
un monologo interpretato da Francesca La Scala
drammaturgia di Fabio Massimo Franceschelli
da un soggetto di Francesca Guercio
regia di Francesca Guercio
produzione OLIVIERIRAVELLI_TEATRO
consulenza artistica: Claudio Di Loreto
registrazioni “Mr. Flat Recording”
di Francesco De Laurentiis
Una donna. Alla soglia dei quarant’anni. Un’Attrice. Una signora. Sola, in scena. Con le sue voci, le sue maschere, le sue mani. Riflette tra sé e cerca la complicità degli spettatori in un “flusso” di pensiero che trova la propria “coscienza” nella forza centripeta di una personalità fermamente intenzionata a esistere e non a resistere. Pure in mezzo alle sconsolanti considerazioni sul lavoro nel mondo del teatro, sui rapporti con gli uomini, sugli stereotipi della femminilità, sulla ghettizzazione della cultura, sulle costrizioni della seduzione, sul tedio dei giochi di ruolo, sul senso della maternità.
Qualcosa è vero; qualcosa è falso ma potrebbe pure essere vero. Anche perché da qualche parte c’è un Autore. Un uomo. Ma soprattutto perché la Signora… s’ignora!

Una volta un collega d’università mi disse: «Quello della femminiltà è un falso problema: ogni donna è “femminile” per l’ovvia ragione di essere… femmina». Sono passati quasi venticinque anni e ancora lo benedico. Tuttavia con l’incantevole e misteriosa astrazione di quel sostantivo non ho mai fatto davvero pace. Così, quando ho pensato a un testo che giocasse con i troppi luoghi comuni e le crude verità che esso implica e sottende, il piccolo calembour del titolo è nato prima di tanti contenuti. Allora sono andata da Fabio e gli ho chiesto di scriverlo. Fin da subito ho saputo due cose (che forse sono rimaste le uniche di cui ancora ho certezza dal momento che il copione continuamente mi apre nuove suggestioni dalle quali mi lascio volentieri sorprendere): la prima era che volevo a tutti i costi evitare l’autoreferenzialità e perciò non avrei dovuto scriverlo io; la seconda, che lui ne sarebbe stato l’Autore perfetto. Perché è un drammaturgo eccellente e perché è l’amico più diverso da me che io abbia mai avuto. Dalle nostre chiacchierate non sempre pacifiche, dal confronto durante la stesura è nato un copione che mostra le contraddizioni con scabra determinazione, senza nemmeno cercare di armonizzarle. La forma, mi sembra, che meglio si addice al contenuto! Poi, dopo averlo interpretato un paio di volte ho capito che il lavoro aveva bisogno di un’ulteriore distanza e così ho deciso di curarne solo la regia affidandone l’interpretazione a Francesca. Che, come speravo, ne è diventata un po’ autrice anche lei… (F. G.)

RASSEGNA STAMPA
Cosa succede quando una signora s’ignora? In questo gioco di parole sta tutto il monologo scritto da Fabio Massimo Franceschelli, uno dei giovani autori più interessanti del nostro panorama teatrale. Il soggetto, così come la regia e l’interpretazione, sono tutti al femminile. Sul palco vengono analizzati in questa chiave i vari cliché ‘in rosa’: seduzione, maternità, amore e altri comportamenti femminili, quanto sono davvero consapevoli e quanto indotti dalla società? La protagonista ne ha per tutti. Un “vaffanculo” per ogni stereotipo, dalle veline, ai perizoma, al sesso in cambio di un lavoro. Perché, alla fine, “l’attore scopa in virtù dell’antico mestiere, la donna attrice invece è ‘na mignotta”. Una bella lista delle ipocrisie moderne in cui rischia di finire anche l’ Autore stesso, più volte tirato in ballo. C’è molta ironia nel testo, e l’attrice, Francesca La Scala, regge bene il ritmo, per descrivere dei vari atteggiamenti maschili che imprigionano le donne in una gabbia. Donne lasciate per le più banali scuse, perché “devi crescere”, perché ”pensi sempre al sesso e non va bene”, o perché “non ci pensi affatto”. Per finire col peggiore: “Ti lascio perché ti amo troppo”. Quante falsità ignoriamo sulle donne? Triste, ma qui si ride, come fossimo su un palco di Zelig. Per intenderci: i tempi e i modi sembrano quelli. Istrionico nell’espressione, amaro nei contenuti.
