MARAT/SADE – il livello verticale che non dovrebbe esistere

Die Verfolgung und Ermordung Jean Paul Marats, dargestellt durch die Schauspielgruppe des Hospizes zu Charenton unter Anleitung des Herrn de Sade, dramma di Peter Weiss, anche noto come Marat/Sade, scritto e rappresentato nel 1964. Tradotto e pubblicato in Italia nel 1967 da Einaudi, Collana Supercoralli, col titolo La persecuzione e l’assassinio di Jean-Paul Marat, rappresentato dalla compagnia filodrammatica dell’ospizio di Charenton sotto la guida del marchese de Sade; traduzione di Ippolito Pizzetti.

Il modello strutturale che vorrei proporre e utilizzare per l’analisi di questa drammaturgia di Peter Weiss si basa sull’individuazione di alcuni livelli teatrali “nidificati” l’uno nell’altro. Per livello teatrale intendo un sistema semiotico, ovvero produttivo di significato sociale, che presenta entrambe le seguenti condizioni: a) è composto da un piano narrativo autonomo il quale; b) viene rappresentato (messo in scena). Dunque, osservando la struttura del testo come vedessimo un organismo sezionato in altezza, partendo dall’alto avremo un primo livello che ne contiene un secondo. Tuttavia l’approfondimento che segue mostrerà l’inadeguatezza di questo primo abbozzo strutturale che, almeno nel caso del Marat/Sade, andrà necessariamente complicato.

Il primo livello teatrale, che convenzionalmente chiamo “livello zero”, è implicito alla rappresentazione di questo testo come di qualunque altro testo: è la visione, a cui possiamo partecipare o con vista e udito, quindi da spettatori, o, anche, con la sola immaginazione stimolata dalla lettura, quindi da lettori. Qual è l’oggetto di questa nostra visione, reale o immaginaria? La messa in scena di un testo teatrale del 1964 di Peter Weiss dal lungo e articolato titolo: “La persecuzione e l’assassinio di Jean Paul Marat, rappresentati dai filodrammatici di Charenton, sotto la guida del Marchese di Sade“, testo più semplicemente noto come “Marat/Sade“. La visione e la messa in scena (regia, attori e recitazione, scrittura scenica, qualunque atto o elemento teso alla rappresentazione della vicenda, ecc.) sono elementi sincronici e appartenenti al primo livello teatrale, il “livello zero”.

Poi si pone il secondo livello teatrale, il “livello meno uno”, interno al primo, e precisamente interno alla vicenda narrata dal primo: una filodrammatica capitanata dal Marchese de Sade mette in scena una vicenda storica risalente ai tempi della rivoluzione francese, l’assassinio di Jean-Paul Marat. Questa messa in scena è immaginata avvenire nel 1808 a opera di una compagnia di pazienti psichiatrici internati nel manicomio di Charenton e diretti da de Sade, anch’egli paziente del frenocomio, seppur di riguardo. Lo spettacolo ha, a sua volta, un suo pubblico, un pubblico “teatralizzato” (oggetto di rappresentazione) composto dal direttore, dalla sua famiglia, dai dipendenti dell’ospedale psichiatrico. Anche in questo caso c’è una linea sincronica che coinvolge il pubblico reale, quello teatralizzato, tutta la messa in scena della vicenda da parte di de Sade e della sua compagnia.

Ho scritto sopra che il livello è teatrale in quanto coincide con la rappresentazione teatrale di un piano narrativo. I livelli produttivi della funzione relazionale teatrale sono quindi due, la rappresentazione del testo di Weiss (livello zero) e la rappresentazione dell’uccisione di Marat diretta da de Sade (livello meno uno). Se invece facessi coincidere i livelli solo con i piani narrativi autonomi, ne dovrei individuare un terzo, convenzionalmente “livello base”, quello della vicenda che non contiene altro che se stessa, un livello teatralmente muto e passivo, che si fa rappresentare ma non rappresenta. Qual è questa vicenda che fa da base alle precedenti e che su queste proietta il suo riverbero? Lo dice il titolo: “La persecuzione e l’assassinio di Jean Paul Marat“, una vicenda storica, un assassinio avvenuto nel luglio del 1793 da parte della girondina Charlotte Corday. In definitiva, con la distinzione tra piani esclusivamente narrativi e piani teatrali posso complicare la struttura con un terzo livello. Avremo quindi: la vicenda (piano narrativo ma non teatrale), la rappresentazione della vicenda (piano narrativo e teatrale), la rappresentazione della rappresentazione della vicenda (piano narrativo e teatrale).

La struttura così disegnata a livelli decrescenti, o a matrioske, o, ancor meglio, a cilindro telescopico, è ovviamente, e pienamente, riconducibile all’antico espediente del teatro nel teatro, ovvero il fare di una rappresentazione teatrale l’oggetto drammatizzato della rappresentazione teatrale “vera”, soluzione teoricamente infinita nel numero delle iterazioni, come nelle immagini costruite sull’effetto Droste, ma che comunque, a prescindere dagli enne livelli messi in scena, ha sempre un piano esclusivamente narrativo, la vicenda che nel caso di Marat/Sade ho definito “base” (“che non contiene altro che se stessa”), che entra nella struttura teatrale solo se, e in quanto, viene rappresentata.

