NO MAN’S LAND (TERRA DI NESSUNO) – la primavera non verrà mai più

No Man’s Land, di Harold Pinter, scritto nel 1974, prima rappresentazione e pubblicazione nel 1975. 1^ ed. italiana 1979, Einaudi, trad. Cesare Garboli, Elio Nissim, Romolo Valli. 2^ ed. italiana 1996, Einaudi, trad. Alessandra Serra, Laura del Bono, Elio Nissim

SPOONER – No. Sei in terra di nessuno. Che non si muove, che non cambia, che non invecchia, ma che dura in eterno silenziosa e glaciale.

HIRST – A questo io bevo.

Beve… Poi lentamente cala il sipario. 

Probabilmente non esiste approfondimento critico di questo dramma che non si sia posto l’obbligo di rispondere alla seguente domanda: qual è, o cosa è, questa terra di nessuno di Harold Pinter “Che non si muove, che non cambia, che non invecchia, ma che dura in eterno silenziosa e glaciale” (“Which never moves, which never changes, which never grows older, but which remains forever icy and silent”)? È un obbligo a cui nemmeno io voglio sottrarmi, tutt’altro, e darò una lapidaria risposta che tuttavia, da sola, mi sembra in grado di gettare luce sull’enigmatico testo pinteriano più di quanto possano pagine e pagine di riflessione: la terra di nessuno di Pinter è la vita. Alla celebre, suddetta, battuta di Spooner risponde il suo contraltare Hirst: “A questo io bevo” (“I’ll drink to that!”) e con questo scambio il dramma si chiude. Hirst, quindi, beve alla vita, non brinda ma beve, come avviene di continuo in questo testo, tutti bevono, tracannano whisky come fosse acqua fresca. Ma se si “brinda” a qualcosa, alla vita ad esempio, festeggiandola, non si “beve” a qualcosa. Il bere (alcol ovviamente) veicola una dipendenza, una passività, una fuga, una sconfitta. Di fronte alla vita “icy and silent” di Spooner (e di Hirst, che anticipa nel primo atto la medesima battuta) la soluzione dei 4 personaggi di No Man’s Land non è di festeggiare, ovvero brindare, ma di bere. E qui devo aprire un inciso: i tre traduttori della prima versione italiana del testo – Cesare Garboli, Elio Nissim e Romolo Valli, traduzione del 1979 – scelgono il letterale “bere” per “drink”, e “I’ll drink to that!” diventa “A questo io bevo”. Alessandra Serra, Laura del Bono ed Elio Nissim che tradurranno per la versione del 1996, faranno un’altra scelta rendendo “I’ll drink to that!” con “A questo io brindo”. Quest’ultima soluzione mi pare una forzatura: Hirst non brinda; in nessun momento del testo, tantomeno nel finale, maturano le condizioni per brindare a qualcosa; non brinda ma beve fino allo stordimento come un disperato alcolista e il senso di “I’ll drink to that” si trova in un gioco di parole dove “drink” è sì letteralmente bere (in questo caso il bere dell’alcolista) ma è anche una dichiarazione di accordo con la precedente battuta di Spooner, un “ben detto!”, un “concordo con te e bevo”, un “sono d’accordo con la tua visione della vita ed è per questo che bevo”. Potremmo fermarci qui, ma non si deve mai far coincidere un testo teatrale con la sua ermeneutica allegorica, come sempre c’è molto di più.

