Die Verfolgung und Ermordung Jean Paul Marats, dargestellt durch die Schauspielgruppe des Hospizes zu Charenton unter Anleitung des Herrn de Sade, dramma di Peter Weiss, anche noto come Marat/Sade, scritto e rappresentato nel 1964. Tradotto e pubblicato in Italia nel 1967 da Einaudi, Collana Supercoralli, col titolo La persecuzione e l’assassinio di Jean-Paul Marat, rappresentato dalla compagnia filodrammatica dell’ospizio di Charenton sotto la guida del marchese de Sade; traduzione di Ippolito Pizzetti.
Il modello strutturale che vorrei proporre e utilizzare per l’analisi di questa drammaturgia di Peter Weiss si basa sull’individuazione di alcuni livelli teatrali “nidificati” l’uno nell’altro. Per livello teatrale intendo un sistema semiotico, ovvero produttivo di significato sociale, che presenta entrambe le seguenti condizioni: a) è composto da un piano narrativo autonomo il quale; b) viene rappresentato (messo in scena). Dunque, osservando la struttura del testo come vedessimo un organismo sezionato in altezza, partendo dall’alto avremo un primo livello che ne contiene un secondo. Tuttavia l’approfondimento che segue mostrerà l’inadeguatezza di questo primo abbozzo strutturale che, almeno nel caso del Marat/Sade, andrà necessariamente complicato.
Il primo livello teatrale, che convenzionalmente chiamo “livello zero”, è implicito alla rappresentazione di questo testo come di qualunque altro testo: è la visione, a cui possiamo partecipare o con vista e udito, quindi da spettatori, o, anche, con la sola immaginazione stimolata dalla lettura, quindi da lettori. Qual è l’oggetto di questa nostra visione, reale o immaginaria? La messa in scena di un testo teatrale del 1964 di Peter Weiss dal lungo e articolato titolo: “La persecuzione e l’assassinio di Jean Paul Marat, rappresentati dai filodrammatici di Charenton, sotto la guida del Marchese di Sade“, testo più semplicemente noto come “Marat/Sade“. La visione e la messa in scena (regia, attori e recitazione, scrittura scenica, qualunque atto o elemento teso alla rappresentazione della vicenda, ecc.) sono elementi sincronici e appartenenti al primo livello teatrale, il “livello zero”.
Poi si pone il secondo livello teatrale, il “livello meno uno”, interno al primo, e precisamente interno alla vicenda narrata dal primo: una filodrammatica capitanata dal Marchese de Sade mette in scena una vicenda storica risalente ai tempi della rivoluzione francese, l’assassinio di Jean-Paul Marat. Questa messa in scena è immaginata avvenire nel 1808 a opera di una compagnia di pazienti psichiatrici internati nel manicomio di Charenton e diretti da de Sade, anch’egli paziente del frenocomio, seppur di riguardo. Lo spettacolo ha, a sua volta, un suo pubblico, un pubblico “teatralizzato” (oggetto di rappresentazione) composto dal direttore, dalla sua famiglia, dai dipendenti dell’ospedale psichiatrico. Anche in questo caso c’è una linea sincronica che coinvolge il pubblico reale, quello teatralizzato, tutta la messa in scena della vicenda da parte di de Sade e della sua compagnia.
Ho scritto sopra che il livello è teatrale in quanto coincide con la rappresentazione teatrale di un piano narrativo. I livelli produttivi della funzione relazionale teatrale sono quindi due, la rappresentazione del testo di Weiss (livello zero) e la rappresentazione dell’uccisione di Marat diretta da de Sade (livello meno uno). Se invece facessi coincidere i livelli solo con i piani narrativi autonomi, ne dovrei individuare un terzo, convenzionalmente “livello base”, quello della vicenda che non contiene altro che se stessa, un livello teatralmente muto e passivo, che si fa rappresentare ma non rappresenta. Qual è questa vicenda che fa da base alle precedenti e che su queste proietta il suo riverbero? Lo dice il titolo: “La persecuzione e l’assassinio di Jean Paul Marat“, una vicenda storica, un assassinio avvenuto nel luglio del 1793 da parte della girondina Charlotte Corday. In definitiva, con la distinzione tra piani esclusivamente narrativi e piani teatrali posso complicare la struttura con un terzo livello. Avremo quindi: la vicenda (piano narrativo ma non teatrale), la rappresentazione della vicenda (piano narrativo e teatrale), la rappresentazione della rappresentazione della vicenda (piano narrativo e teatrale).
