MARAT/SADE – il livello verticale che non dovrebbe esistere

Die Verfolgung und Ermordung Jean Paul Marats, dargestellt durch die Schauspielgruppe des Hospizes zu Charenton unter Anleitung des Herrn de Sade, dramma di Peter Weiss, anche noto come Marat/Sade, scritto e rappresentato nel 1964. Tradotto e pubblicato in Italia nel 1967 da Einaudi, Collana Supercoralli, col titolo La persecuzione e l’assassinio di Jean-Paul Marat, rappresentato dalla compagnia filodrammatica dell’ospizio di Charenton sotto la guida del marchese de Sade; traduzione di Ippolito Pizzetti.

Il modello strutturale che vorrei proporre e utilizzare per l’analisi di questa drammaturgia di Peter Weiss si basa sull’individuazione di alcuni livelli teatrali “nidificati” l’uno nell’altro. Per livello teatrale intendo un sistema semiotico, ovvero produttivo di significato sociale, che presenta entrambe le seguenti condizioni: a) è composto da un piano narrativo autonomo il quale; b) viene rappresentato (messo in scena). Dunque, osservando la struttura del testo come vedessimo un organismo sezionato in altezza, partendo dall’alto avremo un primo livello che ne contiene un secondo. Tuttavia l’approfondimento che segue mostrerà l’inadeguatezza di questo primo abbozzo strutturale che, almeno nel caso del Marat/Sade, andrà necessariamente complicato.

Il primo livello teatrale, che convenzionalmente chiamo “livello zero”, è implicito alla rappresentazione di questo testo come di qualunque altro testo: è la visione, a cui possiamo partecipare o con vista e udito, quindi da spettatori, o, anche, con la sola immaginazione stimolata dalla lettura, quindi da lettori. Qual è l’oggetto di questa nostra visione, reale o immaginaria? La messa in scena di un testo teatrale del 1964 di Peter Weiss dal lungo e articolato titolo: “La persecuzione e l’assassinio di Jean Paul Marat, rappresentati dai filodrammatici di Charenton, sotto la guida del Marchese di Sade“, testo più semplicemente noto come “Marat/Sade“. La visione e la messa in scena (regia, attori e recitazione, scrittura scenica, qualunque atto o elemento teso alla rappresentazione della vicenda, ecc.) sono elementi sincronici e appartenenti al primo livello teatrale, il “livello zero”.

Poi si pone il secondo livello teatrale, il “livello meno uno”, interno al primo, e precisamente interno alla vicenda narrata dal primo: una filodrammatica capitanata dal Marchese de Sade mette in scena una vicenda storica risalente ai tempi della rivoluzione francese, l’assassinio di Jean-Paul Marat. Questa messa in scena è immaginata avvenire nel 1808 a opera di una compagnia di pazienti psichiatrici internati nel manicomio di Charenton e diretti da de Sade, anch’egli paziente del frenocomio, seppur di riguardo. Lo spettacolo ha, a sua volta, un suo pubblico, un pubblico “teatralizzato” (oggetto di rappresentazione) composto dal direttore, dalla sua famiglia, dai dipendenti dell’ospedale psichiatrico. Anche in questo caso c’è una linea sincronica che coinvolge il pubblico reale, quello teatralizzato, tutta la messa in scena della vicenda da parte di de Sade e della sua compagnia.

Ho scritto sopra che il livello è teatrale in quanto coincide con la rappresentazione teatrale di un piano narrativo. I livelli produttivi della funzione relazionale teatrale sono quindi due, la rappresentazione del testo di Weiss (livello zero) e la rappresentazione dell’uccisione di Marat diretta da de Sade (livello meno uno). Se invece facessi coincidere i livelli solo con i piani narrativi autonomi, ne dovrei individuare un terzo, convenzionalmente “livello base”, quello della vicenda che non contiene altro che se stessa, un livello teatralmente muto e passivo, che si fa rappresentare ma non rappresenta. Qual è questa vicenda che fa da base alle precedenti e che su queste proietta il suo riverbero? Lo dice il titolo: “La persecuzione e l’assassinio di Jean Paul Marat“, una vicenda storica, un assassinio avvenuto nel luglio del 1793 da parte della girondina Charlotte Corday. In definitiva, con la distinzione tra piani esclusivamente narrativi e piani teatrali posso complicare la struttura con un terzo livello. Avremo quindi: la vicenda (piano narrativo ma non teatrale), la rappresentazione della vicenda (piano narrativo e teatrale), la rappresentazione della rappresentazione della vicenda (piano narrativo e teatrale).

La struttura così disegnata a livelli decrescenti, o a matrioske, o, ancor meglio, a cilindro telescopico, è ovviamente, e pienamente, riconducibile all’antico espediente del teatro nel teatro, ovvero il fare di una rappresentazione teatrale l’oggetto drammatizzato della rappresentazione teatrale “vera”, soluzione teoricamente infinita nel numero delle iterazioni, come nelle immagini costruite sull’effetto Droste, ma che comunque, a prescindere dagli enne livelli messi in scena, ha sempre un piano esclusivamente narrativo, la vicenda che nel caso di Marat/Sade ho definito “base” (“che non contiene altro che se stessa”), che entra nella struttura teatrale solo se, e in quanto, viene rappresentata.

È abbastanza? No, non ancora; potrebbe esserlo nel caso di un testo metateatrale classico, non in questo Marat/Sade, costruzione drammaturgica in cui l’architetto Weiss escogita una sorprendente innovazione strutturale, tira fuori dal cilindro qualcosa di illogico, che non dovrebbe esistere, che contraddice l’impenetrabilità dei singoli livelli: il protagonista del livello meno uno, de Sade, dialoga con il protagonista della vicenda che sta rappresentando, Marat; attenzione: non dialoga da regista con l’attore che interpreta Marat, ma da personaggio con l’altro personaggio. In tal modo, grazie a questo sconfinamento tra livelli, a questa confusione ragionata dei piani narrativi, la “base” Marat viene drammatizzata (ovvero recuperata al teatro) due volte: attraverso la vicenda dell’uccisione del rivoluzionario giacobino, e questo è il “livello meno uno”, e poi attraverso l’esposizione del suo pensiero politico, in dialettica con quello del nichilista de Sade. Il confronto-scontro tra i due opposti mondi intellettuali dà vita a un livello trasversale, direi addirittura verticale laddove i precedenti sono orizzontali, un livello che si pone come la vera ragion d’essere del dramma, il “livello Marat/Sade”, principale vettore del dibattito tematico che il brechtiano Weiss offre al pubblico.

The Machines attack Mankind, Berlin 1935. Peter Weiss.
The Machines attack Mankind, Berlin 1935. Peter Weiss.

Qual è questo dibattito tematico? Che attinenze ha, se ne ha, con la contemporaneità? Donatien-Alphonse-François de Sade, più noto come Marchese de Sade, aristocratico francese, filosofo, poeta, drammaturgo, saggista, politico rivoluzionario, e poi notoriamente libertino e trasgressivo, razionalista, ateo, anticlericale, nichilista, libertario, anarchico ante litteram. Il suo interlocutore, a lui coetaneo e connazionale, si chiama Jean-Paul Marat, medico, scienziato, saggista, giornalista, politico rivoluzionario, giacobino radicale. La dialettica tra i due mostra il combattimento tra posizioni estreme, che hanno qualche iniziale punto in comune (l’anticlericalismo, a esempio) ma poi divergono in antitesi, modi di essere opposti, eppure entrambi così poco moderni o, meglio, così poco spendibili nella quotidianità, perlomeno nella quotidianità del “costruire”, ottimi invece per la quotidianità del “distruggere”: il nichilismo disilluso, Sade, e l’intransigenza rivoluzionaria del “Terrore”, Marat, concezioni della vita entrambe poco cattoliche, poco politiche, poco utili alla costruzione del sociale. Ed è nel confinamento storico delle loro idee che Sade e Marat trovano, se non un accordo, uno spazio comune – spazio anche fisico: il manicomio – che li accoglie e li connota entrambi.