Una stanza nella villa di Hirst, una variante del salotto borghese dove più di un mobilio basilare cattura lo sguardo l’esposizione di libri e alcolici. Hirst e Spooner sono in scena e parlano delle qualità che formano il “vero uomo”: forza, intelligenza, perspicacia. Noi non sappiamo nulla di loro e, a quanto pare, anch’essi sono ignari delle rispettive vite, non si conoscono, si sono incontrati casualmente la sera stessa in un parco, entrambi intenti a praticare voyeurismo; poi Hirst ha invitato Spooner a casa sua e ora approcciano una conoscenza più approfondita. Il secondo atto smentirà il primo proponendo Hirst e Spooner come amici di vecchia data, due intellettuali che rivaleggiavano per la carriera e per le donne. Hirst sembrerebbe essere un letterato, un saggista, un poeta; Spooner si rivela garzone di birreria e anch’esso poeta. Poi entrano Foster e Briggs, altre incognite in gioco. Il primo dice di essere figlio di Hirst ma poi si qualifica come suo segretario e infine come suo allievo poeta. Briggs è altrettanto misterioso, si muove con il piglio da padrone di casa ma assolve a funzioni riconducibili al “maior domus”. In definitiva ogni pagina smentisce la precedente e contraddice la successiva, qualunque ricerca di coerenza narrativa in questo testo è tempo perso; i personaggi esistono solo in base a ciò che dichiarano in quello specifico istante, e nell’istante successivo pur restando sempre gli stessi sono cambiati, hanno un’altra storia, altre esperienze, altre relazioni. 

Spooner, Hirst, Foster, Brigs, quattro personaggi maschili, due sessantenni e due più giovani (trent’anni Foster e quaranta Briggs), vecchi contro giovani come nelle commedie classiche, eppure questa differenza generazionale non sembra produrre alcun fluire del tempo (“Which never moves, which never changes, which never grows older”). Nulla accade, nulla è accaduto, i quattro personaggi quasi mai entrano veramente in relazione tra loro, si aggirano, semmai, come morti viventi romeriani all’interno di una realtà grottesca, “silenziosa e glaciale”, svelata dalla quarta parete della scatola scenica che li illumina e li offre, a noi lettori/spettatori, non come fuochi di una narrazione strutturata su eventi, accadimenti, meccanismi di causa-effetto, bensì come deboli fantasmi che stancamente e con poca convinzione reiterano brandelli di identità degne al più di un gioco infantile (una sorta di “facciamo finta che…”). Il realismo di Pinter, quel contesto che all’inizio, come sempre nei suoi drammi, appare solido e riconoscibile, viene tradito man mano che i dialoghi procedono svelando le deformità dei personaggi. Spooner in particolare, centro ideale del dramma, anche in termini di composizione del quadro scenico, esorbitante e verboso nel linguaggio, suggerisce una medesima, flaccida, eccedenza corporea, una forma monolitica che erutta parole con musicale monotonia. 

SPOONER – Sono un amico ostinato delle arti, specialmente della poesia, e una guida per la gioventù.  La mia casa è aperta a tutti.  Ci vengono giovani poeti. Mi leggono i loro versi. Offro loro il caffè e i miei commenti senza chiedere il conto. Sono ammesse le donne, ce n’è qualcuna che è anche un poeta. Altre non lo sono. Anche alcuni degli uomini non lo sono. Molti degli uomini non lo sono. […]

Con Terra di Nessuno, con Spooner su tutti, Pinter riprende temi cari a Ionesco: l’indipendenza del linguaggio che si fa oggetto sociale, abito da indossare nelle varie situazioni, e poi il parlare che sovrasta e dissolve il parlatore, il dialogo che non comunica. In alcuni drammi di Ionesco (La Cantatrice Calva in particolare) quel che va in scena è la frattura tra linguaggio e umanità: il primo ha vita a sé e usa la seconda come proprio habitat, fino a configurare l’ipotesi di un’ontologia del linguaggio. In Pinter l’operazione differisce parzialmente: il linguaggio non ha la forza impetuosa che mostra in Ionesco, non maschera il vuoto tramite una parvenza di vitalità e dialettica, non socializza. Spooner soprattutto, ma anche Hirst e, in misura minore, Briggs e Foster, eruttano parole che non vanno da nessuna parte, non compiono il tragitto tra emettitore e ricevente ma ricadono addosso al primo dei due poli come magma liquido e infuocato e questa verbalità che gli cola addosso svela, parzialmente e instabilmente, quasi per contrasto, per impermeabilità direi, anzi per solidificazione e stratificazione, il suo profilo altrimenti invisibile. Abbiamo quindi una deriva solipsistica del linguaggio e al tempo stesso un’iperstimolazione verbale e perciò eccedenza del significato che da veicolo di senso e riconoscimento transita nei territori del non sense. Nel testo di Pinter il non sense è inquietante, definisce il personaggio per negazione, per ciò che non è (operazione, in un certo senso, non estranea alla letteratura mistica). È un linguaggio ambiguo e depistante, spiazzante, non dice “questi sono dei buffoni ingenui e/o spersonalizzati” (come avviene in Ionesco), dice semmai “questi non sono nulla di quel che affermano, o di quel che credi”, e l’inquietudine nasce anche dall’impossibilità di definirli, di uscire dal dubbio per giungere alla certezza.

