Il senso di colpa della sinistra italiana

Enrico Berlinguer e Stefano Rodotà
Enrico Berlinguer e Stefano Rodotà

Tra le tante possibili riflessioni sugli eventi politici di questi giorni, una mi sembra meritare un approfondimento e riguarda la figura di Stefano Rodotà e il suo porsi come elemento di rottura all’interno della compagine di centrosinistra. Perché il PD è crollato (anche) su Rodotà? Perché il M5S si è unito, infervorato, rafforzato sul nome di Rodotà? Checché ne dicano molti, Rodotà non è una incomprensibile sorpresa, se non altro perché il suo nome come desiderato Presidente della Repubblica girava in rete già da un paio di mesi, e non per opera del M5S ma per iniziativa di singole persone o di associazioni legate ai diritti civili e alla questione dei “beni comuni”. Chi è Rodotà? Non parlo di curriculum ma di quel profilo pubblico percepito dalla gente, costruito su sensazioni, comportamenti, frammenti di notizie. Un anziano giurista, un intellettuale colto e raffinato, da sempre indipendente di sinistra, fuori dai giochi della “grande” politica, impegnato sui diritti civili, tra i promotori del referendum sull’acqua pubblica (l’unico referendum da tantissimi anni a superare il quorum di partecipazione), vicino all’esperienza romana del Teatro Valle Occupato. Un uomo dal volto onesto, buono e mite ma per nulla arrendevole, tutt’altro, fermo e orgoglioso delle sue idee. Un uomo che quando parla non usa il politichese ma sa farsi capire con semplicità. Quasi un Berlinguer, direi.

Teniamo in mente questa descrizione e ora pensiamo ai dirigenti PD, ai vari D’Alema, Bersani, Letta, Violante, Veltroni, Finocchiaro, Marini etc. Potremmo fermarci qui tanto è evidente e stridente il contrasto. A quella domanda, ripetuta come un mantra in questi giorni, “perché non Rodotà?”, i dirigenti PD risponderebbero candidamente “perché non è uno dei nostri”. E infatti! Rodotà è il volto di quella sinistra che molti di noi vorremmo, il volto di quella sinistra che non c’è e forse da vent’anni a questa parte non c’è mai stato, è il volto del padre defunto che turba la coscienza del figlio errante. È il morso del rimorso, di quel che avremmo dovuto essere e non siamo stati. È il senso di colpa della sinistra italiana, almeno di quella che discende dal PCI. Passione, impegno, idealismo, trasparenza, onestà, coerenza, tutte qualità che il PD ha fatto sprofondare nelle sabbie mobili della politica dei politicanti e che il volto di Rodotà (volto reale, ma in parte proiezione psicologica) incarna.

Una mia vecchia amica psicanalista mi ammoniva dicendo che dove c’è un senso di colpa c’è sempre una colpa. Bene, l’immagine del vecchio Rodotà che scende in piazza per difendere l’acqua pubblica o che incontra e aiuta gli occupanti del Valle riflette impietosamente, come un gioco di specchi contrapposti, la colpa della sinistra istituzionale italiana. E che questa immagine getti nel panico la dirigenza del PD e svegli la memoria compressa e assopita della sua base è terribilmente ovvio. Come dire che prima o poi i nodi vengono al pettine – il nodo di un partito nato dall’incontro tra culture diverse e anche antagoniste –  e che da adesso in poi “pettinare le bambole” non ci basterà più, dovremo semmai pettinare la nostra coscienza.