SADE – Me ne infischio di questi movimenti di popolo

che girano intorno mordendosi la coda

Me ne infischio di tutte le buone intenzioni

che si disperdono in vicoli ciechi

me ne infischio di tutti i sacrifici

che si fanno per questa o quella causa

Io credo solamente in me stesso

MARAT – Io credo solo alla causa

che tu tradisci

[…]

SADE – Credi che li renderesti felici

se ciascun potesse percorrere la sua strada solo a metà

e andasse a sbattere sempre nell’uguaglianza

Credi che esisterebbe un progresso

se ciascuno fosse soltanto un piccolo anello

di una grande catena […]

MARAT – […] si tratta di un principio

che la rivoluzione esige

che i tiepidi e i compagni di strada

vengano espulsi

Per noi non esiste altra soluzione

che abbattere fino alle fondamenta

per quanto ciò possa apparire spietato

alle pance satolle che si crogiolano nel loro benessere

Eppure se ci si approccia al dramma di Weiss nella maniera meno preconcetta possibile, lasciando affiorare “naturalmente” sensazioni, immagini, collegamenti, intuizioni, non possiamo non percepire tra le pieghe del testo che la vera dialettica agitata non riguarda le tesi contrapposte dei due protagonisti – un discorrere tra i due che a lungo andare diviene rumore bianco -, semmai l’inquieto dualismo tra forme: forme teatrali novecentesche: il teatro epico di Bertolt Brecht e il teatro della crudeltà di Antonin Artaud; e poi forme antropologiche: mente e corpo, ragione e carne, intelletto e passione. Weiss confeziona un’architettura teatrale nella quale convivono e si dispiegano due dimensioni solitamente inconciliabili: raffinate – fredde, lucide – riflessioni politico-filosofico da un lato; corpi fuori controllo dall’altro, corpi di pazzi “scostumati”, di rivoluzionari sanguinari, di sadici perversi, corpi nudi, feriti, malati, incatenati, convulsi, rapiti dalle passioni. Ai lucidi ragionamenti di Marat e Sade – ragionamenti pacifici e astratti per loro natura – sull’utilità o meno della violenza rivoluzionaria, si contrappone una violenza ben più reale e disturbante perché non semplicemente ragionata o evocata ma mostrata all’interno di una situazione considerata normale, una necessità dell’organizzazione sociale: il manicomio, e quindi la privazione della libertà, i ceppi e le frustate, le malattie che devastano la carne, i corpi osceni che rinnegano la compostezza borghese. Una dimensione, questa dei corpi e della carne, dentro cui il Sade di Weiss – qui avo del colonnello Kurtz di Apocalypse Now, nonché alfiere in scena di Antonin Artaud – si muove con soddisfatto, seppur tragico, piacere:

per tredici anni

ho appreso

che questo è un mondo di corpi

ed ogni corpo è pieno di una forza tremenda

e ogni corpo è solo tormentato dalla sua irrequietudine

[…]

Chiuso dietro tredici chiavistelli

il piede nel ceppo

sognavo soltanto

queste fessure dei corpi

che esistono soltanto

per uncinarvisi ed esserne inghiottiti

In definitiva un testo, il Marat/Sade di Weiss, che per l’articolata, quasi esagerata, complessità strutturale, per la varietà dei temi affrontati, nonché per la ricchezza letteraria, scenica, pittorica, musicale e coreografica, e poi per la potenza dell’immaginario oscuro che mostra e sollecita, per i continui cambi di registro che propone, per la sua capacità di soddisfare un po’ tutte le grandi istanze artistiche del 900, non si inquadra, non si circoscrive, non entra in categorie precise, è schivo, sfuggente, scostante, ma soprattutto inquieta, perché – seppur in secondo piano, sorta di fantasma del testo e del palcoscenico – mostra la sconfitta della ragione, dell’ordine, della progettualità, mostra il logos che arranca di fronte all’impazzimento della carne, alle convulsioni che scuotono gli attori pazzi, alle dermatiti e al prurito che torturano Marat, all’obesità che immobilizza Sade. L’apparato statale, il potere politico e religioso, rappresentato dalla figura del Direttore Coulmier, chiude in gabbia questa débâcle della ragione, questo scandalo di corpi scomposti, di inarrestabile disordine, lo chiude dentro un manicomio ma poi commette l’errore di teatralizzare il tutto e il teatro, com’è nella sua natura, libera e amplifica ogni contraddizione. Un testo che non si inquadra, scrivevo, ma che realizza in potenza (il testo teatrale ha sempre energie sceniche “in potenza”) una delle più compiute e rigogliose espressioni di arte totale dello scorso secolo.

articolo già pubbicato nel blog TERRA DI NESSUNO – CRITICA DELLA DRAMMATURGIA

NO MAN’S LAND (TERRA DI NESSUNO) – la primavera non verrà mai più

No Man’s Land, di Harold Pinter, scritto nel 1974, prima rappresentazione e pubblicazione nel 1975. 1^ ed. italiana 1979, Einaudi, trad. Cesare Garboli, Elio Nissim, Romolo Valli. 2^ ed. italiana 1996, Einaudi, trad. Alessandra Serra, Laura del Bono, Elio Nissim

SPOONER – No. Sei in terra di nessuno. Che non si muove, che non cambia, che non invecchia, ma che dura in eterno silenziosa e glaciale.

HIRST – A questo io bevo.

Beve… Poi lentamente cala il sipario. 

Probabilmente non esiste approfondimento critico di questo dramma che non si sia posto l’obbligo di rispondere alla seguente domanda: qual è, o cosa è, questa terra di nessuno di Harold Pinter “Che non si muove, che non cambia, che non invecchia, ma che dura in eterno silenziosa e glaciale” (“Which never moves, which never changes, which never grows older, but which remains forever icy and silent”)? È un obbligo a cui nemmeno io voglio sottrarmi, tutt’altro, e darò una lapidaria risposta che tuttavia, da sola, mi sembra in grado di gettare luce sull’enigmatico testo pinteriano più di quanto possano pagine e pagine di riflessione: la terra di nessuno di Pinter è la vita. Alla celebre, suddetta, battuta di Spooner risponde il suo contraltare Hirst: “A questo io bevo” (“I’ll drink to that!”) e con questo scambio il dramma si chiude. Hirst, quindi, beve alla vita, non brinda ma beve, come avviene di continuo in questo testo, tutti bevono, tracannano whisky come fosse acqua fresca. Ma se si “brinda” a qualcosa, alla vita ad esempio, festeggiandola, non si “beve” a qualcosa. Il bere (alcol ovviamente) veicola una dipendenza, una passività, una fuga, una sconfitta. Di fronte alla vita “icy and silent” di Spooner (e di Hirst, che anticipa nel primo atto la medesima battuta) la soluzione dei 4 personaggi di No Man’s Land non è di festeggiare, ovvero brindare, ma di bere. E qui devo aprire un inciso: i tre traduttori della prima versione italiana del testo – Cesare Garboli, Elio Nissim e Romolo Valli, traduzione del 1979 – scelgono il letterale “bere” per “drink”, e “I’ll drink to that!” diventa “A questo io bevo”. Alessandra Serra, Laura del Bono ed Elio Nissim che tradurranno per la versione del 1996, faranno un’altra scelta rendendo “I’ll drink to that!” con “A questo io brindo”. Quest’ultima soluzione mi pare una forzatura: Hirst non brinda; in nessun momento del testo, tantomeno nel finale, maturano le condizioni per brindare a qualcosa; non brinda ma beve fino allo stordimento come un disperato alcolista e il senso di “I’ll drink to that” si trova in un gioco di parole dove “drink” è sì letteralmente bere (in questo caso il bere dell’alcolista) ma è anche una dichiarazione di accordo con la precedente battuta di Spooner, un “ben detto!”, un “concordo con te e bevo”, un “sono d’accordo con la tua visione della vita ed è per questo che bevo”. Potremmo fermarci qui, ma non si deve mai far coincidere un testo teatrale con la sua ermeneutica allegorica, come sempre c’è molto di più.

Una stanza nella villa di Hirst, una variante del salotto borghese dove più di un mobilio basilare cattura lo sguardo l’esposizione di libri e alcolici. Hirst e Spooner sono in scena e parlano delle qualità che formano il “vero uomo”: forza, intelligenza, perspicacia. Noi non sappiamo nulla di loro e, a quanto pare, anch’essi sono ignari delle rispettive vite, non si conoscono, si sono incontrati casualmente la sera stessa in un parco, entrambi intenti a praticare voyeurismo; poi Hirst ha invitato Spooner a casa sua e ora approcciano una conoscenza più approfondita. Il secondo atto smentirà il primo proponendo Hirst e Spooner come amici di vecchia data, due intellettuali che rivaleggiavano per la carriera e per le donne. Hirst sembrerebbe essere un letterato, un saggista, un poeta; Spooner si rivela garzone di birreria e anch’esso poeta. Poi entrano Foster e Briggs, altre incognite in gioco. Il primo dice di essere figlio di Hirst ma poi si qualifica come suo segretario e infine come suo allievo poeta. Briggs è altrettanto misterioso, si muove con il piglio da padrone di casa ma assolve a funzioni riconducibili al “maior domus”. In definitiva ogni pagina smentisce la precedente e contraddice la successiva, qualunque ricerca di coerenza narrativa in questo testo è tempo perso; i personaggi esistono solo in base a ciò che dichiarano in quello specifico istante, e nell’istante successivo pur restando sempre gli stessi sono cambiati, hanno un’altra storia, altre esperienze, altre relazioni. 

Spooner, Hirst, Foster, Brigs, quattro personaggi maschili, due sessantenni e due più giovani (trent’anni Foster e quaranta Briggs), vecchi contro giovani come nelle commedie classiche, eppure questa differenza generazionale non sembra produrre alcun fluire del tempo (“Which never moves, which never changes, which never grows older”). Nulla accade, nulla è accaduto, i quattro personaggi quasi mai entrano veramente in relazione tra loro, si aggirano, semmai, come morti viventi romeriani all’interno di una realtà grottesca, “silenziosa e glaciale”, svelata dalla quarta parete della scatola scenica che li illumina e li offre, a noi lettori/spettatori, non come fuochi di una narrazione strutturata su eventi, accadimenti, meccanismi di causa-effetto, bensì come deboli fantasmi che stancamente e con poca convinzione reiterano brandelli di identità degne al più di un gioco infantile (una sorta di “facciamo finta che…”). Il realismo di Pinter, quel contesto che all’inizio, come sempre nei suoi drammi, appare solido e riconoscibile, viene tradito man mano che i dialoghi procedono svelando le deformità dei personaggi. Spooner in particolare, centro ideale del dramma, anche in termini di composizione del quadro scenico, esorbitante e verboso nel linguaggio, suggerisce una medesima, flaccida, eccedenza corporea, una forma monolitica che erutta parole con musicale monotonia. 

