politico, una analisi, una strategia, come se la loro fosse una violenza cieca, immotivata, volgarmente criminale, fine a se stessa o alla soddisfazione di un ego malato. Non è così, 1000 persone che tirano sanpietrini è un atto politico, magari stupido, sicuramente non condivisibile, ma politico. Credo che i protagonisti dei fatti di sabato siano persone mosse da una forte rabbia contro l’attuale sistema socioeconomico mondiale e (peculiarità italiana) contro l’attuale governo. Credo quindi che siano figli di una radicale critica al “sistema” tanto quanto lo sono tutte le anime non violente e pacifiste del movimento. Detta così, sembrerebbe stia dando ragione ai titoli a tutta pagina di Libero o del Giornale che definiscono i black bloc “cocchi della sinistra”. In realtà non c’è da parte mia alcun intento accusatorio né alcun cedere alle becere semplificazioni di Belpietro & c. Cerco solo di venire a capo di un problema evidente e innegabile, tant’è che sono passati esattamente dieci anni da Genova 2001 e le cose si ripetono per filo e per segno… e i poliziotti infiltrati non centrano proprio nulla. Il punto è che tante delle analisi politiche, sociali, economiche che appartengono all’intelligenza del movimento sembrano non dare scampo: il sistema è malato nelle fondamenta e, paradossalmente, sfasciarlo sembra un’opzione più logica e conseguente che limitarsi ad una sterile protesta. La vaghezza delle parole d’ordine e degli obiettivi del corteo di sabato mi conferma questa idea, ovvero che siamo tutti ben informati di quanto sia grave e perversa la nostra economia e la nostra società ma che da tali presupposti non si riesca a produrre una chiara proposta politica, e di fronte alla mancanza di un progetto politico la violenza “sfascista” ha il suo appeal, ha facile vita.

Per quanto mi riguarda la violenza non è un’opzione, l’unica opzione è la politica e fin quando si continuerà ad insistere con queste manifestazioni monumentali che mettono insieme gli scout ai marxisti leninisti, che non hanno alcun collante se non un vago scontento, che non canalizzano chiare e praticabili proposte al di là della romantica retorica vendoliana, che non riescono a confrontarsi con il principale luogo deputato al confronto politico, il parlamento, si continuerà a prestare il fianco ai lanci di sanpietrini e a chi non vede l’ora di bollare ogni critica al sistema come estremista e violenta.
Non sto riproponendo l’antico ammonimento di Marx, l’estremismo come malattia infantile del comunismo, semmai ventilando l’ipotesi che il “nostro” estremismo se non strutturato politicamente possa virare verso una nuova forma di ribellione che ha fatto la sua comparsa a Londra lo scorso agosto, ribellione questa davvero inutile e improduttiva, se non di un male ancor peggiore di quello che l’ha generata.

Sono indignato e me ne sto a casa

Sono indignato da sempre, sono indignato da 48 anni, sono nato indignato. Mi indigna l’ingiustizia, la povertà, l’inciviltà, l’ignoranza, il razzismo, mi indigna Silvio Berlusconi e il suo governo, mi indigna la nostra classe politica, mi indigna l’alta borghesia cattolica, mi indigna chi non paga le tasse, chi non rispetta la fila, chi sorpassa a destra, chi pensa che i diritti ci siano stati regalati, chi dice “io non sono razzista MA…”, chi dice “tanto so’ tutti uguali”, mi indigna il clericalismo, il bigottismo, il paternalismo, le mafie, le lobby, le cricche, gli amici degli amici, mi indigna chi parla senza sapere di cosa parla. Oggi me ne sto a casa, la grande manifestazione romana degli “indignati” non mi interessa, non mi convince, non ha per me nessun “appeal”. Non che snobbi la piazza, tutt’altro, non che non capisca che democrazia è partecipazione, no, niente di tutto questo. Ero al Circo Massimo con Cofferati quando si trattava di difendere l’articolo 18, ed ero alle calcagna degli scettici quando si trattava di portarli al referendum sull’acqua pubblica e sul nucleare. E’ che se devo lottare su un tema chiaro, preciso, che ci porta ad un obbiettivo immediato, allora ci sono, altrimenti…
Che cos’è questa odierna marcia degli indignati? Soprattutto cos’è nella versione italiana? La tardiva adesione ad una bella moda nata mesi fa in Spagna e poi esportata a New York? Oppure, più probabilmente, l’ennesimo abito che indossa il variegato popolo della sinistra italiana, quella che schifa la propria versione parlamentare e che di volta in volta si fa no-global, e poi girotondina, e poi grillina, e poi no-tav, e poi viola? Almeno qui in Italia credo sia soprattutto questo, e non mi interessano più questi stanchi rituali identitari. Si va in piazza per prendersela con Draghi? Mah! Si va in piazza per prendersela con le banche e con il sistema economico mondiale? Arimah! Allora perché non un bel corteo contro il cancro o contro la morte? Vabbe’ non voglio essere provocatorio, cari compagni scendete in piazza, protestate, fate quel che volete, vi rispetto ma non mi convincete proprio. Conosco tra voi troppi “fighetti”, figli di papà e con smartphone di ultima generazione, fare i rivoluzionari, parlare di “altri mondi possibili”… non mi interessano e mi indignano (leggasi “mi stanno sulle palle”). Compagno di scuola, compagno per niente, ti salverai o entrerai in banca pure tu?