“Anche”, scrivevo, non “solo”: Pinter sa sollecitare ulteriori inquietudini disseminando elementi istintuali tra tutti i personaggi, una carica di violenza e di potenziale sopraffazione, un abbrutimento generalizzato, una mancanza di dignità che sfocia nel servilismo. Sullo sfondo una struttura oppositiva – spesso presente nei suoi drammi – tra cultura (sbandierata) e natura (istinto che emerge). Molti dialoghi si presentano come corda tesa tra questi due poli, mezzo per tener viva una tensione che però non esplode mai. Il linguaggio schizofrenico evidenzia la doppiezza, multiformità, ambiguità, mutabilità pericolosa dell’uomo e delle relazioni che costruisce. La natura emerge sulla patina di cultura. L’uomo, qualunque cosa affermi, non è quel che mostra. Viene da chiedersi quanto ci sia di autobiografico, o comunque frutto di esperienze dirette, in questa narrazione degli ambienti culturali, quanto la coppia Hirst/Spooner – intellettuale di successo il primo, artista fallito il secondo – sia sineddoche affidabile. Certamente in questo testo Pinter lascia galoppare la propria fantasia sui campi sterminati degli ambienti letterari e artistici che ben conosce, le dinamiche e le relazioni che in quegli ambiti prendono vita, i rapporti di potere, le umiliazioni, i servilismi, i deliri egotici. Il ritratto pinteriano del mondo intellettuale, quello dei poeti in particolare, è parodistico e grottesco ma al tempo stesso impietoso.

foto di scena estratta da “IL DRAMMA – mensile dello spettacolo”, n.3 marzo 1978

È il 1974, i principali capolavori dell’assurdo sono stati scritti e pubblicati, il genere non fa più scandalo, è stato digerito e assimilato e nessuno si chiede più chi o cosa simbolizzi Godot. No Man’s Land rappresenta probabilmente il “boato” finale che chiude un lungo spettacolo pirotecnico, il colpo di coda di un’estetica che, a sua volta, è il colpo di coda delle avanguardie storiche, davvero una lunga coda che dal primo Novecento si incunea nel secondo attraversando i disastri bellici da cui prende in eredità disillusione, nichilismo, amarezza. L’assurdo è avanguardia fattasi vecchia, è priva di spensierato vigore, di voglia di vivere. Harold Pinter chiude il genere con un dramma che, come avviene con i bambini, ruba somiglianze da entrambi i genitori: è un nuovo Fin de Partie dove però i quattro prigionieri del solito spazio chiuso, Hirst/Hamm, Spooner/Clov, Brigs/Nagg, Foster/Nell, rinunciano anche alla resa dei conti, e troppo stanchi per battaglie e giochi di potere lasciano spazio a un teatro borghese senza passato né futuro, inscenato al più da presenze fantasmatiche; ma è anche un testo che chiama in causa Ionesco per chiudere definitivamente ogni progetto sulle capacità socializzanti del linguaggio, che in No Man’s Land ha prospettive al più onanistiche.

Fantasmi quindi, ma fantasmi che fanno sorridere. “Non c’è niente di più comico dell’infelicità“, fa dire Beckett a Nell in Finale di Partita, e Pinter non si tira indietro nell’applicare la lezione di uno dei suoi due maestri: la natura farsesca del dramma emerge con ogni evidenza nei tratti comici dei tanti scambi tra Spooner e Hirst nel primo quanto nel secondo atto.