SPOONER – Sono un amico ostinato delle arti, specialmente della poesia, e una guida per la gioventù.  La mia casa è aperta a tutti.  Ci vengono giovani poeti. Mi leggono i loro versi. Offro loro il caffè e i miei commenti senza chiedere il conto. Sono ammesse le donne, ce n’è qualcuna che è anche un poeta. Altre non lo sono. Anche alcuni degli uomini non lo sono. Molti degli uomini non lo sono. […]

Con Terra di Nessuno, con Spooner su tutti, Pinter riprende temi cari a Ionesco: l’indipendenza del linguaggio che si fa oggetto sociale, abito da indossare nelle varie situazioni, e poi il parlare che sovrasta e dissolve il parlatore, il dialogo che non comunica. In alcuni drammi di Ionesco (La Cantatrice Calva in particolare) quel che va in scena è la frattura tra linguaggio e umanità: il primo ha vita a sé e usa la seconda come proprio habitat, fino a configurare l’ipotesi di un’ontologia del linguaggio. In Pinter l’operazione differisce parzialmente: il linguaggio non ha la forza impetuosa che mostra in Ionesco, non maschera il vuoto tramite una parvenza di vitalità e dialettica, non socializza. Spooner soprattutto, ma anche Hirst e, in misura minore, Briggs e Foster, eruttano parole che non vanno da nessuna parte, non compiono il tragitto tra emettitore e ricevente ma ricadono addosso al primo dei due poli come magma liquido e infuocato e questa verbalità che gli cola addosso svela, parzialmente e instabilmente, quasi per contrasto, per impermeabilità direi, anzi per solidificazione e stratificazione, il suo profilo altrimenti invisibile. Abbiamo quindi una deriva solipsistica del linguaggio e al tempo stesso un’iperstimolazione verbale e perciò eccedenza del significato che da veicolo di senso e riconoscimento transita nei territori del non sense. Nel testo di Pinter il non sense è inquietante, definisce il personaggio per negazione, per ciò che non è (operazione, in un certo senso, non estranea alla letteratura mistica). È un linguaggio ambiguo e depistante, spiazzante, non dice “questi sono dei buffoni ingenui e/o spersonalizzati” (come avviene in Ionesco), dice semmai “questi non sono nulla di quel che affermano, o di quel che credi”, e l’inquietudine nasce anche dall’impossibilità di definirli, di uscire dal dubbio per giungere alla certezza.

“Anche”, scrivevo, non “solo”: Pinter sa sollecitare ulteriori inquietudini disseminando elementi istintuali tra tutti i personaggi, una carica di violenza e di potenziale sopraffazione, un abbrutimento generalizzato, una mancanza di dignità che sfocia nel servilismo. Sullo sfondo una struttura oppositiva – spesso presente nei suoi drammi – tra cultura (sbandierata) e natura (istinto che emerge). Molti dialoghi si presentano come corda tesa tra questi due poli, mezzo per tener viva una tensione che però non esplode mai. Il linguaggio schizofrenico evidenzia la doppiezza, multiformità, ambiguità, mutabilità pericolosa dell’uomo e delle relazioni che costruisce. La natura emerge sulla patina di cultura. L’uomo, qualunque cosa affermi, non è quel che mostra. Viene da chiedersi quanto ci sia di autobiografico, o comunque frutto di esperienze dirette, in questa narrazione degli ambienti culturali, quanto la coppia Hirst/Spooner – intellettuale di successo il primo, artista fallito il secondo – sia sineddoche affidabile. Certamente in questo testo Pinter lascia galoppare la propria fantasia sui campi sterminati degli ambienti letterari e artistici che ben conosce, le dinamiche e le relazioni che in quegli ambiti prendono vita, i rapporti di potere, le umiliazioni, i servilismi, i deliri egotici. Il ritratto pinteriano del mondo intellettuale, quello dei poeti in particolare, è parodistico e grottesco ma al tempo stesso impietoso.

foto di scena estratta da “IL DRAMMA – mensile dello spettacolo”, n.3 marzo 1978

È il 1974, i principali capolavori dell’assurdo sono stati scritti e pubblicati, il genere non fa più scandalo, è stato digerito e assimilato e nessuno si chiede più chi o cosa simbolizzi Godot. No Man’s Land rappresenta probabilmente il “boato” finale che chiude un lungo spettacolo pirotecnico, il colpo di coda di un’estetica che, a sua volta, è il colpo di coda delle avanguardie storiche, davvero una lunga coda che dal primo Novecento si incunea nel secondo attraversando i disastri bellici da cui prende in eredità disillusione, nichilismo, amarezza. L’assurdo è avanguardia fattasi vecchia, è priva di spensierato vigore, di voglia di vivere. Harold Pinter chiude il genere con un dramma che, come avviene con i bambini, ruba somiglianze da entrambi i genitori: è un nuovo Fin de Partie dove però i quattro prigionieri del solito spazio chiuso, Hirst/Hamm, Spooner/Clov, Brigs/Nagg, Foster/Nell, rinunciano anche alla resa dei conti, e troppo stanchi per battaglie e giochi di potere lasciano spazio a un teatro borghese senza passato né futuro, inscenato al più da presenze fantasmatiche; ma è anche un testo che chiama in causa Ionesco per chiudere definitivamente ogni progetto sulle capacità socializzanti del linguaggio, che in No Man’s Land ha prospettive al più onanistiche.

Fantasmi quindi, ma fantasmi che fanno sorridere. “Non c’è niente di più comico dell’infelicità“, fa dire Beckett a Nell in Finale di Partita, e Pinter non si tira indietro nell’applicare la lezione di uno dei suoi due maestri: la natura farsesca del dramma emerge con ogni evidenza nei tratti comici dei tanti scambi tra Spooner e Hirst nel primo quanto nel secondo atto.

SPOONER – Una volta frugai con gli occhi nel volto di mia madre. Non vidi altro che pura e semplice malevolenza. Sono fortunato di essere ancora vivo. Lei vorrà sapere che cosa avevo fatto per suscitare tanto odio in mia madre. 

HIRST – Si era pisciato addosso. 

SPOONER – Proprio così. Quanti anni pensa che avessi allora?

HIRST – Ventotto. 

SPOONER – Proprio così. 

Tuttavia l’umorismo (involontario, nelle intenzioni dei personaggi) emerge sì qua e là ma non prende mai il sopravvento. Al pubblico appare in ogni caso una parvenza di serietà e di intellettualismo che però, già a uno sguardo un poco meno distratto, si svela nella sua ingannevolezza, un po’ come avviene nelle immagini prodotte dalla Intelligenza Artificiale dove tutto a prima vista appare familiare (un mobile, un vestito, un qualunque oggetto di uso quotidiano) ma a una osservazione più attenta ogni elemento risulta sconosciuto, non conforme alle aspettative. Come anticipavo sopra, l’operazione di Pinter passa sempre, o spesso, attraverso un realismo che fa da cornice a una dilatazione e deformazione dei tratti e dei comportamenti umani, il che tradisce proprio quella premessa di realismo che si rivela essere illusoria. L’opera di Francis Bacon (che non a caso appare con un suo soggetto sulla copertina dell’edizione Einaudi 1979) è un buon riferimento pittorico per comprendere la deformazione dei personaggi pinteriani (Spooner su tutti).

SPOONER – Che meraviglia.  Continui. Continui a dirmi ancora delle piccole eccentriche perversioni di quella vita e di quel tempo. Mi inquadri, con tutta l’autorità e lucidità di cui può disporre, la struttura socio-economica-politica dell’ambiente in cui lei ha raggiunto l’età della ragione.  Mi dica di più. 

Dove risiede, quindi, in ultima analisi, la grandezza e soprattutto l’originalità di questo classico? Quale lezione ci lascia o, meglio, in qualità di ultimo esemplare di una “stirpe” di opere, ci ribadisce? Credo che No Man’s Land sia solo in parte, una parte evidente ma non più che epidermica, la tematizzazione drammatica di una visione della vita pervasa da un nichilismo senza speranza – argomento, questo, che non sarebbe certo una novità nella longeva produzione dell’assurdo. Credo, invece, che questo testo sia sostanzialmente un discorso interno al teatro, in particolare un discorso sul testo teatrale, un’eredità che possiamo sintetizzare in questo assunto: non esistono personaggi preesistenti alle loro parole o, formulazione più radicale, non esistono personaggi ma solo le loro parole. 

HIRST – Cambiamo argomento. (Pausa) Una volta per tutte. (Pausa) Che cosa ho detto?

FOSTER – Ha detto di cambiare argomento una volta per tutte. 

HIRST – Ma che cosa vuol dire?

FOSTER – Vuol dire che una volta cambiato l’argomento, lei non lo cambierà mai più. 

HIRST – Mai più?

FOSTER – Mai più. 

HIRST – Mai più?

FOSTER – Lei ha detto una volta per tutte. 

HIRST – Ma che cosa vuol dire? Che – cosa – vuol – dire?

FOSTER – Vuol dire per sempre. Vuol dire che l’argomento è cambiato una volta per tutte, per l’ultima volta, e per sempre.  Se, per esempio, l’argomento è “l’inverno”, sarà inverno per sempre. 