La struttura così disegnata a livelli decrescenti, o a matrioske, o, ancor meglio, a cilindro telescopico, è ovviamente, e pienamente, riconducibile all’antico espediente del teatro nel teatro, ovvero il fare di una rappresentazione teatrale l’oggetto drammatizzato della rappresentazione teatrale “vera”, soluzione teoricamente infinita nel numero delle iterazioni, come nelle immagini costruite sull’effetto Droste, ma che comunque, a prescindere dagli enne livelli messi in scena, ha sempre un piano esclusivamente narrativo, la vicenda che nel caso di Marat/Sade ho definito “base” (“che non contiene altro che se stessa”), che entra nella struttura teatrale solo se, e in quanto, viene rappresentata.
È abbastanza? No, non ancora; potrebbe esserlo nel caso di un testo metateatrale classico, non in questo Marat/Sade, costruzione drammaturgica in cui l’architetto Weiss escogita una sorprendente innovazione strutturale, tira fuori dal cilindro qualcosa di illogico, che non dovrebbe esistere, che contraddice l’impenetrabilità dei singoli livelli: il protagonista del livello meno uno, de Sade, dialoga con il protagonista della vicenda che sta rappresentando, Marat; attenzione: non dialoga da regista con l’attore che interpreta Marat, ma da personaggio con l’altro personaggio. In tal modo, grazie a questo sconfinamento tra livelli, a questa confusione ragionata dei piani narrativi, la “base” Marat viene drammatizzata (ovvero recuperata al teatro) due volte: attraverso la vicenda dell’uccisione del rivoluzionario giacobino, e questo è il “livello meno uno”, e poi attraverso l’esposizione del suo pensiero politico, in dialettica con quello del nichilista de Sade. Il confronto-scontro tra i due opposti mondi intellettuali dà vita a un livello trasversale, direi addirittura verticale laddove i precedenti sono orizzontali, un livello che si pone come la vera ragion d’essere del dramma, il “livello Marat/Sade”, principale vettore del dibattito tematico che il brechtiano Weiss offre al pubblico.

Qual è questo dibattito tematico? Che attinenze ha, se ne ha, con la contemporaneità? Donatien-Alphonse-François de Sade, più noto come Marchese de Sade, aristocratico francese, filosofo, poeta, drammaturgo, saggista, politico rivoluzionario, e poi notoriamente libertino e trasgressivo, razionalista, ateo, anticlericale, nichilista, libertario, anarchico ante litteram. Il suo interlocutore, a lui coetaneo e connazionale, si chiama Jean-Paul Marat, medico, scienziato, saggista, giornalista, politico rivoluzionario, giacobino radicale. La dialettica tra i due mostra il combattimento tra posizioni estreme, che hanno qualche iniziale punto in comune (l’anticlericalismo, a esempio) ma poi divergono in antitesi, modi di essere opposti, eppure entrambi così poco moderni o, meglio, così poco spendibili nella quotidianità, perlomeno nella quotidianità del “costruire”, ottimi invece per la quotidianità del “distruggere”: il nichilismo disilluso, Sade, e l’intransigenza rivoluzionaria del “Terrore”, Marat, concezioni della vita entrambe poco cattoliche, poco politiche, poco utili alla costruzione del sociale. Ed è nel confinamento storico delle loro idee che Sade e Marat trovano, se non un accordo, uno spazio comune – spazio anche fisico: il manicomio – che li accoglie e li connota entrambi.