A Dangerous Method, di David Cronenberg

Vedere l’ultimo Cronenberg è un po’ come incontrare dopo tanti anni un conoscente o un parente che avevi lasciato bambino e che ora ritrovi uomo, magari con le spalle il doppio delle tue. E allora ti domandi “ma come è possibile? Che ha a che vedere questo con quello?”. L’esempio serve ad introdurre l’idea di lontananza, non di evoluzione… né di involuzione, semplicemente distanza incolmabile tra il Cronenberg di Brood, Scanners, Videodrome, Dead Zone, The Fly, Crash, Existenz, Spider, e l’attuale. Tutto sommato anche il Cronenberg più recente, quello di A History of Violence e Eastern Promises sembra al più un lontano parente di chi ha diretto A Dangerous Method. In parte la cosa è comprensibile, essendo la vicenda Jung / Spielrein / Freud “una storia vera” – e qui ci starebbe bene uno sguardo sinottico sull’altro grande David, il Lynch di The Straight Story -, storia vera tra l’altro ampiamente conosciuta e raccontata. I paletti che impone il dovere di cronaca ci consegnano un film interessante perché è interessante la vicenda, elegante perché il Canadese è comunque un maestro, ma poi anche freddo e privo di quello scatto di fantasia, di quell’iniezione di mistero che da Cronenberg ti aspetteresti. Anche l’aspetto cronachistico, inoltre, non mi è sembrato ineccepibile: poco credibile il personaggio di Sabina Spielrein, la sua isteria misteriosa, la relazione d’amore con Jung, quest’ultima fuori fuoco soprattutto nel punto di vista di Jung. Più chiaro e interessante mi è parso il rapporto intellettuale e caratteriale tra Freud e Jung, posto nell’ampio contesto del diffondersi con timore e circospezione del credo psicanalitico.

Vale la pena di chiedersi quanto la fedeltà a ciò che “davvero” avvenne debba chiudere la strada ad un’interpretazione personale di quel “davvero”. Saremmo in tal caso di fronte ad un tradimento del fatto? Domanda enorme. Io mi limito a segnalare come un regista italiano molto meno celebrato di Cronenberg, Roberto Faenza, abbia saputo con Prendimi l’Anima del 2002 raccontare la medesima storia coniugando cronaca, fantasia, personalità. Come c’è riuscito? Intanto con un’attrice nel ruolo di Sabina Spielrein (Emilia Fox) più brava di Keira Knightley. Poi con una scelta che ha pagato: anziché tentare, come ha fatto Cronenberg, di abbracciare in un solo sguardo la nascita della psicanalisi, le tre grandi personalità della vicenda, la storia d’amore, ha innalzato in primo piano solo l’ultima annullando di fatto il personaggio di Freud e le dispute scientifiche. Ne è scaturito un film compatto (nonostante la presenza di due diversi piani temporali), credibile, passionale, passionale perché tale fu la storia d’amore e passionale perché in fin dei conti fu proprio nella transizione da pulsione a passione che si stavano giocando i destini della psicanalisi.