HIRST – L’argomento è l’inverno?

FOSTER – Ora l’argomento è l’inverno.  E resterà quindi inverno per sempre. 

BRIGGS – Una volta per tutte. 

FOSTER – E durerà per sempre. Se a entrare in argomento è l’inverno, per esempio, la primavera non verrà mai più. 

articolo già pubbicato nel blog TERRA DI NESSUNO – CRITICA DELLA DRAMMATURGIA

SUNSET LIMITED – le vie cieche dell’Occidente

The Sunset Limited: A Novel in Dramatic Form, di Cormac McCarthy
2006, USA – 2008, Italia (traduzione di Martina Testa)

BIANCO – […] credo nel valore delle cose.
NERO – Ok. Di quali cose?
BIANCO – Di un sacco di cose. Le cose culturali, per esempio. I libri, la musica, l’arte. Cose di questo genere. […] Queste sono per me le cose che hanno valore. Sono la base della civiltà. O quantomeno, un tempo avevano valore. Probabilmente oggi non ne hanno più tanto.
NERO – E cosa gli è successo, a quelle cose?
BIANCO – La gente ha smesso di dar loro valore […] Quel mondo è in gran parte scomparso. E fra poco lo sarà del tutto.
NERO – Non so se riesco a seguirti, professore.
BIANCO – Non c’è niente da seguire. Va bene così. Le cose che amavo un tempo erano molto fragili. Molto delicate. Ma io non lo sapevo. Pensavo che fossero indistruttibili. E mi sbagliavo.
NERO – Ed è questo che ti ha spinto a buttarti giù dal binario. Non una questione personale.
BIANCO – Ma è una questione personale. É proprio questo l’effetto dell’istruzione. Rende il mondo intero qualcosa di personale.
NERO – Hm.
BIANCO – Cosa, hm?
NERO – […] a che servono idee del genere se poi non riescono a farti tenere i piedi incollati a terra quando arriva il Sunset Limited a centotrenta all’ora?

Binari attraversano la drammaturgia americana e la parabola umana che questa racconta. Binari che se alla fine dei ’40 aprivano a sogni e promesse grazie all’indolente andirivieni di A Streetcar named Desire, ora lasciano sfrecciare l’aggressiva e disillusa mortalità di un Sunset Limited – letteralmente “tramonto limitato” -, storico treno passeggeri che collegava New Orleans a Los Angeles. Da Desire scendeva Blanche DuBois alla ricerca di una nuova vita, di un riscatto al fallimento che si lasciava alle spalle; sul Sunset Limited tenta di gettarsi, e quindi di chiudere la propria vita, un non meglio specificato intellettuale “Bianco”. Ci prova ma non ci riesce perché ad impedirglielo interviene un (altrettanto “non meglio specificato”) ex galeotto “Nero”.

Cormac McCarthy, scrittore che nei suoi romanzi predilige le tinte vigorose ed icastiche e che nel narrare spande le avvisaglie dell’imminenza apocalittica, affronta questa drammaturgia abbracciando un dualismo radicale, didascalico addirittura, o stereotipato, ma lo fa con una tale padronanza del dialogo da allontanare nel lettore ogni sospetto di ingenuità o di pregiudizi: McCarthy è maestro autorevole e dispotico, attraverso un raffinato e deciso gioco linguistico guida senza incertezze il lettore portandolo dove lui decide di portarlo. Sottolineo il ruolo risolutivo del dialogo perché se la drammaturgia è solitamente una partitura a due strumenti, dialogo e azione, detto e fatto, voce e corpo, Sunset Limited tralascia sostanzialmente il secondo per costruire un edificio che si dimostra funzionale all’atto teatrale nonostante si basi, appunto, su un solo componente, quello dialogico. Quindi basta un dialogo – pur se maestoso – per transitare dalla letteratura alla scena? McCarthy stesso sembra “fiutare” e disinnescare l’eventuale interrogativo utilizzando come sottotitolo la locuzione “Romanzo in forma drammatica” il che, ulteriormente e su suggerimento dell’autore, sembra spingere l’approccio al testo in direzione non tanto di una forma narrativa contrapposta ad una drammatica quanto di un “letterario” che si oppone a “scenico”. Se ogni drammaturgia deve saper rispondere della sua duplice appartenenza di prodotto letterario e di futuro elemento di scrittura scenica, Sunset Limited sembrerebbe perciò disinteressarsi della seconda possibilità proponendosi come elegante riflessione esistenziale a due voci, assolutamente statica riguardo i movimenti nello spazio scenico. “Sembrerebbe”, appunto, ma non è così: Sunset Limited è genuino e puro oggetto teatrale. Vediamo perché.

I due personaggi, il Bianco e il Nero, si affrontano l’uno di fronte l’altro. Li vediamo seduti, un tavolo li separa, profili affilati che si oppongono, tendenzialmente fermi, stilizzati, sono segni o, addirittura, elementi scenici, arredi. Sono immobili ma le loro voci no, le voci si muovono e bucano la quarta parete. Il primo aspetto che connota il dialogo tra i due è l’agonismo. In genere l’agonismo è movimento fisico, è azione, l’agonismo non si sposa con la stasi ma qui avviene o, meglio, è la stasi che si cala nell’agone e che inscena un combattimento con le armi del testo e della voce, del logos e del dialogo. È una partita: il Nero attacca, il Bianco si difende. Ma in una lotta non ci può essere particolare spazio per le sfumature, per le mezze misure, non sono funzionali a questo tipo di attività, ed ecco che McCarthy cala gli stereotipi forti, il nero vs il bianco, il povero vs il benestante, il galeotto vs l’onesto, l’ignorante vs l’intellettuale, il religioso vs l’agnostico, lo spirituale vs il razionale, la fede vs la ragione. Riassumendo, un nero povero, ex galeotto, ignorante ma ricco di fervore religioso si oppone ad un bianco benestante, ben integrato in società, un professore colto e scettico in materia di fede; la contrapposizione è marcata, priva di mediazioni, di punti di incontro, di accordi. La nettezza con cui McCarthy disegna i due poli contrapposti cattura l’attenzione del lettore/spettatore: da due uomini in scena ti aspetti e pretendi movimento e azioni, da due princìpi no, la relazione tra princìpi si sposta su un altro piano, quello delle argomentazioni. Ma il teatro, si obietterà, è terra per attrici e attori, non per idee astratte e disincarnate. No, il teatro è terra per elementi di scrittura scenica e per la partitura multisensoriale che questi vanno a comporre, sollecitando tanto i sensi quanto la mente dello spettatore. Nel teatro “in atto” convergono le estetiche e le regole della pittura, della musica, della dialettica: la drammaturgia di Sunset Limited regala il dualismo bianco/nero per la prima, un ritmo raffinato e sempre controllato per la seconda, una battaglia a colpi di argomentazioni per la terza.

Il testo annulla fisicità e temporalità, depotenzia spazio e tempo, per il primo rendendo assenti significativi movimenti fisici, per il secondo ignorando la narrazione intesa come successione di eventi e scegliendo, semmai, una dialogicità che è approfondimento e destratificazione della medesima e sempre stessa problematica esistenziale. Le due tesi contrapposte si studiano attraverso silenzi e fasi interlocutorie per poi attaccarsi improvvisamente alla ricerca della stoccata vincente. La pausa diviene motore del movimento verbale/testuale, carburante del ritmo, strumento primario della base ritmica dell’azione verbale, ne causa il ripartire subitaneo, lo “stop and go”. Con rara sensibilità musicale McCarthy usa la pausa per creare un sottofondo di sospensione, un silenzio “elastico” dove la parola o, meglio, la frase, rimbalza e schizza impazzita e si rifrange in una moltiplicazione esponenziale che raggiunge lo spettatore da ogni direzione avvolgendolo. Artaud, in Il Teatro e il suo Doppio, parlava della parola in termini di sua <<capacità di espansione […], di sviluppo nello spazio, di azione dissociatrice e vibratoria sulla sensibilità>>. Artaud si riferiva agli aspetti prosodici della parola e perciò alla sua interpretazione, ma la tesi è valida anche per il testo che l’autore offre all’interprete, un testo non ancora recitato ma che già ha in sé, nella sua struttura, il dono della musica. Il potere avvolgente della frase, dunque, la sua mobilità ed elasticità sviano il pubblico dal bisogno di osservare dei movimenti: la percezione sonora, il maggior “nutrimento” uditivo, compensa la staticità dello sguardo inchiodato sui due opposti cromatismi, Bianco e Nero, duplici punti di fuga della composizione pittorica creata dal romanziere di Providence, giganteschi altoparlanti di una tenzone che ci riguarda tutti.