Gaetano Massimo Macrì – periodicoitalianomagazine.it
Approda al Roma Fringe Festival il testo di Fabio Massimo Franceschelli, con soggetto e regia di Francesca Guercio, portato in scena da Francesca La Scala. Francesca La Scala entra dalla “platea”, che in questo caso consiste semplicemente nelle splendide scalinate del parco di Castel Sant’Angelo, con l’intento di passare tra il pubblico per stupire il pubblico. Prenderà il via da questa prima trovata, che sottolinea ironicamente il ripetersi di alcuni cliché teatrali, il tentativo da parte della protagonista di riuscire a non farsi “ignorare”, nella propria natura di donna prima ancora che in ambito professionale. Sul palco ad attenderla c’è una confusione di accessori femminili, borse borsette scarpe e vestiti di vari colori e generi, alcuni simulacri della condizione femminile come fornetto a microonde e scopa e, per finire, una Barbie ed un Ken nudi in prima linea. Sulla destra del palco, un grande divano gonfiabile blu elettrico, sul quale Francesca sprofonda per raccontarci la sua storia, in bilico tra finzione e autobiografia, con un ritmo sfrenato che ci coinvolge sin dalle prime battute. Tanti i temi affrontati nei sessanta minuti del monologo, dalla maternità all’essere figlia, dalla realizzazione professionale al difficile rapporto con l’universo maschile, dalla politica alla corruzione del mondo del teatro. Temi già sentiti, vero, ma la particolarità nasce dall’intreccio e dall’alternarsi di tre voci che si avvertono chiare all’interno della pièce: la forte e decisa interpretazione di Francesca La Scala, la silenziosa ma determinante regia di Francesca Guercio e la penna sorprendentemente maschile di Fabio Massimo Franceschelli. Un piccolo ma grintoso spettacolo che porta in platea le tante contraddizioni del mondo femminile, utilizzando come strumento di analisi proprio una scrittura tutta maschile.
Serena Lena – saltinaria.it
Un calembour ad atto unico entra dalla platea per non stupire il pubblico e per dar forma a un’opera a più autori. “S’ignora” non ignora e non nasconde il felice intreccio fra la scrittura drammaturgica di Fabio Massimo Franceschelli, l’interpretazione di Francesca La Scala e la regia di Francesca Guercio, anzi ne fa tesoro per la resa sfaccettata di una donna, di un’attrice, di una quarantenne, di un personaggio. Difficile parlare di categorie o operare distinzioni nette fra di esse in questo caso, dove pure le caratterizzazioni sono esplicitate e servono a definire quella sottile linea d’ombra che la protagonista si trova a percorrere nella durata di un monologo; sulla strada della presa di coscienza e dell’assimilazione di un appellativo e di un’età, declinati al femminile dal femminile, si procede per tentativi, metasoluzioni e accostamenti imprevisti.
Le questioni aperte (e destinate a rimanere tali) sulla femminilità, sulla sessualità, sulla maternità, sulla condizione lavorativa di un’attrice quarantenne risultano falsi problemi perché l’unico movimento tangibile è quello di una donna in bilico sul filo dell’ossimoro, sul quale tenta di ricostruire una sintesi del proprio passato e di misurarne la taglia sul metro dell’abito della seduzione. Ma se l’abito è evidentemente fallato – o di volta in volta troppo corto, largo, stretto o completamente fuori tono per essere indossato – gli accessori custodiscono tutta «l’ingenuità delle solite domande» e i sacri doveri imposti dall’ordine sociale e dall’urgenza del presente fuori scena. I continui cambiamenti di tono e punto di vista fra i due nudi di plastica di Ken e Barbie e il passo sfalsato di antitesi e tesi al gran ballo di definizione dell’identità non può e non vuole arrivare a una conciliazione tra le parti o a una loro soluzione, ma sembra piuttosto dirigersi ironicamente (ma non troppo) in luogo di un vecchio adagio. “Alla fine ognuno balla con sua nonna”, si dice talvolta. Ognuna/o balla con se stessa o con se stesso, con ciò da cui viene ma anche talvolta e inevitabilmente contro di esso.
Ines Baraldi – recensito.net
Una Barbie nuda se ne sta abbandonata sul proscenio; intorno, il palco è disseminato di accessori femminili, in gran parte borse e borsette, ma anche (simulacri di società patriarcali) un fornetto elettrico e una scopa; sulla sinistra un angolo off-limits attorno al quale si srotola del filo spinato; sulla destra un divano gonfiabile e un comodino filiforme che fa da altare votivo con tanto di incenso per un pupazzo di Ken in costume da bagno, unico elemento maschile. Quello è l’autore, a cui si deve il massimo rispetto, di cui si esaltano le righe poetiche, quello con l’estro incontrollato di chi ha il permesso di immaginare qualsiasi cosa, di dare forma a qualsiasi ipotesi e di imporre qualsiasi soluzione. Ma questa volta non è così. Il terreno metateatrale su cui si muove l’intero monologo viene calpestato da subito e con frenesia e spirito tali da liberarsi (saggiamente) di certi cliché altrimenti davvero troppo sentiti. Molto è in mano all’interprete, che commenta le battute stesse senza una reale pretesa di confondere il pubblico su cosa sia scritto e cosa improvvisato, piuttosto usando questo ritmo sincopato come un veicolo tenace per andare avanti nel racconto.