Carnage, di Roman Polanski e Yasmina Reza

Se c’è qualcosa di davvero eccezionale in Carnage, sta nella reazione stupita di buona parte del pubblico e della critica (probabilmente disabituati o ignari di teatro) per un buon film che si regge quasi esclusivamente sulla drammaturgia. Poca postproduzione, un solo ambiente interno (ad eccezione del campo lungo sul giardino all’inizio e alla fine), unità aristoteliche rispettate, solo quattro personaggi (più due virtuali, i tempestivi telefoni di Alan e di Michael) e infine tanto tanto dialogo, ben sottolineato dall’ottimo montaggio. Insomma, siamo in presenza di un qualcosa che si potrebbe definire “pièce bien fait”, ovviamente più in senso lato che strettamente storico (e mi riferisco al genere “pièce bien fait” nella storia del teatro). Una riuscita drammaturgia borghese ambientata – guarda caso – nel salotto di casa, dove elementi come l’intreccio, il colpo di scena, la girandola di personaggi, sono di fatto inesistenti e dove il ritmo e l’interesse restano tutti sulle spalle dei dialoghi. Il presupposto è tutto per un buon dramma ma il prodotto finale mi sembra virare di gran lunga sulla commedia. Se questo sia da considerarsi un limite del lavoro è una questione che riguarda il singolo spettatore. Personalmente mi ha divertito molto ma un senso di fastidiosa prevedibilità mi ha accompagnato per tutta la visione. Parte dal dramma, dicevo, perché drammatico è l’antefatto – una violenta lite tra due adolescenti – e drammatico si prospetta lo svolgimento, un confronto tra i quattro genitori dei due ragazzi, due coppie medio borghesi, quindi necessariamente “civili”, poste di fronte al bivio se caricarsi il fardello di una pacata ricomposizione della lite dei due eredi oppure prenderne le rispettive parti aderendo ad un’atavica “difesa della famiglia” e trasferendo quella lite su un piano adulto e potenzialmente più violento.
Abili Roman Polanski e Yasmina Reza a cavalcare la seconda opzione senza mai dimenticare del tutto la prima, quasi a lasciar intendere che il “richiamo del sangue” sia la strada che ogni adulto, una volta messosi a nudo e spogliatosi delle convenzioni, vorrebbe seguire. Ma la “civiltà” è una pelle troppo aderente per essere strappata davvero e allora la strada della lite si percorre con troppe incertezze e sensi di colpa e quindi si torna subito indietro nei territori della pacatezza e del buon senso ma anche lì l’incertezza resta e incertezza nelle relazioni interpersonali richiama incertezza verso se stessi che a sua volta amplifica quella relazionale e così via in un crescendo che non può che concludersi in una ubriacatura collettiva, come se per i quattro “pupazzi” l’ubriacatura da alcol fosse meno vergognosa e più accettabile di quella da emozioni incontrollate. Peccato che non proprio tutto gira per il meglio nella realizzazione di questo progetto narrativo: i dialoghi, certamente di ottimo livello, graffianti e ritmati, subiscono spesso delle forzature in crescendo incongruenti col contesto che li precede e li dovrebbe giustificare, come se spinti da un direttore d’orchestra che ha troppa fretta di arrivare al parossismo dell’esecuzione, mentre il grottesco imperante nel secondo tempo trancia inevitabilmente ogni germoglio drammatico e la maschera livida di Jodie Foster nel finale mi ricorda troppo la trasformazione del civile Dottor Banner nel bestiale Incredibile Hulk.

Il Melodramma, o Sul principale paradigma interpretativo italiano agli inizi del XXI sec.

“Per fare un buon melodramma si deve per prima cosa scegliere un titolo. Bisogna poi adattargli un qualsiasi soggetto, storico o di fantasia; poi ci si metteranno come personaggi principali un gonzo, un tiranno, una donna innocente perseguitata, un cavaliere [ma anche un Cavaliere perseguitato va bene. N.d.r.] e, potendolo fare, qualche animale addomesticato, che so? un cane, un gatto, un corvo, una gazza o un cavallo.
Sono di rigore un balletto e un quadro di insieme nel primo atto; una prigione, una romanza e delle catene nel secondo; battaglie, canzoni e via dicendo nel terzo. Il tiranno sarà ucciso alla fine dell’opera, la virtù trionferà e il cavaliere sposerà la donna innocente, sventurata etc.
Si finirà con una esortazione al popolo, per impegnarlo a preservare la sua moralità, a detestare il crimine e i tiranni, e soprattutto gli si raccomanderàò di sposare preferibilmente donne virtuose.”
[Trattato del Melodramma, 1817, Parigi]