SPOONER – Una volta frugai con gli occhi nel volto di mia madre. Non vidi altro che pura e semplice malevolenza. Sono fortunato di essere ancora vivo. Lei vorrà sapere che cosa avevo fatto per suscitare tanto odio in mia madre. 

HIRST – Si era pisciato addosso. 

SPOONER – Proprio così. Quanti anni pensa che avessi allora?

HIRST – Ventotto. 

SPOONER – Proprio così. 

Tuttavia l’umorismo (involontario, nelle intenzioni dei personaggi) emerge sì qua e là ma non prende mai il sopravvento. Al pubblico appare in ogni caso una parvenza di serietà e di intellettualismo che però, già a uno sguardo un poco meno distratto, si svela nella sua ingannevolezza, un po’ come avviene nelle immagini prodotte dalla Intelligenza Artificiale dove tutto a prima vista appare familiare (un mobile, un vestito, un qualunque oggetto di uso quotidiano) ma a una osservazione più attenta ogni elemento risulta sconosciuto, non conforme alle aspettative. Come anticipavo sopra, l’operazione di Pinter passa sempre, o spesso, attraverso un realismo che fa da cornice a una dilatazione e deformazione dei tratti e dei comportamenti umani, il che tradisce proprio quella premessa di realismo che si rivela essere illusoria. L’opera di Francis Bacon (che non a caso appare con un suo soggetto sulla copertina dell’edizione Einaudi 1979) è un buon riferimento pittorico per comprendere la deformazione dei personaggi pinteriani (Spooner su tutti).

SPOONER – Che meraviglia.  Continui. Continui a dirmi ancora delle piccole eccentriche perversioni di quella vita e di quel tempo. Mi inquadri, con tutta l’autorità e lucidità di cui può disporre, la struttura socio-economica-politica dell’ambiente in cui lei ha raggiunto l’età della ragione.  Mi dica di più. 

Dove risiede, quindi, in ultima analisi, la grandezza e soprattutto l’originalità di questo classico? Quale lezione ci lascia o, meglio, in qualità di ultimo esemplare di una “stirpe” di opere, ci ribadisce? Credo che No Man’s Land sia solo in parte, una parte evidente ma non più che epidermica, la tematizzazione drammatica di una visione della vita pervasa da un nichilismo senza speranza – argomento, questo, che non sarebbe certo una novità nella longeva produzione dell’assurdo. Credo, invece, che questo testo sia sostanzialmente un discorso interno al teatro, in particolare un discorso sul testo teatrale, un’eredità che possiamo sintetizzare in questo assunto: non esistono personaggi preesistenti alle loro parole o, formulazione più radicale, non esistono personaggi ma solo le loro parole. 

HIRST – Cambiamo argomento. (Pausa) Una volta per tutte. (Pausa) Che cosa ho detto?

FOSTER – Ha detto di cambiare argomento una volta per tutte. 

HIRST – Ma che cosa vuol dire?

FOSTER – Vuol dire che una volta cambiato l’argomento, lei non lo cambierà mai più. 

HIRST – Mai più?

FOSTER – Mai più. 

HIRST – Mai più?

FOSTER – Lei ha detto una volta per tutte. 

HIRST – Ma che cosa vuol dire? Che – cosa – vuol – dire?

FOSTER – Vuol dire per sempre. Vuol dire che l’argomento è cambiato una volta per tutte, per l’ultima volta, e per sempre.  Se, per esempio, l’argomento è “l’inverno”, sarà inverno per sempre. 

HIRST – L’argomento è l’inverno?

FOSTER – Ora l’argomento è l’inverno.  E resterà quindi inverno per sempre. 

BRIGGS – Una volta per tutte. 