Questa generazione è stata nutrita a cabaret (anche inconsapevolmente, come cercava di sottolineare Elvira Frosini nel suo Digerseltz, in scena una mezz’ora prima in sala Orfeo) per troppo tempo e il rischio che certe tirate sulle «donne tutte mignotte» in mezzo a uomini affascinanti latin lover suonino un po’ indigeste è lampante. Sarà anche lo schema a stand-up comedy cui la forma monologo scopre il fianco, ma certe volte – soprattutto laddove è potente la presenza dell’attore/attrice – il modo con cui si passa da un’invettiva all’altra conserva un po’ di quell’ammiccamento televisivo, complice la resa al linguaggio forte e al dialetto. E però a salvare questa operazione da una deriva eccessivamente verbosa e compiaciuta è la struttura stessa del testo, così ben razionalizzato dentro i ragionamenti di una donna-modello. Nel senso più filosofico e meno romantico del termine. Maternità, realizzazione professionale e rapporto con gli uomini sono le tappe di una ricerca interiore volta a ricostruire un percorso di coscienza. Anche il pericolo di eccessivo femminismo è scongiurato da una messinscena disseminata di trappole e sgambetti (sia per l’attrice che per lo spettatore), che fa di tutto per presentare tesi, discuterle e metterle da parte, in una forma di negazione che non è mai definitiva, mai rassicurante.
Il contributo visivo di qualche semplice ed efficace cambio luci e di momenti più solenni (un parto simulato sotto le luci rosse in cui La Scala confonde le battute tra urla strazianti e un epilogo con emblematici cetrioli affettati a colpi di mannaia) accompagnano lo spettatore in questo piccolo ma grintoso spettacolo, che non disperde mai la propria energia. E sul ponte sbilenco e sperimentale di una scrittura maschile al servizio di un’analisi femminile la lotta dei sessi perde finalmente ogni equilibrio di propaganda culturale, tornando a vivere di carne e di ironia. Come dovrebbe sempre essere tra gli animali intelligenti.
Sergio Lo Gatto – Teatro e Critica
L’attrice Francesca La Scala prende una sigaretta. L’accende. Inizia un paradossale sobbalzare dal metateatro all’autobiografia di una donna nell’universo confuso dello spettacolo, parlando di quell’esplosione di contraddizioni che sembra la vita appena trascorsa. La girandola di temi trattati è, apparentemente, un insieme di storie di cattiveria tutta al maschile, di devastazione culturale e di femminilità svilita. Un monologo dove possiamo trovare sfogo isterico e cinica riflessione, umorismo condito da improvvise e durissime frecciate all’orgoglio sessuale del maschio. Nel raccontare l’attrice si rivolge ora al pubblico ora all’autore. Stavolta è lei l’autrice e non ammetterà uomini nella delicata fase di scrittura. Per essere donna nonostante l’uomo, per essere femminile nonostante l’apparente bisogno di seduzione, per essere artista nonostante il riconoscimento, deve smetterla di ignorarsi. Divenire soggetto. […] La psiche sotto assedio di quest’attrice è impegnata nell’epurazione del superfluo, un’operazione tanto netta da interessare la sua stessa identità. Un gioco per liberarsi dell’inconscio superfluo che non ci appartiene, terapeutico come il teatro. Complice il soggetto di Francesca Guercio, la pièce di Fabio Massimo Franceschelli si rivela tracciata con il pennello della sincerità. Parlando con il cuore spesso si tratta temi scomodi, in un modo fin troppo diretto, finendo per offendere spesso chi è abituato a non ascoltare o, ancora più spesso, chi ha interessi da difendere. Attori e attrici si sfidano nel riuscire a dimostrare sincerità sul palcoscenico, con il rischio di annoiare. Il guadagno, però, è maggiore di ogni perdita. Molte ferite dell’uomo, originate dalla vanità, sono state curate grazie al calore di un riflettore, mentre altre volte quel calore ha solamente peggiorato le cose. In entrambi i casi, c’è stato cambiamento.
Guglielmo M. Basili – Pensieri di Cartapesta