<<Niente di quello che succede significa qualcos’altro>>, dice il Bianco, e con questa frase nega di colpo l’intera storia e cultura dell’Occidente, improntata alla metafora e alla ricerca del senso. E ancora: <<La felicità è contraria alla condizione umana>>, <<La sofferenza e il destino umano sono la stessa cosa. L’una è la descrizione dell’altro>>, <<L’evoluzione non potrà non condurre la vita intelligente alla consapevolezza di una certa cosa sopra tutte le altre, e questa cosa è la futilità>>. Le opinioni del professore Bianco sono figlie di un nichilismo radicale, conclusioni logiche di una razionalità portata ai limiti estremi, sorta di malattia autoimmune della ragione. La risposta del Nero è nella fede, nella presenza di un senso divino in tutto, di una teleologia degli accadimenti. É uno scontro sul piano dinamico dell’agonismo, scrivevo prima, ma pur trattandosi di una sfida testuale e verbale non è l’arma dell’abilità retorica a condurlo. La retorica è quasi del tutto assente, né i dialoghi attingono a sofismi, tutt’altro: nonostante la profondità e complessità del tema, e soprattutto grazie alla conduzione del Nero, le argomentazioni si avvalgono di allegorie, di metafore, di piani discorsivi sorprendentemente accessibili, un linguaggio “quotidiano” direi. Non c’è abilità retorica, dicevo, c’è semmai <<l’accompagnare il proprio interlocutore a “partorire” la verità>>, definizione, questa tra caporali, abbastanza comune in rete come spiegazione del cosiddetto metodo maieutico di paternità socratica. La forma dialettica del filosofeggiare socratico, raccontata da Platone nel Teeteto, è detta maieutica (dal greco “maieutikḗ”, ovvero “ostetricia”) in quanto, in analogia al fare della levatrice con la partoriente ed il feto, tende a guidare l’interlocutore (generalmente con brevi e precise domande) in un percorso che dovrà chiudersi con la conoscenza sia del suo errore, sia della Verità che finora mai aveva raggiunto. É il metodo che adotta il Nero, è lui il “nostro” Socrate ma davanti a sé non ha l’arrendevolezza di un Alcibiade, né di un Teeteto, e il professore Bianco rintuzza, quasi con noia, i tentativi persuasivi del Nero che evidentemente, dall’alto del suo scetticismo, gli debbono apparire del tutto inefficaci. Eppure il Nero è molto lontano dall’essere un ingenuo sprovveduto e si dimostra un più che degno avversario dell’intellettuale Bianco:

NERO – […] Non sono uno che dubita. Però sono uno che fa domande.
BIANCO – E che differenza c’è?
NERO – Be’, secondo me chi fa domande vuole la verità. Mentre chi dubita vuole sentirsi dire che la verità non esiste.

E così tra continui assalti, mirabili parate, improvvisi contrattacchi, citazioni shakespeariane (<<Chi sarebbe disposto a sopportare questo incubo, se non per paura dell’incubo che lo seguirà?>>) il testo scorre aspro e crudele verso il finale di partita, finale che non riesce a decretare un vincitore ma nemmeno un pareggio: in realtà Sunset Limited mette in scena due tragiche sconfitte, quella della fede e quella della ragione: il Bianco (la ragione) abbandona la scena con la propria foga autodistruttiva illesa; il Nero (la fede) piange l’assenza dentro di sé delle <<parole giuste>>. Sono due inettitudini che si annullano a vicenda, le vie cieche dell’Occidente.

articolo già pubbicato nel blog TERRA DI NESSUNO – CRITICA DELLA DRAMMATURGIA

Il “male” e il fascismo nell’ultimo Pasolini (Salò e Petrolio)

finzione (fotogramma da Salò)
finzione (fotogramma da Salò)

realtà (foto delle torture nella prigione di Abu Ghraib)
realtà (foto delle torture nella prigione di Abu Ghraib)

 

 

 

 

 

 

 

 

Salò rappresenta cinematograficamente il “male”, e lo fa dandogli la veste storica del fascismo repubblichino. Il fascismo è l’immagine chi si accompagna al concetto di “male” per farne un significante riconoscibile. Il punto da indagare è se la scelta pasoliniana di adottare il fascismo come forma storica – incarnazione – del “male”, sia mirata a una condanna assoluta del fascismo oppure sia semplicemente dettata dalla necessità di “vestire” storicamente e socialmente il “male”, ovvero farlo apparire nella Storia attraverso l’uso di un qualunque momento storico dell’umanità.

In realtà il “male” in Salò trascende il fascismo e l’esperienza storica repubblichina. Il “male” in Salò non è in alcun modo un documento storico e soprattutto è avulso dalla Storia perché se nella Storia si manifesta – di qualunque momento si tratti – della Storia si disinteressa: non ha finalità teleologiche, non risponde a un disegno di conquista dell’umanità in un contesto manicheo di lotta tra tenebre e luce. Il “male” di Salò, il “male” pasoliniano, è autoreferenziale, vive di se stesso, è interessato solo a se stesso. È come un buco nero, un vortice che attrae tutto a sé e nulla rilascia. La pianista che si getta nel vuoto di fronte alla scena finale delle torture collettive è emblematica in questo senso: il suo movimento è verso il luogo delle torture, non è a fuggire da esso. La pianista si lancia verso il “male” e vi si annulla perché dopo averlo visto all’opera non può darsi alla fuga, perché non potrebbe più vivere gestendo quella parte di “male” che ormai è in lei, è entrato attraverso i suoi occhi, alberga nella sua memoria. Il “male” in quella forma così assoluta non lo si può gestire, divora. Altrettanto vale per le figure dei quattro “signori”. Questi, più che essere uomini che consapevolmente scelgono da dare “male”, sono strumenti inconsapevoli di qualcosa che li trascende: dal “male” sono agiti e posseduti. Nel film non hanno alcuna vestigia di umanità, sembrano semmai demoni che non godono semplicemente per il male che arrecano ma godono perché essi sono il “male” che si manifesta e che vive colpendo chiunque, a partire da se stessi. Non hanno nessun interesse verso le loro vittime, non sono mossi da odio personale o politico verso loro, semplicemente hanno bisogno di vittime perché il “male” non può manifestarsi senza queste, e se stessi sono vittime felici delle proprie depravazioni inenarrabili. Al “male” interessa esclusivamente l’atto maligno, ed è questo un atto che vive il suo limite proprio nella Storia: «noi vorremmo uccidervi per l’eternità» dice ad un certo punto uno dei quattro carnefici. Il “male” tende quindi ad eternarsi, a divenire principio fuori dal tempo.

C’è una sorta di forza centripeta che muove la struttura del film e che, come in un gorgo, aumenta di intensità proporzionalmente al suo procedere verso l’atto finale che tutto ingoia. All’inizio c’è la Storia ma è solo un pretesto: si parte da immagini riconducibili al fascismo e alla guerra, i rastrellamenti, Salò, Marzabotto, e si finisce con un’apoteosi maligna che è fuori da qualunque riferimento storico, è l’inferno. Il Pasolini di Salò non è storico né sociologo, è semmai un uomo in preda ad una visione a carattere apocalittico. Ma, come San Giovanni, Pasolini è un artista, non un passivo “megafono di Dio”. La sua è un’estasi che controlla razionalmente e che riporta in scena con la precisione di un orologiaio. Lavora su tempi dilatati e silenti, unisce inquadrature rigidamente simmetriche a un movimento spiraliforme che tende a chiudersi in sé, a svanire nell’implosione. A tratti sembra richiamarsi a Kubrick, a quella sua tragica certezza sull’unione indissolubile tra il manifestarsi della razionalità e del “male”. Ma poi l’estasi riprende il sopravvento e dalle geometrie di Kubrick si passa al caos di Bosh e del suo Giudizio universale riecheggiante nelle torture finali. Ma impressiona la glacialità delle ultime scene: un silenzio indifferente che mette i brividi e che ancor più di Bosh mi rammenta l’ineluttabile pessimismo della Flagellazione di Piero della Francesca.

Ci si può anche leggere – ed è stato spesso fatto – un’allegoria sul potere. I quattro “signori”, l’Eccellenza, il Presidente, il Monsignore, il Duca, rappresentano poteri sociali e politici, quello giudiziario, quello economico, quello religioso e quello dell’aristocrazia. Salò diviene quindi l’immagine di una degenerazione del potere – ma la cosa mi appare semplicistica – o più probabilmente la lucida constatazione che il “potere” è, come il “male”, fine a se stesso («la sola vera anarchia è quella del potere» afferma il Duca): il potere non è niente più che un insaziabile appetito. Non esiste conseguentemente rapporto sociale che non sia rapporto di potere e che – questo sì è molto pasoliniano – non risponda alla logica della complicità tra vittima e carnefice. Ricordo bene di aver letto in un passo di Petrolio una frase che pressappoco diceva: «non c’è disegno di carnefice che non sia suggerito dallo sguardo della vittima». Se poniamo attenzione al fatto che Petrolio e Salò risalgono all’incirca agli stessi anni – tra il ’73 e il ’75 il romanzo, mentre il film data 1975 – probabilmente sveliamo una chiave di lettura interna – intima e inconscia – all’autore stesso. Ancora Petrolio: «il Possesso è un Male, anche per definizione, è il Male: quindi l’essere posseduti è ciò che è più lontano dal Male, o meglio, è l’unica esperienza possibile del Bene…» [appunto 65, p. 319]. Salò, quindi, sembra risolversi intorno a un dualismo tra la carne che mangia (possiede) e la carne che viene mangiata (viene posseduta). Omosessualità, sodomia, il “male” del carnefice che possiede e il “bene” della vittima che si fa possedere… temi che girano intorno alle ultime opere di Pasolini, fantasmi che sembrano non dargli pace, ancora “buchi neri” che attraggono ma non svelano nulla. I fantasmi tormentano Pasolini, come suggerisce anche il suo amico Alberto Arbasino in una intervista sul quotidiano “La Repubblica” del 21 ottobre 2005: a una domanda riguardo la sua opinione su Salò, tra le altre cose Arbasino parla di un film angosciante, ma «l’angoscia che quel film mi trasmetteva non era tanto per le immagini che vedevo, quanto perché un amico si era arrovellato su quei fantasmi». E quali erano i fantasmi su cui si arrovellava il Poeta? L’esistenza del male? Le torture? Le violenze? Le ingiustizie? Più probabilmente, parafrasando il film di Jonathan Demme, si trattava de “l’innocenza del silenzio”, il silenzio rassegnato delle vittime, non di chi possiede ma di chi viene posseduto. Il suo silenzio.