FOSTER – E durerà per sempre. Se a entrare in argomento è l’inverno, per esempio, la primavera non verrà mai più. 

articolo già pubbicato nel blog TERRA DI NESSUNO – CRITICA DELLA DRAMMATURGIA

SUNSET LIMITED – le vie cieche dell’Occidente

The Sunset Limited: A Novel in Dramatic Form, di Cormac McCarthy
2006, USA – 2008, Italia (traduzione di Martina Testa)

BIANCO – […] credo nel valore delle cose.
NERO – Ok. Di quali cose?
BIANCO – Di un sacco di cose. Le cose culturali, per esempio. I libri, la musica, l’arte. Cose di questo genere. […] Queste sono per me le cose che hanno valore. Sono la base della civiltà. O quantomeno, un tempo avevano valore. Probabilmente oggi non ne hanno più tanto.
NERO – E cosa gli è successo, a quelle cose?
BIANCO – La gente ha smesso di dar loro valore […] Quel mondo è in gran parte scomparso. E fra poco lo sarà del tutto.
NERO – Non so se riesco a seguirti, professore.
BIANCO – Non c’è niente da seguire. Va bene così. Le cose che amavo un tempo erano molto fragili. Molto delicate. Ma io non lo sapevo. Pensavo che fossero indistruttibili. E mi sbagliavo.
NERO – Ed è questo che ti ha spinto a buttarti giù dal binario. Non una questione personale.
BIANCO – Ma è una questione personale. É proprio questo l’effetto dell’istruzione. Rende il mondo intero qualcosa di personale.
NERO – Hm.
BIANCO – Cosa, hm?
NERO – […] a che servono idee del genere se poi non riescono a farti tenere i piedi incollati a terra quando arriva il Sunset Limited a centotrenta all’ora?

Binari attraversano la drammaturgia americana e la parabola umana che questa racconta. Binari che se alla fine dei ’40 aprivano a sogni e promesse grazie all’indolente andirivieni di A Streetcar named Desire, ora lasciano sfrecciare l’aggressiva e disillusa mortalità di un Sunset Limited – letteralmente “tramonto limitato” -, storico treno passeggeri che collegava New Orleans a Los Angeles. Da Desire scendeva Blanche DuBois alla ricerca di una nuova vita, di un riscatto al fallimento che si lasciava alle spalle; sul Sunset Limited tenta di gettarsi, e quindi di chiudere la propria vita, un non meglio specificato intellettuale “Bianco”. Ci prova ma non ci riesce perché ad impedirglielo interviene un (altrettanto “non meglio specificato”) ex galeotto “Nero”.

Cormac McCarthy, scrittore che nei suoi romanzi predilige le tinte vigorose ed icastiche e che nel narrare spande le avvisaglie dell’imminenza apocalittica, affronta questa drammaturgia abbracciando un dualismo radicale, didascalico addirittura, o stereotipato, ma lo fa con una tale padronanza del dialogo da allontanare nel lettore ogni sospetto di ingenuità o di pregiudizi: McCarthy è maestro autorevole e dispotico, attraverso un raffinato e deciso gioco linguistico guida senza incertezze il lettore portandolo dove lui decide di portarlo. Sottolineo il ruolo risolutivo del dialogo perché se la drammaturgia è solitamente una partitura a due strumenti, dialogo e azione, detto e fatto, voce e corpo, Sunset Limited tralascia sostanzialmente il secondo per costruire un edificio che si dimostra funzionale all’atto teatrale nonostante si basi, appunto, su un solo componente, quello dialogico. Quindi basta un dialogo – pur se maestoso – per transitare dalla letteratura alla scena? McCarthy stesso sembra “fiutare” e disinnescare l’eventuale interrogativo utilizzando come sottotitolo la locuzione “Romanzo in forma drammatica” il che, ulteriormente e su suggerimento dell’autore, sembra spingere l’approccio al testo in direzione non tanto di una forma narrativa contrapposta ad una drammatica quanto di un “letterario” che si oppone a “scenico”. Se ogni drammaturgia deve saper rispondere della sua duplice appartenenza di prodotto letterario e di futuro elemento di scrittura scenica, Sunset Limited sembrerebbe perciò disinteressarsi della seconda possibilità proponendosi come elegante riflessione esistenziale a due voci, assolutamente statica riguardo i movimenti nello spazio scenico. “Sembrerebbe”, appunto, ma non è così: Sunset Limited è genuino e puro oggetto teatrale. Vediamo perché.

