Le due culture: analfabetismi letterari e digitali

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Si chiama Analfabeti digitali la piccola inchiesta pubblicata recentemente da Repubblica , e si chiama “analfabetismo digitale” l’handicap culturale messo a fuoco.
Si parte da dati statistici di fonte ISTAT 2010 relativi alla conoscenza del computer e della rete tra le varie fasce d’età in Italia e si conclude confermando esattamente quel che ci si potrebbe aspettare: primo, i giovanissimi conoscono i nuovi mezzi di comunicazione più degli adulti; secondo, l’alfabettizzazione digitale italiana è di gran lunga meno diffusa di quella americana. Nulla di nuovo, quindi. Nulla di sorprendente.
Qualcosa di più interessante sta nei dettagli. Ad esempio, la fascia d’età 45-54 anni, quella giustamente ritenuta nel pieno della vita produttiva, un’età dove mediamente si equilibrano verso l’alto esperienza, entusiasmo, fantasia e benessere fisico, ha una conoscenza di internet ferma al 53%. Questo sì mi sembra un dato agghiacciante. Probabilmente più comprensibile alla luce delle brutte peculiarità sociali italiane, comunque non meno disturbante, è il dato riferito per la stessa fascia d’età al genere sessuale: l’ignoranza digitale è più un problema femminile che maschile, e questa è un’ulteriore conferma di quanto il mondo produttivo italiano sia ostile alle donne.
In definitiva, una sociologia che ribadisce la costante perdita di terreno che il nostro Paese denuncia verso i propri “simili”, simili che in una accezione molto world business si dovrebbero definire competitor.

Mi ha invece più colpito il concetto di “analfabetismo digitale” equiparato dall’OCSE all’analfabetismo tradizionale, entrambi forieri di potenziale esclusione sociale. Mi colpisce perché mi si pone come immediata l’identificazione tra alfabetizzazione e cultura, e quindi l’analfabetismo come il grado zero della cultura. Ma si tratta davvero di un’equazione valida? Quale il rapporto tra “cultura” e i due analfabetismi?
Iniziamo con quello letterario. Si potrebbe obiettare l’ipotesi che la conoscenza della scrittura sia “solo” uno strumento – al limite il migliore – per acquisire cultura e che quindi – sempre ipoteticamente – potrebbe esistere un totale analfabeta che tuttavia possiede un elevato grado di conoscenza del mondo, della vita, delle persone. Un po’ l’estremizzazione del diffuso detto “ho preferito conoscere il mondo viaggiando e facendo esperienza piuttosto che sui banchi di scuola”. All’opposto c’è Kant, il più grande filosofo moderno che dubito si sia mai mosso da Königsberg. La vita di Kant, reale e provata, è sicuramente più credibile dell’ipotetico analfabeta colto. Cioè, la nostra è una cultura profondamente letteraria e l’idea che la cultura sia un oggetto indipendente dal linguaggio che la descrive e la vivifica è assurda. E se il linguaggio è per definizione metaforico allora “tutta” la cultura lo è.

Anche l’analfabetismo digitale è il grado zero della cultura? Per carità, basti pensare all’ignoranza abissale di tanti hacker, web master o web qualunque cosa, così come mi vengono in mente le personali conoscenze di persone coltissime ma in evidente imbarazzo di fronte all’accensione di un computer. Risponderei allora che l’analfabetismo digitale è il grado zero della cultura digitale, della cultura letteraria no.
Ma le due culture non effettuano una forma armonica di transizione, di dissolvenza incrociata l’una nell’altra, non si conseguono né si presuppongono, semmai per ora si usano. La letteraria cerca di studiare, analizzare, comprendere l’altra così come ha cercato sempre di comprendere qualunque fenomeno materiale, spirituale, emozionale, etc. La digitale si ciba della letteraria, la digerisce, la fa sua. Tra le due il rapporto è di reciproco distacco.

Nell’articolo di Repubblica, il direttore dell’Osservatorio della lingua italiana Zanichelli, Massimo Arcangeli, afferma che nascere e crescere in una cultura digitale rischia di “strutturare menti più sintetiche che analitiche”. Traduco a mio modo questa possibilità dicendo che la cultura digitale sposta la forma del linguaggio – il proprio effetto cognitivo – dal metaforico al simbolico.

La cultura digitale si espande progressivamente. D’accordo, è “solo” un mezzo, è “solo” un linguaggio ma talmente pervasivo da cambiare la sostanza stessa del concetto “cultura”, finora plasmato dal linguaggio letterario. La cultura digitale è destinata a prendere il posto di quella letteraria così come quest’ultima prese il posto di quella orale. Non prefiguro un mondo colonizzato da miliardi di lobotomizzati dallo sguardo assente, presi esclusivamente dal dialogo con la propria connessione. Penso ad un costante mutamento dei segni, delle grammatiche, delle sintassi, delle deduzioni, delle interpretazioni. Penso alla sopravvivenza della scrittura inglobata all’interno di un sistema semantico che la comprende cambiandone il ruolo, ormai depotenziata della sua capacità unica di generare ragionamenti e significare cose. Penso alla struttura cognitiva umana spostarsi dal metaforico al simbolico. Penso che ancor più della scrittura ne soffrirà la parola, il dire (cosa di più umano del dire?).

E per tornare all’oggi e all’analfabetismo digitale, penso che un progressivo ridursi degli spazi vitali per gli analfabeti della rete sia già evidente anche tra chi, di questi, è colto “tradizionalmente”. Certo, possiamo fregarcene di internet e andare in libreria ad acquistare un libro, non che un libro nella sua tradizionale forma cartacea non serva più ma che tutto quel fertile corollario generalmente successivo alla lettura, e che in quel libro ha il suo fuoco, corollario fatto di discussioni, approfondimenti, recensioni, scambi d’opinione, ormai si svolge tutto in internet. Chi non conosce il mezzo ne è escluso. Se c’è qualcosa che stride alla cultura è la sua solitudine; una cultura in solitario appassisce, termina nella tomba insieme al suo possessore.
Infine, in questa futurologia, mi viene da pensare che se la nostra civiltà letteraria ha generato le grandi “religioni del libro” (o fu il contrario?), non è poi così lontano il tempo di un “dio della rete”.