Nonostante ciò, l’esegesi del film ha sempre trascurato la poetica pasoliniana – intima, e quindi incomprensibile – per una lettura ideologica semplice e a tutti comprensibile. Inquadrare Salò nella “visione antropologica” pasoliniana, quella per intenderci degli Scritti corsari, non è difficile né errato, in un certo senso direi che è scontato. Che Salò rappresenti il vertice estremo della degenerazione del potere può essere suggerito anche dal modo di porsi e del sesso e della violenza: non c’è alcuna sorta di piacere, non c’è motivazione contingente, c’è solo fame e voracità, metafore dell’avidità del potere che si ciba dei corpi altrui, o anche metafora dell’avidità consumista.
Ma i “falli” smisurati e le sodomizzazioni che sovrabbondano in Salò come in Petrolio sfuggono alle interpretazioni politiche e sociologiche. Eppure Pasolini è stato anche questo, un esteta dell’atto sodomitico. Ed è in questa estetica ossessivamente riprodotta che risiedono i suoi fantasmi, che emerge confuso il senso del “bene” e del “male”. Dice Blangis (il Duca): «Il gesto sodomitico è il più assoluto per quanto contiene di mortale per la specie umana; il più ambiguo, per quanto accetta, allo scopo di trasgredirle, le norme sociali; è infine il più scandaloso, perché pur essendo il simulacro dell’atto generativo, ne è la totale derisione». Ecco un esempio di come l’uomo cerca “cultura” all’interno dei propri istinti naturali.
La mia impressione su Salò – come su Petrolio – è che queste opere nascondino un tentativo di mettere a fuoco quei fantasmi. Sembra come se Pasolini giri intorno ai propri “buchi neri” nel cercare di conoscerli a fondo, dargli ordine, risolverli. Ma non ci riesce, e l’intelligibilità delle due opere diviene necessariamente parziale ed insoddisfacente. D’altronde un’opera d’arte non è un rebus: va ascoltata, non “decifrata”. L’idea di Salò come film metafora sul potere ha una sua verità ma Salò è sempre qualcosa di più perché è Pasolini a essere qualcosa di più. Non sono mai stato attratto dall’idea che esista una razionalità assoluta, estranea alla dimensione intimamente umana di chi la pratica; le grandi teorie sociali portano sempre il marchio dell’individualità e dell’intimità e di chi le crea e di chi le sposa. Allora il Pasolini sociologo (e l’artista Pasolini) non può essere disgiunto dall’uomo Pasolini e dalla sua “vita interiore”.

Torniamo a Petrolio, vero scrigno dell’interiorità pasoliniana (dalla quarta di copertina dell’edizione Einaudi: «…un libro […] che è una specie di ‘summa’ di tutte le mie esperienze, di tutte le mie memorie»). L’appunto 67 intitolato Il fascino del fascismo pone con evidenza equivalenze e contrapposizioni illuminanti. Si parte dall’enunciazione di una sorta di motore esistenziale dell’umanità: il “sentimento del passato”, il tentativo (tragico perché inesorabilmente fallace) di ricostruire, ripercorrere, immaginare, interpretare la vita dei padri e il loro passato. La continuità del passato invade tutta la vita presente: «La stabilizzazione del Presente, le Istituzioni e il Potere che le difende, si fondano su questo sentimento del Passato, come mistero da rivivere: se noi non ci illudessimo di rifare le stesse esperienze esistenziali dei padri, saremmo presi da un’angoscia intollerabile, perderemmo il senso di noi […]. Il Fascismo esprime in modo primitivo e elementare tutto questo: perciò dà il primo posto alla filosofia irrazionale e all’azione […]. Il Fascismo è l’ideologia dei potenti, la rivoluzione comunista è l’ideologia degli impotenti. […] I potenti sono anche carnefici, gli impotenti sono anche vittime» [p. 263, miei i corsivi].

E poche righe dopo: «Nel potente non c’è ambiguità; e così in coloro che decidono di obbedire al potente […]. Le vittime sono invece profondamente ambigue: la loro decisione di rifiutare il potere che hanno a portata di mano, per crearne un altro in un domani incerto, improbabile, spesso idealizzato e utopistico, non può non insospettire. Si può condannare il potente […] e si possono condannare i giovani che […] decidono di stare con i potenti […] in tutto questo non c’è niente che insospettisca […]. Anzi, è difficile pensare come mai a qualcuno possa venire in mente di fare la scelta contraria…» [pp. 263-264].

Concludo il “saccheggio” a Petrolio con l’appunto 126 intitolato Manifestazione fascista (seguito). Ora è Carlo Valletti (il protagonista dell’incompiuto romanzo) che riflette osservando al centro di Torino lo svolgersi di un corteo fascista: la decadenza antropologica che dà forma allo sguardo del Pasolini sociologo non risparmia nemmeno i nuovi fascisti: «Le persone che passavano davanti a Carlo erano dei miseri cittadini ormai presi nell’orbita dell’angoscia del benessere. […] Facevano pena, e niente è meno afrodisiaco della pena […]. Erano dei piccoli borghesi senza destino, messi ai margini della storia del mondo, nel momento stesso in cui venivano omologati a tutti gli altri» [p.503]. E poche righe dopo: «I veri fascisti erano ora in realtà gli antifascisti al potere. Il potente era Carlo…».

In definitiva, mi sembra che Petrolio chiarisca Salò in questi termini antitetici:

  • da un lato abbiamo male = potere = fascismo = carnefice = possedere sessualmente
  • e dall’altro abbiamo bene = impotenza = comunismo = vittima = essere posseduti sessualmente

Insomma, è l’essenza stessa del potere – qualunque potere – ad essere fascista, e tale potere è sempre ontologicamente “male”.
Mi sembra una chiave di lettura utile per orientarsi meglio nel labirinto pasoliniano ma, come ho detto prima, lungi da me l’idea di “decifrare” Pasolini e le sue opere in termini di rebus. La struttura oppositiva delineata si limita a dare indicazioni, coordinate generali, tuttavia in nessun modo può essere esaustiva né della poetica dell’Autore, né di Salò, né di Petrolio. Salò stesso, a ben pensare, la contraddice: i fascisti carnefici non si dedicano solo al “possedere” (sessualmente) ma a loro volta si fanno possedere con gioia. Forse la contraddizione rientra se si pensa che il farsi possedere dei quattro “signori” non è una passiva e silenziosa accettazione di una prevaricazione altrui bensì volontaria scelta. Probabilmente in questo caso non conta più la distinzione tra atto passivo e attivo, conta l’opzione intenzionale per il gesto sodomitico che – ripeto la citazione del Duca Blangis già prodotta sopra – «…è il più assoluto per quanto contiene di mortale per la specie umana; il più ambiguo, per quanto accetta, allo scopo di trasgredirle, le norme sociali; è infine il più scandaloso, perché pur essendo il simulacro dell’atto generativo, ne è la totale derisione». La sodomia quindi è “male” perché deride la vita e la mortifica mentre l’accettare in silenzio, da vittima rassegnata, la prepotenza della possessione è, per Pasolini, il “bene”, e si tratta di un “bene” a forte connotazione politica e rivoluzionaria. Ma il “male”, nell’Italia dei primi anni ’70, ha trionfato inesorabilmente sul “bene” dell’utopia comunista e Pasolini ne prende nota nell’osservare l’umanità che vive nelle nuove periferie: «…quella gente non opponeva più la sua cultura a quella dei padroni, quella gente non conosceva più la santità della rassegnazione, quella gente non conosceva più la silenziosa volontà della rivoluzione» [Petrolio, appunto 124, p. 497, corsivi dell’Autore].

L’omologazione televisiva cambiava la gente e faceva morire le grandi utopie rivoluzionarie: quella fascista, “virile ed ascetica” (vedi appunto 126, p. 503), e quella comunista, forte nella misura della sua rassegnazione e del suo silenzio. Ma se il fascismo moriva come utopia rivoluzionaria, esso permaneva ineliminabile nell’esistenza maligna del Potere.