“… nel primo atto del melodramma troviamo una celebrazione della fête di innocenza e virtù […]. Ma la fête sarà turbata. Nel suo mezzo si insinuerà il tiranno o il traditore […], spesso si tratta dell’annuncio che l’innocente virtuosa non è quella che appare […]. Il primo atto finisce molto spesso con la cacciata di innocenza dalla terra natale […], la condanna a peregrinare, la penitenza, il matrimonio forzato o la morte. […] Per metà della rappresentazione il cattivo domina interamente la scena, impone tutte le valutazioni morali, inganna tutti o altrimenti impone semplicemente la sua volontà con la forza […]. Il terzo atto porta lotta, combattimento, un evidente recitare e attraversare fino in fondo i termini manichei della rappresentazione con la vittoria finale del giusto, la liberazione di innocenza e il suo riconoscimento da parte di coloro che erano stati fuorviati dalle false affermazioni del cattivo…”
[Peter Brooks, Introduzione al Trattato del Melodramma]

“…il mélo è al centro di una costellazione di significati tutti sostanzialmente negativi, implicando valori di esagerazione, di contrapposizione manichea tra bene e male senza sfumature, di esasperazione dei contrasti, di caricamento artificiale delle emozioni e di esibizione sfacciata delle passioni, di mancanza della misura e di abuso del patetico. […] Non si fatica certo a riconoscere in questa struttura emotiva del mélo un intento socialmente consolatorio, nel costruire un modello in cui alla fine i conti della giustizia tornano perfettamente, il dolore patito ingiustamente viene ricompensato e la malvagità, personale e di classe, viene perseguita senza pietà.”
[Luigi Allegri, La drammaturgia da Diderot a Beckett, Laterza 1993]

Toc toc, c’è Bersani?

Ho sempre pensato a Pierluigi Bersani come ad una persona simpatica, onesta, piena di buon senso, nonché come ad un ottimo amministratore. Ai tempi del secondo governo Prodi risultò indubbiamente uno dei ministri più capaci, con quel suo programma di liberalizzazioni coraggioso e in un certo senso romantico. Al momento della sua candidatura a leader del PD ebbi un’istintiva perplessità. Mi sembrava troppo freddo e troppo pragmatico per occupare la guida di una sinistra in crisi mondiale di prospettive, una sinistra a cui sarebbe servita una immediata e sostanziosa iniezione di retorica e fantasia, qualità purtroppo assenti nel pur bravo politico emiliano. Ma tant’è, quello passava il convento e l’unica reale alternativa, Veltroni, s’era suicidato da poco tramite incomprensibili dimissioni.

A due anni di distanza da quella incoronazione mi sembra che i fatti rendano giustizia a quelle perplessità, mie e di tanti altri. E’ difficile pensare ad una crisi più profonda di Berlusconi, è difficile immaginare una maggioranza di governo più sbandata. Voglio dire, è inimmaginabile una situazione più favorevole per un grande partito d’opposizione. Eppure… non cambia nulla, se non che la maggioranza parlamentare appare oggi un fortino ancor più inespugnabile e l’opposizione totalmente priva di prospettive e proposte. Sono passati solo pochi mesi da quell’uno-due micidiale, le vittorie ai referendum e alle amministrative. Come è stato gestito quel patrimonio di indignazione e volontà di cambiamento? In alcun modo. Lo si è lasciato dissolvere. E sì, perché il buon Pierluigi quei referendum nemmeno li voleva e le amministrative le ha vinte con candidati non suoi. Il leader del PD guarda con freddezza la sinistra, quasi con un po’ di vergogna. Lui non ama la piazza, non ama le iperboli, non ama gli scioperi. Lui non alza la voce, prova fastidio per la retorica vendoliana e per il linguaggio schietto alla Di Pietro. Lui non riesce ad immaginare iniziative coinvolgenti e sorprendenti, insegue – con la benedizione di D’alema – il moderato Casini, fulcro del fantomatico “Terzo Polo”. Ma il futuro di Casini non è certo il Terzo Polo, tanto meno un matrimonio con la sinistra, bensì la leadership di una nuova Democrazia Cristiana, un nuovo partito direttamente sponsorizzato dalla CEI che chiuda per sempre la stagione del berlusconismo ma anche quella del bipolarismo. Un partito, insomma, moderatamente conservatore, moderatamente confessionale, moderatamente intrallazzatore, ma con grande cura della forma e delle buone creanze. Si rassegnino Bersani e D’Alema, non è quella la strada. I cattolici alla Rosi Bindi sono pochi, sono eccezioni. I cattolici italiani vanno là dove indica il pastore, e il pastore ha scelto un’altra via.