È ancora più interessante concentrarsi sul senso della candidatura Rodotà da parte del M5S, un movimento che finora si è spacciato per antipartitico, postideologico e fuori dagli schemi interpretativi tradizionale, e che invece con Rodotà e con la recente retorica grillina che ne ha spinto la candidatura si scopre sorprendentemente di sinistra, di “sinistra estrema” si potrebbe dire utilizzando una banale terminologia giornalistica. La scorribanda che negli ultimi giorni Grillo ha fatto dentro l’indifeso campo PD, è un vero e proprio attacco da sinistra, una sorta di shopping nell’hard discount dell’elettorato democratico sotto gli occhi ciechi della dirigenza di quel partito (che ancora non ha capito di aver perduto per sempre gran parte dei suoi elettori), e anche sotto gli occhi increduli di Vendola, che non a caso si è subito rimesso la maschera dell’antagonista, accodandosi alle istanza grilline. Insomma, sembra riproporsi un secolare regolamento di conti a sinistra tra massimalisti e moderati, idealisti e pragmatici, movimentisti e governativi e così via. Resta la tristezza nel constatare come queste due forze, che probabilmente qualcosa di profondo condividono ancora, dispongano insieme di un buon 70% del Parlamento italiano. Quante belle cose potrebbero fare se solo ragionassero… ma qui sto entrando nell’ambito della fantapolitica.

Questa improvvisa connotazione “sinistra” del grillismo, però, rischia di intralciare la crescita e l’identità dello stesso M5S se dovesse configurarsi troppo marcata. Alla gran parte degli otto milioni di persone che hanno votato Grilo probabilmente non frega nulla dei regolamenti di conti tra compagni e fare spesa tra le fila della sinistra PD, perennemente in cerca di una casa stabile e accogliente, è azione relativamente semplice ma anche di limitate prospettive politiche: il sangue PD che il vampiro Grillo sta succhiando in questi giorni prima o poi finirà. Inizi piuttosto a guardare anche dall’altra parte, a cercare di svegliare i sensi di colpa dell’elettorato di destra, ad illuminare le contraddizioni della politica sociale ed economica berlusconiana. L’occhio di riguardo tirato fuori in campagna elettorale verso gli artigiani e i piccoli imprenditori, l’enfasi sull’insostenibilità dell’attuale pressione fiscale, la battaglia verso le grandi concentrazioni bancarie, sono certamente alcune chiavi per aprire la porta dell’elettorato PDL. In teoria dovrebbe esserci anche la legalità, ma quello è un valore che la destra storica italiana ha da almeno venti anni disconosciuto e regalato alla sinistra, che a sua volta ne ha fatto l’uso che sappiamo.

Un convinto voto disilluso

Carlo Maria Martini

Da molto tempo la politica ha smesso di incidere significativamente sulla realtà quotidiana della gente,  ha spazi di manovra sempre più limitati. Certamente non incide nulla sulle questioni economiche-finanziarie; in questo campo subisce, come un piccolo ingranaggio, ordini superiori. Qualcosa di più può fare nell’ambito dell’equità sociale decidendo, ad esempio, su quali spalle e in che percentuale spalmare il peso della crisi. Oppure sul piano delle questioni civili, come in Italia dove può accelerare o ritardare la nostra transizione verso una laicità che non sia solo di facciata, com’è ora. Tutto qua, e poco altro.

Ma per fortuna “politica” non è solo l’Istituzione e il mondo dei partiti che l’alimenta. È politica anche tutto ciò che viene “dal basso”, l’associazionismo, il sindacato, lo sciopero, le manifestazioni, le raccolte di firme per i referendum e così via. Anzi, forse oggi questa è la sola politica che ci resta, quella che rende viva una società, la sottrae all’apatia (la moderna forma di dittatura) e alla triste e irrelata ritualità della politica istituzionale, elezioni, Governo, Parlamento, forme di rappresentanza sempre più modellate sul format del reality.