(articolo già pubblicato in una prima versione in Amnesia Vivace n° 16, dicembre 2005)

intervista su Salò a Pasolini

link a XXX PASOLINI spettacolo teatrale

L’inganno della Scrittura Creativa

Snoopy scrittore (Peanuts, Schulz)
Snoopy scrittore (Peanuts, Schulz)

Il concetto di Scrittura Creativa non l’ho mai amato molto. Ovvio che la scrittura lo sia, così come lo è qualsiasi altra espressione artistica, ma la comunicazione ultimamente inflazionata di questo concetto dà volontariamente spazio a vistosi fraintendimenti: creativa come libera, creativa come ludica, creativa come rilassante; creativa, insomma, come lo è uno spazio di alterità rispetto a un mondo ingabbiato e stressato tra norme, doveri e regole. Non è mai così, qualunque scrittore si accorge che lo spazio di creatività nel proprio lavoro è ridotto a un impulso iniziale (che a ben guardare è anch’esso figlio più della necessità che della libertà), e che l’opera che sta creando, dopo solo poche pagine, assume una personalità e una progettualità talmente inflessibili e tiranne da annullare la volontà del creatore stravolgendola nell’asservimento completo. Allora nulla diventa più doveroso e metodico della tua scrittura e scopri che non ha più – né ha mai avuto – la funzione di divertirti o rilassarti ma solo quella di servire lei, la tua opera, che non è più tua, non è mai stata tua, ma si appartiene, appartiene a se stessa, e vuole essere soddisfatta. Ogni termine che userai, ogni locuzione, ogni verbo saranno studiati e soppesati per lei, perché possa nascere e svilupparsi senza tradire la propria personalità, il suo (e tuo) progetto interiore. Ed essendo sempre lungo il parto di un’opera, settimane su settimane, mesi, forse anni, arriva il giorno in cui ti accorgi che sei cambiato da quando avevi concepito quel progetto, sei un altro, la tua sensibilità e i tuoi desideri sono mutati, e quest’altro che ora sei divenuto vorresti esprimerlo nella tua scrittura ma non puoi, non ancora, almeno non con quell’opera che ancora non ha visto la luce. Devi rimanerle fedele, sempre, comunque, perché lei ha la priorità su di te. C’è tanta genitorialità in questo mestiere, altro che creatività.

Aldo Morto, tragedia di Daniele Timpano

Daniele Timpano
Daniele Timpano

«Va be’. Niente di importante», Aldo Moro è stato ammazzato 35 anni fa. 1978. «Cose che capitavano negli anni settanta». Un’altra epoca. Un altro mondo. Niente di importante… oggi. Allora era tutto in bianco e nero, le 16 sfumature di grigio percepibili avvolgevano i palazzi della politica, come una densa nebbia. Forse si sparava per questo,  per illuminare quella cappa di mistero e foschia che era la politica italiana, per squarciare quel velo di nebbia oltre al quale distinguevi appena vaghe idee di personaggi vecchi e ingobbiti, liturgie secolari ripetersi con l’incedere stanco di un pachiderma, inconfessabili vergogne nazionali negate fino alla morte. La morte, appunto, di Aldo e di tanti altri. Allora, in un’Italia benestante si rincorrevano le incognite della rivoluzione, oggi in un’Italia povera si rincorrono le sicurezze della restaurazione. Un’altra epoca, un altro mondo.

C’è qualcosa di irreale nella politica di questi anni che celebra il martirio di Moro. In quelle facce fintamente addolorate, in quelle corone di fiori bugiardi deposte con residui di energia costantemente più deboli, in tutta quell’ipocrisia istituzionale comprendi la tirannia della forma. Tiranna è la forma perché urla più di ogni contenuto. Tiranna è la forma nella sua disgustosa assertività. Rivoluzionario è colui che rompe la forma e apre spazi di possibilità. L’autore-regista-attore Daniele Timpano ha scritto un monologo intitolato Aldo Morto e l’ha portato in scena in diverse serate sparse per l’Italia. Poi il 16 marzo del 2013 è entrato in una sala del Teatro dell’Orologio di Roma e da lì uscirà l’8 maggio prossimo. 54 giorni di repliche e 54 giorni di autoreclusione in una celletta di 3 metri per 1 ricavata nella stessa sala, alle spalle del fondale. Se è vecchia e noiosa la cerimonia istituzionale in ricordo di Moro che possibilità ha lo spettacolo di Timpano di non replicare la medesima vecchia noia? Una noia profana, contrapposta a quella sacra delle istituzioni ma pur sempre noia. Noia di cose di un’altra epoca, di un altro mondo. Noia perché ci è venuto a noia quel fatto (incomprensibile come tutti i fatti italiani) che ha generato fiumi di analisi e discorsi e parole e accuse e difese e libri e teatro e film…

Ma Daniele Timpano non è uno storico e non ha verità storiche da farci bere. Daniele Timpano non è un politico e non ci propina né morali né ideologie. Daniele Timpano non è nemmeno un giornalista d’inchiesta che svela misteri impensabili. Daniele, tra l’altro, nel 1978 aveva solo 4 anni e di tutti quei fatti – soprattutto di quelle atmosfere – non ricorda nulla. Sì, certo, si documenta, si documenta come un topo da biblioteca ma nessuno pensi che questo suo one-man show sia riconducibile al genere “teatro di narrazione”. In definitiva Timpano è un artista puro, merce rarissima a teatro, e il suo Aldo Morto è uno straordinario lavoro sulla forma narrativa, teatrale e non solo.

Più vecchio di Timpano, io quegli anni e quei fatti me li ricordo abbastanza. Non meno documentato di Timpano ho letto tesi e antitesi sull’argomento. Ecco perché ringrazio Timpano di non aver ceduto alla presunzione di “dirci la sua”, di ammalarsi di tuttologia come molti bravi odierni italiani; nessun sovrappiù di intelligenza sulla vicenda Moro ho avuto dalla visione di questo spettacolo e tuttavia mi è parsa netta e impietosa la pennellata del pittore Timpano nell’inchiodare sulla tela del palcoscenico le forme umane di quella storia, di quegli anni e degli anni a venire. Qui interviene la personale verità artistica dell’autore, una verità disillusa, forse nichilista, un mostruoso miscuglio di ironico distacco e pietosa compartecipazione. Emerge il ridicolo e a volte la disumanità dei personaggi narrati, eppure non ho percepito volontà di condanna, il Timpano giudice e moralista non si è manifestato. Ritratti come grotteschi fumetti,  i protagonisti di quella straziante vicenda italiana si muovono come automi privi di anima, sembrano danzare un macabro gioco di ruolo intorno al palo-totem Moro, e grazie a tale distacco ne cogli le odiose convenzioni, le formalità, le falsità con cui inscenano i loro rituali ipocriti, in qualche modo ne cogli la “necessità” (ananke) e quindi la tragedia. Come se fare a brandelli un evento storico, farne coriandoli e gettarli in aria a caso, affidarli al caso nella loro ricaduta a terra, rendesse il senso della Storia più della storia stessa.

Timpano sembra ripercorrere a tratti l’operazione cubista di sezionamento e ricreazione dell’immagine. Come in un quadro cubista lo sguardo frontale del pubblico abbraccia il soggetto da più angolazioni e la coerenza si perde da vicino e si riacquista da lontano. Ma ogni possibilità di partecipazione emotiva è negata, nonché è negato il tentativo stesso di giungere ad una sintesi in termini di verità storica o politica.  Si affida a salti temporali, improvvise irruzioni autobiografiche, scomposizione e disarticolazione delle convenzioni narrative, tributi estetizzanti ai piaceri del ritmo e della bella e ardita letteratura (il fantastico finale a mo’ di martirologio), calca sull’iperbole senza tradire la verosimiglianza, non è mai credibile in quel che dice, non vuole essere credibile, frulla idee, immagini, fatti, parole, rendendo testimonianza alla sensibilità artistica e comunicativa della nostra epoca. La contemporaneità della sua estetica toglie polvere e ragnatele al teatro italiano e gli dona vita come pochi in Italia sanno fare. 

Aldo Morto è uno spettacolo che ci dice più sulla nostra epoca di quanto dica dell’altra, ormai andata e irraggiungibile. Quella era l’epoca delle grandi narrazioni, la nostra si presenta sempre più come quella delle piccole confusioni. I fatti si dissolvono e si confondono, le verità sembrano imprendibili e cangianti, come farfalle che si fanno beffe del retino che le insegue e che le vorrebbe ingabbiare. La sfida tragica tra l’uomo e la verità sembrano porsi come il vero tema di questo spettacolo la cui visione lascia in retrogusto una rappresentazione dell’umano tangente le dimensioni del mostruoso.

Poi il pubblico esce e l’attore torna nella sua cella di 3 metri per 1, torna alla sua reclusione, accende la webcam e si mette in streaming, si dà in pasto alle comunità virtuali, facebook, twitter, you tube, blog vari. Reclusione e streaming, isolamento e trasparenza, scomparsa e perenne presenza, tutti i poli su cui gioca la nostra contemporaneità.

Il senso di colpa della sinistra italiana

Enrico Berlinguer e Stefano Rodotà
Enrico Berlinguer e Stefano Rodotà

Tra le tante possibili riflessioni sugli eventi politici di questi giorni, una mi sembra meritare un approfondimento e riguarda la figura di Stefano Rodotà e il suo porsi come elemento di rottura all’interno della compagine di centrosinistra. Perché il PD è crollato (anche) su Rodotà? Perché il M5S si è unito, infervorato, rafforzato sul nome di Rodotà? Checché ne dicano molti, Rodotà non è una incomprensibile sorpresa, se non altro perché il suo nome come desiderato Presidente della Repubblica girava in rete già da un paio di mesi, e non per opera del M5S ma per iniziativa di singole persone o di associazioni legate ai diritti civili e alla questione dei “beni comuni”. Chi è Rodotà? Non parlo di curriculum ma di quel profilo pubblico percepito dalla gente, costruito su sensazioni, comportamenti, frammenti di notizie. Un anziano giurista, un intellettuale colto e raffinato, da sempre indipendente di sinistra, fuori dai giochi della “grande” politica, impegnato sui diritti civili, tra i promotori del referendum sull’acqua pubblica (l’unico referendum da tantissimi anni a superare il quorum di partecipazione), vicino all’esperienza romana del Teatro Valle Occupato. Un uomo dal volto onesto, buono e mite ma per nulla arrendevole, tutt’altro, fermo e orgoglioso delle sue idee. Un uomo che quando parla non usa il politichese ma sa farsi capire con semplicità. Quasi un Berlinguer, direi.