SADE – Me ne infischio di questi movimenti di popolo
che girano intorno mordendosi la coda
Me ne infischio di tutte le buone intenzioni
che si disperdono in vicoli ciechi
me ne infischio di tutti i sacrifici
che si fanno per questa o quella causa
Io credo solamente in me stesso
MARAT – Io credo solo alla causa
che tu tradisci
[…]
SADE – Credi che li renderesti felici
se ciascun potesse percorrere la sua strada solo a metà
e andasse a sbattere sempre nell’uguaglianza
Credi che esisterebbe un progresso
se ciascuno fosse soltanto un piccolo anello
di una grande catena […]
MARAT – […] si tratta di un principio
che la rivoluzione esige
che i tiepidi e i compagni di strada
vengano espulsi
Per noi non esiste altra soluzione
che abbattere fino alle fondamenta
per quanto ciò possa apparire spietato
alle pance satolle che si crogiolano nel loro benessere
Eppure se ci si approccia al dramma di Weiss nella maniera meno preconcetta possibile, lasciando affiorare “naturalmente” sensazioni, immagini, collegamenti, intuizioni, non possiamo non percepire tra le pieghe del testo che la vera dialettica agitata non riguarda le tesi contrapposte dei due protagonisti – un discorrere tra i due che a lungo andare diviene rumore bianco -, semmai l’inquieto dualismo tra forme: forme teatrali novecentesche: il teatro epico di Bertolt Brecht e il teatro della crudeltà di Antonin Artaud; e poi forme antropologiche: mente e corpo, ragione e carne, intelletto e passione. Weiss confeziona un’architettura teatrale nella quale convivono e si dispiegano due dimensioni solitamente inconciliabili: raffinate – fredde, lucide – riflessioni politico-filosofico da un lato; corpi fuori controllo dall’altro, corpi di pazzi “scostumati”, di rivoluzionari sanguinari, di sadici perversi, corpi nudi, feriti, malati, incatenati, convulsi, rapiti dalle passioni. Ai lucidi ragionamenti di Marat e Sade – ragionamenti pacifici e astratti per loro natura – sull’utilità o meno della violenza rivoluzionaria, si contrappone una violenza ben più reale e disturbante perché non semplicemente ragionata o evocata ma mostrata all’interno di una situazione considerata normale, una necessità dell’organizzazione sociale: il manicomio, e quindi la privazione della libertà, i ceppi e le frustate, le malattie che devastano la carne, i corpi osceni che rinnegano la compostezza borghese. Una dimensione, questa dei corpi e della carne, dentro cui il Sade di Weiss – qui avo del colonnello Kurtz di Apocalypse Now, nonché alfiere in scena di Antonin Artaud – si muove con soddisfatto, seppur tragico, piacere:
per tredici anni
ho appreso
che questo è un mondo di corpi
ed ogni corpo è pieno di una forza tremenda
e ogni corpo è solo tormentato dalla sua irrequietudine
[…]
Chiuso dietro tredici chiavistelli
il piede nel ceppo
sognavo soltanto
queste fessure dei corpi
che esistono soltanto
per uncinarvisi ed esserne inghiottiti
In definitiva un testo, il Marat/Sade di Weiss, che per l’articolata, quasi esagerata, complessità strutturale, per la varietà dei temi affrontati, nonché per la ricchezza letteraria, scenica, pittorica, musicale e coreografica, e poi per la potenza dell’immaginario oscuro che mostra e sollecita, per i continui cambi di registro che propone, per la sua capacità di soddisfare un po’ tutte le grandi istanze artistiche del 900, non si inquadra, non si circoscrive, non entra in categorie precise, è schivo, sfuggente, scostante, ma soprattutto inquieta, perché – seppur in secondo piano, sorta di fantasma del testo e del palcoscenico – mostra la sconfitta della ragione, dell’ordine, della progettualità, mostra il logos che arranca di fronte all’impazzimento della carne, alle convulsioni che scuotono gli attori pazzi, alle dermatiti e al prurito che torturano Marat, all’obesità che immobilizza Sade. L’apparato statale, il potere politico e religioso, rappresentato dalla figura del Direttore Coulmier, chiude in gabbia questa débâcle della ragione, questo scandalo di corpi scomposti, di inarrestabile disordine, lo chiude dentro un manicomio ma poi commette l’errore di teatralizzare il tutto e il teatro, com’è nella sua natura, libera e amplifica ogni contraddizione. Un testo che non si inquadra, scrivevo, ma che realizza in potenza (il testo teatrale ha sempre energie sceniche “in potenza”) una delle più compiute e rigogliose espressioni di arte totale dello scorso secolo.
articolo già pubbicato nel blog TERRA DI NESSUNO – CRITICA DELLA DRAMMATURGIA