I due personaggi, il Bianco e il Nero, si affrontano l’uno di fronte l’altro. Li vediamo seduti, un tavolo li separa, profili affilati che si oppongono, tendenzialmente fermi, stilizzati, sono segni o, addirittura, elementi scenici, arredi. Sono immobili ma le loro voci no, le voci si muovono e bucano la quarta parete. Il primo aspetto che connota il dialogo tra i due è l’agonismo. In genere l’agonismo è movimento fisico, è azione, l’agonismo non si sposa con la stasi ma qui avviene o, meglio, è la stasi che si cala nell’agone e che inscena un combattimento con le armi del testo e della voce, del logos e del dialogo. È una partita: il Nero attacca, il Bianco si difende. Ma in una lotta non ci può essere particolare spazio per le sfumature, per le mezze misure, non sono funzionali a questo tipo di attività, ed ecco che McCarthy cala gli stereotipi forti, il nero vs il bianco, il povero vs il benestante, il galeotto vs l’onesto, l’ignorante vs l’intellettuale, il religioso vs l’agnostico, lo spirituale vs il razionale, la fede vs la ragione. Riassumendo, un nero povero, ex galeotto, ignorante ma ricco di fervore religioso si oppone ad un bianco benestante, ben integrato in società, un professore colto e scettico in materia di fede; la contrapposizione è marcata, priva di mediazioni, di punti di incontro, di accordi. La nettezza con cui McCarthy disegna i due poli contrapposti cattura l’attenzione del lettore/spettatore: da due uomini in scena ti aspetti e pretendi movimento e azioni, da due princìpi no, la relazione tra princìpi si sposta su un altro piano, quello delle argomentazioni. Ma il teatro, si obietterà, è terra per attrici e attori, non per idee astratte e disincarnate. No, il teatro è terra per elementi di scrittura scenica e per la partitura multisensoriale che questi vanno a comporre, sollecitando tanto i sensi quanto la mente dello spettatore. Nel teatro “in atto” convergono le estetiche e le regole della pittura, della musica, della dialettica: la drammaturgia di Sunset Limited regala il dualismo bianco/nero per la prima, un ritmo raffinato e sempre controllato per la seconda, una battaglia a colpi di argomentazioni per la terza.

Il testo annulla fisicità e temporalità, depotenzia spazio e tempo, per il primo rendendo assenti significativi movimenti fisici, per il secondo ignorando la narrazione intesa come successione di eventi e scegliendo, semmai, una dialogicità che è approfondimento e destratificazione della medesima e sempre stessa problematica esistenziale. Le due tesi contrapposte si studiano attraverso silenzi e fasi interlocutorie per poi attaccarsi improvvisamente alla ricerca della stoccata vincente. La pausa diviene motore del movimento verbale/testuale, carburante del ritmo, strumento primario della base ritmica dell’azione verbale, ne causa il ripartire subitaneo, lo “stop and go”. Con rara sensibilità musicale McCarthy usa la pausa per creare un sottofondo di sospensione, un silenzio “elastico” dove la parola o, meglio, la frase, rimbalza e schizza impazzita e si rifrange in una moltiplicazione esponenziale che raggiunge lo spettatore da ogni direzione avvolgendolo. Artaud, in Il Teatro e il suo Doppio, parlava della parola in termini di sua <<capacità di espansione […], di sviluppo nello spazio, di azione dissociatrice e vibratoria sulla sensibilità>>. Artaud si riferiva agli aspetti prosodici della parola e perciò alla sua interpretazione, ma la tesi è valida anche per il testo che l’autore offre all’interprete, un testo non ancora recitato ma che già ha in sé, nella sua struttura, il dono della musica. Il potere avvolgente della frase, dunque, la sua mobilità ed elasticità sviano il pubblico dal bisogno di osservare dei movimenti: la percezione sonora, il maggior “nutrimento” uditivo, compensa la staticità dello sguardo inchiodato sui due opposti cromatismi, Bianco e Nero, duplici punti di fuga della composizione pittorica creata dal romanziere di Providence, giganteschi altoparlanti di una tenzone che ci riguarda tutti.