Premesso ciò – premessa, quindi, una spietata disillusione sullo stato delle cose che ci deve sempre accompagnare in ogni ragionamento sul “che fare” -, resta la constatazione che la democrazia rappresentativa non presenta ancora valide forme alternative, niente di più efficace se non altro sul piano dell’organizzazione sociale. Una comunità di 60 milioni di persone non è un condominio e sempre di rappresentanti avremo bisogno, sempre di qualcuno a cui delegare almeno una parte delle nostre decisioni. E costoro, i delegati, a loro volta eleggeranno dei loro rappresentanti di livello superiori e così via fino all’olimpo dei “capi supremi”. Niente di nuovo, così è il potere, questa ne è in soldoni  l’inevitabile struttura piramidale.

E se anche volessimo snobbare la politica istituzionale, astenerci disgustati dal legittimarla ancora una volta con il nostro voto; se anche volessimo protestarla tramite un’indignata non partecipazione; se anche dedicassimo ogni nostra esclusiva energia alla politica diretta e quotidiana, sindacati, rappresentanze locali, movimenti d’opinioni etc, resta il fatto che quel Potere – pur delegittimato dai cittadini e azzoppato da multinazionali e finanza mondiale – esiste, decide almeno in parte sul nostro futuro, dobbiamo farci i conti. È il nostro interlocutore. C’è e sempre ci sarà. È un collo di bottiglia dentro il quale dobbiamo per forza passare. E allora facciamo in modo che questo angusto collo sia il più largo e morbido possibile.

Votare per rappresentanza non significa votare una persona che faccia tutto quel che tu vorresti, o che ragiona, pensa, percepisce le cose come fosse una tua fotocopia. È ingenuo e infantile pensare che una volta espressa la delega al tuo rappresentante (ammesso che costui venga eletto) tu possa aspettarti e pretendere a braccia conserte la soddisfazione di tutti i tuoi bisogni. Si vota la persona più vicina a noi, alle nostre idee, quella più sensibile ai nostri bisogni. E dire che si vota il “più vicino” a te significa a volte – molto spesso – affermare l’equivalente del tanto vituperato detto “votiamo il meno peggio”. È proprio così, quando si vota si vota sempre il meno peggio, partendo dal presupposto che “il meglio” per te sei proprio te stesso, o un tuo clone. E quel “meno peggio”, pur ipotizzando la sua buona volontà e onestà, dovrà comunque fare i conti con altre centinaia di “meno peggio” delegati da altri cittadini, diversi da te, distanti da te, forse addirittura l’opposto da te. Democrazia è mediazione tra opposti.

Voto il candidato “meno peggio” sperando che riesca a mediare la migliore soluzione possibile per me, all’interno di un contesto in maggioranza ostile (il Parlamento italiano) e comunque sapendo che tale contesto è fortemente limitato nei suoi poteri e nelle sue possibilità. Lo so, è una visione della democrazia rappresentativa decisamente povera, triste, priva di qualunque fascino, ma questo oggi è il nostro menù.

In queste primarie del centrosinistra ho votato per Nichi Vendola, lui, quello che nel suo pantheon dice di avere il Cardinal Martini. E l’ho votato non perché mi identifichi in tutto quel che dice, non perché lo ritenga il mio “leader”, né ho per lui alcun “culto del capo”. Semplicemente è il più vicino a quel che credo, o il meno lontano, quindi il meno peggio. Ci ho provato, è andata male ma almeno ci ho provato, e ci riproverò alle prossime elezioni. Sono iscritto al sindacato e continuerò a scioperare se e quando serve, a scendere in piazza se e quando serve, a partecipare ad assemblee, a parlare di politica ovunque, a scrivere testi teatrali politici e a metterli in scena indebitandomi. Continuerò a farlo e continuerò a votare il meno peggio che riesco ad individuare, affinché il mio inevitabile interlocutore governativo – il potere – sia se non altro il meno peggio, in grado almeno di parlare la mia lingua. Un voto convinto e disilluso che serve poco e che deve essere accompagnato da tante altre pratiche quotidiane, ma un voto a cui non rinuncio perché l’alternativa non mi convince, mi sa di riflusso, di apatia, di indifferenza, di qualunquismo.