Teniamo in mente questa descrizione e ora pensiamo ai dirigenti PD, ai vari D’Alema, Bersani, Letta, Violante, Veltroni, Finocchiaro, Marini etc. Potremmo fermarci qui tanto è evidente e stridente il contrasto. A quella domanda, ripetuta come un mantra in questi giorni, “perché non Rodotà?”, i dirigenti PD risponderebbero candidamente “perché non è uno dei nostri”. E infatti! Rodotà è il volto di quella sinistra che molti di noi vorremmo, il volto di quella sinistra che non c’è e forse da vent’anni a questa parte non c’è mai stato, è il volto del padre defunto che turba la coscienza del figlio errante. È il morso del rimorso, di quel che avremmo dovuto essere e non siamo stati. È il senso di colpa della sinistra italiana, almeno di quella che discende dal PCI. Passione, impegno, idealismo, trasparenza, onestà, coerenza, tutte qualità che il PD ha fatto sprofondare nelle sabbie mobili della politica dei politicanti e che il volto di Rodotà (volto reale, ma in parte proiezione psicologica) incarna.

Una mia vecchia amica psicanalista mi ammoniva dicendo che dove c’è un senso di colpa c’è sempre una colpa. Bene, l’immagine del vecchio Rodotà che scende in piazza per difendere l’acqua pubblica o che incontra e aiuta gli occupanti del Valle riflette impietosamente, come un gioco di specchi contrapposti, la colpa della sinistra istituzionale italiana. E che questa immagine getti nel panico la dirigenza del PD e svegli la memoria compressa e assopita della sua base è terribilmente ovvio. Come dire che prima o poi i nodi vengono al pettine – il nodo di un partito nato dall’incontro tra culture diverse e anche antagoniste –  e che da adesso in poi “pettinare le bambole” non ci basterà più, dovremo semmai pettinare la nostra coscienza.

È ancora più interessante concentrarsi sul senso della candidatura Rodotà da parte del M5S, un movimento che finora si è spacciato per antipartitico, postideologico e fuori dagli schemi interpretativi tradizionale, e che invece con Rodotà e con la recente retorica grillina che ne ha spinto la candidatura si scopre sorprendentemente di sinistra, di “sinistra estrema” si potrebbe dire utilizzando una banale terminologia giornalistica. La scorribanda che negli ultimi giorni Grillo ha fatto dentro l’indifeso campo PD, è un vero e proprio attacco da sinistra, una sorta di shopping nell’hard discount dell’elettorato democratico sotto gli occhi ciechi della dirigenza di quel partito (che ancora non ha capito di aver perduto per sempre gran parte dei suoi elettori), e anche sotto gli occhi increduli di Vendola, che non a caso si è subito rimesso la maschera dell’antagonista, accodandosi alle istanza grilline. Insomma, sembra riproporsi un secolare regolamento di conti a sinistra tra massimalisti e moderati, idealisti e pragmatici, movimentisti e governativi e così via. Resta la tristezza nel constatare come queste due forze, che probabilmente qualcosa di profondo condividono ancora, dispongano insieme di un buon 70% del Parlamento italiano. Quante belle cose potrebbero fare se solo ragionassero… ma qui sto entrando nell’ambito della fantapolitica.

Questa improvvisa connotazione “sinistra” del grillismo, però, rischia di intralciare la crescita e l’identità dello stesso M5S se dovesse configurarsi troppo marcata. Alla gran parte degli otto milioni di persone che hanno votato Grilo probabilmente non frega nulla dei regolamenti di conti tra compagni e fare spesa tra le fila della sinistra PD, perennemente in cerca di una casa stabile e accogliente, è azione relativamente semplice ma anche di limitate prospettive politiche: il sangue PD che il vampiro Grillo sta succhiando in questi giorni prima o poi finirà. Inizi piuttosto a guardare anche dall’altra parte, a cercare di svegliare i sensi di colpa dell’elettorato di destra, ad illuminare le contraddizioni della politica sociale ed economica berlusconiana. L’occhio di riguardo tirato fuori in campagna elettorale verso gli artigiani e i piccoli imprenditori, l’enfasi sull’insostenibilità dell’attuale pressione fiscale, la battaglia verso le grandi concentrazioni bancarie, sono certamente alcune chiavi per aprire la porta dell’elettorato PDL. In teoria dovrebbe esserci anche la legalità, ma quello è un valore che la destra storica italiana ha da almeno venti anni disconosciuto e regalato alla sinistra, che a sua volta ne ha fatto l’uso che sappiamo.

L’inettitudine

sotto Montecitorio qualcuno brucia una tessera PD
sotto Montecitorio qualcuno brucia una tessera PD

Premetto che non ho votato PD ma SEL, che della coalizione Bersani fa parte, e quindi mi sento in diritto di scrivere le seguenti  cose.

Iniziamo con una velocissima cronistoria degli ultimi 50 giorni. La coalizione di Bersani vince le elezioni perdendole, o le perde vincendole, fate voi. Sta di fatto che conquista maggioranza assoluta alla Camera e relativa al Senato: qualsiasi prospettiva di governo necessita della sua approvazione. Già dal giorno dopo Berlusconi offre la sua disponibilità a Bersani ma il nostro rifiuta, dice no, dice che non ci sono condizioni per un “governissimo”, dice che la nostra gente non lo capirebbe. “La nostra gente non lo capirebbe”, non so quante volte in queste ultime settimane ho sentito questa frase dai dirigenti del PD. Bersani, dice lui, lavora per un governo del cambiamento, ovvero si rivolge a Grillo – piuttosto maldestramente, direi, ma comunque cerca un accordo. Grillo gli si nega, arriva a sbeffeggiarlo, mentre dall’altra parte Berlusconi continua a corteggiarlo. Ma il nostro eroe, coerente con le sue idee, insiste con Grillo e così si va avanti fino a questi giorni, alle elezioni per il Quirinale. E qui c’è la prima sorpresa, c’è Grillo che – probabilmente ubriaco, come suggerisce ironicamente Travaglio – tende la mano a Bersani. Gli dice che se votate il nostro candidato allora si può parlare di governo. E chi è questo candidato? Casaleggio? Grillo stesso? Una sconosciuta precaria di Molfetta? No, è Stefano Rodotà, famoso e stimato giurista da sempre impegnato sul fronte dei diritti civili e, soprattutto, un uomo che in qualche modo appartiene alla stessa storia del PD, se non altro per essere stato il Presidente del PDS, partito embrione del futuro PD. È fatta, quindi, penso io. Invece no, perché con un colpo di scena alla Ionesco il Bersani cosa si inventa? Sceglie un candidato insieme a Berlusconi e gradito a Berlusconi.

Cos’è questo, uno scherzo stupido? Una patologia di ordine psichiatrico? Un improvviso manifestarsi della sindrome di Stoccolma? Qualcuno me lo spiega?

Come funzioni Bersani? Come funzioni PD? Per 50 giorni hai predicato questo fantomatico “cambiamento”, hai inseguito Grillo come un martire segue il martirio e ora che tutto ciò che hai cercato sembra materializzarsi tu ti accordi con la destra? Ignorando, tra l’altro, una figura come Rodotà che appartiene alla tua stessa storia politica? Ma io – risponde questo imponente stratega – ho cercato un nome condiviso. Condiviso? E come mai la condivisione di 2/3 del parlamento (PD+PDL+SC) vale più della condivisione di analoghi 2/3 del parlamento (PD+SEL+M5S)? Non è una questione di maggioranza matematica ma una chiara scelta politica.

Io c’ho creduto caro Bersani, ho creduto ad un PD che finalmente aprisse a sinistra, ho fatto il tifo per te, per il tuo tentativo, ho difeso le tue scelte discutendo e litigando con amici evidentemente più lungimiranti di me e ora mi sento preso in giro, io e milioni di italiani. E cosa devo credere? Devo credere “travagliescamente” che l’unica lettura di questi ultimi vent’anni di storia politica italiana sia riducibile ad un accordo sottobanco tra Berlusconi e i dirigenti PDS-DS-PD? Accordo sul genere vivi e lascia vivere?

Ho una lettura un po’ più diversificata dell’amalgama di Travaglio. Più che ai complotti penso all’inettitudine, ad un micidiale mix di cialtroneria, insipienza, meschini egoismi, convenienze, pigrizia e paura. Comunque sia non mi interessa più, ora voglio solo una cosa cari Bersani, Letta, Franceschini, D’Alema, Veltroni, Fassino, Violante, Bindi, Finocchiaro, Fioroni e scusate se mi sono dimenticato qualcuno, voglio che ve ne andiate via, voglio la vostra morte, politica intendo, per carità non mi fraintendete, lunga vita biologica ma immediata morte politica. Godetevi la vita, godetevi la vostra bella pensione, fate viaggi, liberateci per sempre della vostra triste presenza perché meritiamo di meglio.

p.s. mentre scrivo, dopo Marini hanno impallinato anche Prodi… avanti il prossimo.