<<Niente di quello che succede significa qualcos’altro>>, dice il Bianco, e con questa frase nega di colpo l’intera storia e cultura dell’Occidente, improntata alla metafora e alla ricerca del senso. E ancora: <<La felicità è contraria alla condizione umana>>, <<La sofferenza e il destino umano sono la stessa cosa. L’una è la descrizione dell’altro>>, <<L’evoluzione non potrà non condurre la vita intelligente alla consapevolezza di una certa cosa sopra tutte le altre, e questa cosa è la futilità>>. Le opinioni del professore Bianco sono figlie di un nichilismo radicale, conclusioni logiche di una razionalità portata ai limiti estremi, sorta di malattia autoimmune della ragione. La risposta del Nero è nella fede, nella presenza di un senso divino in tutto, di una teleologia degli accadimenti. É uno scontro sul piano dinamico dell’agonismo, scrivevo prima, ma pur trattandosi di una sfida testuale e verbale non è l’arma dell’abilità retorica a condurlo. La retorica è quasi del tutto assente, né i dialoghi attingono a sofismi, tutt’altro: nonostante la profondità e complessità del tema, e soprattutto grazie alla conduzione del Nero, le argomentazioni si avvalgono di allegorie, di metafore, di piani discorsivi sorprendentemente accessibili, un linguaggio “quotidiano” direi. Non c’è abilità retorica, dicevo, c’è semmai <<l’accompagnare il proprio interlocutore a “partorire” la verità>>, definizione, questa tra caporali, abbastanza comune in rete come spiegazione del cosiddetto metodo maieutico di paternità socratica. La forma dialettica del filosofeggiare socratico, raccontata da Platone nel Teeteto, è detta maieutica (dal greco “maieutikḗ”, ovvero “ostetricia”) in quanto, in analogia al fare della levatrice con la partoriente ed il feto, tende a guidare l’interlocutore (generalmente con brevi e precise domande) in un percorso che dovrà chiudersi con la conoscenza sia del suo errore, sia della Verità che finora mai aveva raggiunto. É il metodo che adotta il Nero, è lui il “nostro” Socrate ma davanti a sé non ha l’arrendevolezza di un Alcibiade, né di un Teeteto, e il professore Bianco rintuzza, quasi con noia, i tentativi persuasivi del Nero che evidentemente, dall’alto del suo scetticismo, gli debbono apparire del tutto inefficaci. Eppure il Nero è molto lontano dall’essere un ingenuo sprovveduto e si dimostra un più che degno avversario dell’intellettuale Bianco:

NERO – […] Non sono uno che dubita. Però sono uno che fa domande.
BIANCO – E che differenza c’è?
NERO – Be’, secondo me chi fa domande vuole la verità. Mentre chi dubita vuole sentirsi dire che la verità non esiste.

E così tra continui assalti, mirabili parate, improvvisi contrattacchi, citazioni shakespeariane (<<Chi sarebbe disposto a sopportare questo incubo, se non per paura dell’incubo che lo seguirà?>>) il testo scorre aspro e crudele verso il finale di partita, finale che non riesce a decretare un vincitore ma nemmeno un pareggio: in realtà Sunset Limited mette in scena due tragiche sconfitte, quella della fede e quella della ragione: il Bianco (la ragione) abbandona la scena con la propria foga autodistruttiva illesa; il Nero (la fede) piange l’assenza dentro di sé delle <<parole giuste>>. Sono due inettitudini che si annullano a vicenda, le vie cieche dell’Occidente.

articolo già pubbicato nel blog TERRA DI NESSUNO – CRITICA DELLA DRAMMATURGIA