
In parte trattenuta e ancora guardinga, forse sfiancata dalla stanchezza, più rabbiosa che gioiosa, certamente angosciata per un futuro ancora tanto incerto, la festa è mesta. Cosa c’è da festeggiare? Sì, Berlusconi non è più Primo Ministro e non lo sarà mai più, ma non è caduto lui, qui è l’Italia intera ad essere caduta. Inutile girarci intorno, l’Italia è commissariata, la politica italiana, tutta, è commissariata. E cosa c’è di più antipopolare e meno democratico di un commissariamento degli organi esecutivi?
Il peggior governo della storia repubblicana d’Italia se ne andato. Non rivedremo più, almeno per un bel po’ di mesi, quell’accozzaglia inguardabile di nani e ballerine, mafiosi e faccendieri, fascisti in doppiopetto e baciapile, lecchini e puttane. Il governo dei mediocri se ne andato ma la sua uscita di scena non è sotto il segno della sconfessione generale, della condanna popolare, della damnatio memoriae, non sono stati seppelliti da una rivolta nazionale, da un’indignazione collettiva, né dal voto. No, niente di tutto questo, sono usciti di scena sotto il segno dell’emergenza, del “responsabile dovere” verso una situazione eccezionale che spacciano come indipendente dal loro operato. Non sono stati battuti dalle opposizioni, dalla “nostra” cara Sinistra, dal nostro martellante urlare “vattene”. No, sono stati cacciati da novelli “alleati” che al posto dell’uniforme da soldato indossano le raffinate cravatte dell’alta finanza. E questa odierna tabula rasa non distingue i buoni dai cattivi, non ascolta le ragioni dei forti, figuriamoci dei deboli.
Con loro esce di scena la politica italiana tutta, di qualsiasi colore, una politica che in Italia non è la più nobile delle arti intellettuali, come sosteneva Platone e come con fastidiosa arroganza spesso ricordava D’Alema, è il rifugio dei mediocri, è il regno delle vanità e degli egoismi personali. Nella migliore delle ipotesi è uno stadio in cui opposte curve di ultrà si confrontano sino a malmenarsi. Viene da chiedersi se l’uscita di scena del governo Berlusconi non segni l’irreversibile fine della politica così come l’abbiamo conosciuta, o studiata a scuola, o sognata, la disciplina dove i diversi interessi sociali si mediano in nome del bene comune e della prosperità dell’intera nazione.
Cosa dobbiamo applaudire se la fine dell’incapace populista Berlusconi segna l’inizio dell’efficiente tecnocrate Monti, se il referente politico slitta dal “popolo” (seppur nel suo populismo Berlusconi era al popolo che si rivolgeva) ai “mercati”? Commissariati dai mercati, commissariati dai finanzieri, commissionati da nazioni straniere, commissariati dal capitalismo mondiale del salotto buono. Passiamo da un capitalismo “cafone” e cialtrone ad un capitalismo elegante, vagamente liberal, vagamente keynesiano, tutto qui. E cosa si dimostrerà, poi, Monti? Un premier, un commissario o un curatore fallimentare?
Talmente esausti e nauseati dalla volgarità italiana, da premier che raccontano barzellette da osteria, da ministri che fanno le pernacchie, da fellatio di valore ministeriale, applaudiamo come un novello Che Guevara il liberatore Monti, il suo viso austero e rigoroso, la sua efficienza bocconiana scolpita sull’alta fronte. Certo che l’applaudiamo, al punto in cui siamo applaudiremmo anche un governo Pacciani. Ma sono certo che nei prossimi giorni smetteremo di applaudirlo, quando applicherà a tutti noi le sue dolorose ricette, le ricette della BCE. E se pur quelle ricette dovessero funzionare, se pur dovessero riportare un po’ di calma in questo sgangherato Paese, resterà l’ineludibile sensazione di un fallimento, il fallimento di un popolo che non è in grado di esprimere rappresentanti degni, il fallimento di un popolo che non sa badare a se stesso, il fallimento della democrazia rappresentativa.