Che resta quindi? Resta la sinistra, a occhio e croce circa il 40% dell’elettorato italiano, un tesoro di grandi individualità, di esperienze, di energie, di idee che sarebbe il caso di sposare e valorizzare per tirare fuori una proposta di governo vincente, una proposta tratta dalla nostra storia, fantasiosa, sfidante, che sappia una volta tanto rompere le diffidenze di un elettorato “moderato” che tra conservatori autentici e conservatori di facciata giustamente preferisce i primi. Se la vittoria deve passare per lo sfondamento al centro (e questa è matematica) non è certo travestendosi in neocentristi che ci si arriva. Forse a capirsi con quel centro non ci arriveremo mai, ma se c’è una possibilità non sta nel triste balbettio trasformista dell’attuale PD. Non sta nello snaturamento della propria storia e sensibilità. Caro Bersani, abbia una volta tanto il coraggio di fare un sogno che le appartiene e provi a raccontarlo quel sogno, senza pudori né politichese. Chissà che l’onestà e la coerenza una volta tanto paghino?

La voce della Chiesa, lo zombie, le macerie

Benvenuta nel club del “caro Silvio, fai un passo indietro”. Pressata da più parti (soprattutto dalla base), timorosa di reiterare gli imbarazzanti e deleteri silenzi di anni e vicende passati, la Chiesa italiana ha finalmente detto la sua. Forse un po’ in ritardo, certo, ma le va dato atto di non avere ceduto ad alcuna ambiguità comunicativa. Quel richiamo all’aria ammorbata da purificare è inequivocabile e sentenzia l’atto di morte politica di Silvio Berlusconi. Più che una riflessione appare come un vero e proprio ordine. Non rivolto al Premier, certamente. Lui, come al solito, farà orecchie da mercante, se la caverà con frasi tipo “sono d’accordo col Cardinale”, oppure “non erano parole rivolte a me”. Lui no, lui farà finta di nulla ma i tanti – e sono tanti – politici cattolici del PDL hanno ieri sera ascoltato l’unica parola che per loro vale più di quella di Silvio, ed è una parola che dice “scaricatelo!”. Forse non sarà nelle prossime ore, forse nemmeno nei prossimi giorni, probabilmente si arriverà ai primi mesi del 2012, resta il fatto che il count down del governo Berlusconi è iniziato.

C’è da gioirne? No, qui c’è poco da festeggiare. Tutto sommato la voce della Chiesa – se pur fondamentale – è l’ultima ad unirsi ad un coro già iniziato da molto tempo, coro di volta in volta ingrossato dalle progressive adesione di opposizioni prima timide, di società civile prima afasica, di sindacati prima titubanti, di grande finanza e grande industria prima compiacenti. Berlusconi è già uno zombie politico e se non avesse l’ego che ha se ne sarebbe reso conto già da un pezzo. Non c’è da gioirne perché questo scatto collettivo di buon senso appare purtroppo fuori tempo massimo e quel che qualunque mente dotata di normale raziocinio poteva prevedere anche dieci anni fa, o addirittura diciassette anni fa (la stessa sera del discorso sulla “discesa in campo”), è avvenuto: Berlusconi cadrà quando già le macerie della nazione ci hanno sepolto. E non parlo di macerie economiche, anche quelle, certo; parlo soprattutto di macerie civili, politiche, sociali, culturali, e solo un cretino può pensare che basti una buona e pesante “manovra” per rimettere l’Italia in piedi.

Qui c’è da uscire definitivamente dal modello berlusconiano, c’è da ricostruire il senso stesso del vivere civile, c’è da rieducare un popolo alla complessità della democrazia. E nello stesso tempo c’è da vigilare perché purtroppo il fondo non si tocca mai e c’è sempre il rischio che da quelle macerie escano topi e infezioni peggiori. Mi vengono i brividi se penso che ci sono intere generazioni che hanno conosciuto la politica esclusivamente nella prassi berlusconiana, che hanno appena una vaga idea di chi fossero personaggi come Lama, Moro, Berlinguer, La Malfa (il padre), che non sanno che la politica può essere passione, ideali, impegno onesto, e non solo becero clientelismo e malaffare. Cosa ci salverà allora? Non basterà certo facebook, ottimo per il lamento e l’ironia e poco più. Occorrerà muoversi, ragionare, studiare, criticare, scendere in piazza, scioperare, proporre, collaborare. In una parola: partecipare.