È abbastanza? No, non ancora; potrebbe esserlo nel caso di un testo metateatrale classico, non in questo Marat/Sade, costruzione drammaturgica in cui l’architetto Weiss escogita una sorprendente innovazione strutturale, tira fuori dal cilindro qualcosa di illogico, che non dovrebbe esistere, che contraddice l’impenetrabilità dei singoli livelli: il protagonista del livello meno uno, de Sade, dialoga con il protagonista della vicenda che sta rappresentando, Marat; attenzione: non dialoga da regista con l’attore che interpreta Marat, ma da personaggio con l’altro personaggio. In tal modo, grazie a questo sconfinamento tra livelli, a questa confusione ragionata dei piani narrativi, la “base” Marat viene drammatizzata (ovvero recuperata al teatro) due volte: attraverso la vicenda dell’uccisione del rivoluzionario giacobino, e questo è il “livello meno uno”, e poi attraverso l’esposizione del suo pensiero politico, in dialettica con quello del nichilista de Sade. Il confronto-scontro tra i due opposti mondi intellettuali dà vita a un livello trasversale, direi addirittura verticale laddove i precedenti sono orizzontali, un livello che si pone come la vera ragion d’essere del dramma, il “livello Marat/Sade”, principale vettore del dibattito tematico che il brechtiano Weiss offre al pubblico.

The Machines attack Mankind, Berlin 1935. Peter Weiss.
The Machines attack Mankind, Berlin 1935. Peter Weiss.

Qual è questo dibattito tematico? Che attinenze ha, se ne ha, con la contemporaneità? Donatien-Alphonse-François de Sade, più noto come Marchese de Sade, aristocratico francese, filosofo, poeta, drammaturgo, saggista, politico rivoluzionario, e poi notoriamente libertino e trasgressivo, razionalista, ateo, anticlericale, nichilista, libertario, anarchico ante litteram. Il suo interlocutore, a lui coetaneo e connazionale, si chiama Jean-Paul Marat, medico, scienziato, saggista, giornalista, politico rivoluzionario, giacobino radicale. La dialettica tra i due mostra il combattimento tra posizioni estreme, che hanno qualche iniziale punto in comune (l’anticlericalismo, a esempio) ma poi divergono in antitesi, modi di essere opposti, eppure entrambi così poco moderni o, meglio, così poco spendibili nella quotidianità, perlomeno nella quotidianità del “costruire”, ottimi invece per la quotidianità del “distruggere”: il nichilismo disilluso, Sade, e l’intransigenza rivoluzionaria del “Terrore”, Marat, concezioni della vita entrambe poco cattoliche, poco politiche, poco utili alla costruzione del sociale. Ed è nel confinamento storico delle loro idee che Sade e Marat trovano, se non un accordo, uno spazio comune – spazio anche fisico: il manicomio – che li accoglie e li connota entrambi.

SADE – Me ne infischio di questi movimenti di popolo

che girano intorno mordendosi la coda

Me ne infischio di tutte le buone intenzioni

che si disperdono in vicoli ciechi

me ne infischio di tutti i sacrifici

che si fanno per questa o quella causa

Io credo solamente in me stesso

MARAT – Io credo solo alla causa

che tu tradisci

[…]

SADE – Credi che li renderesti felici

se ciascun potesse percorrere la sua strada solo a metà

e andasse a sbattere sempre nell’uguaglianza

Credi che esisterebbe un progresso

se ciascuno fosse soltanto un piccolo anello

di una grande catena […]

MARAT – […] si tratta di un principio

che la rivoluzione esige

che i tiepidi e i compagni di strada

vengano espulsi

Per noi non esiste altra soluzione

che abbattere fino alle fondamenta

per quanto ciò possa apparire spietato

alle pance satolle che si crogiolano nel loro benessere

Eppure se ci si approccia al dramma di Weiss nella maniera meno preconcetta possibile, lasciando affiorare “naturalmente” sensazioni, immagini, collegamenti, intuizioni, non possiamo non percepire tra le pieghe del testo che la vera dialettica agitata non riguarda le tesi contrapposte dei due protagonisti – un discorrere tra i due che a lungo andare diviene rumore bianco -, semmai l’inquieto dualismo tra forme: forme teatrali novecentesche: il teatro epico di Bertolt Brecht e il teatro della crudeltà di Antonin Artaud; e poi forme antropologiche: mente e corpo, ragione e carne, intelletto e passione. Weiss confeziona un’architettura teatrale nella quale convivono e si dispiegano due dimensioni solitamente inconciliabili: raffinate – fredde, lucide – riflessioni politico-filosofico da un lato; corpi fuori controllo dall’altro, corpi di pazzi “scostumati”, di rivoluzionari sanguinari, di sadici perversi, corpi nudi, feriti, malati, incatenati, convulsi, rapiti dalle passioni. Ai lucidi ragionamenti di Marat e Sade – ragionamenti pacifici e astratti per loro natura – sull’utilità o meno della violenza rivoluzionaria, si contrappone una violenza ben più reale e disturbante perché non semplicemente ragionata o evocata ma mostrata all’interno di una situazione considerata normale, una necessità dell’organizzazione sociale: il manicomio, e quindi la privazione della libertà, i ceppi e le frustate, le malattie che devastano la carne, i corpi osceni che rinnegano la compostezza borghese. Una dimensione, questa dei corpi e della carne, dentro cui il Sade di Weiss – qui avo del colonnello Kurtz di Apocalypse Now, nonché alfiere in scena di Antonin Artaud – si muove con soddisfatto, seppur tragico, piacere:

per tredici anni

ho appreso

che questo è un mondo di corpi

ed ogni corpo è pieno di una forza tremenda

e ogni corpo è solo tormentato dalla sua irrequietudine

[…]

Chiuso dietro tredici chiavistelli

il piede nel ceppo

sognavo soltanto

queste fessure dei corpi

che esistono soltanto

per uncinarvisi ed esserne inghiottiti

In definitiva un testo, il Marat/Sade di Weiss, che per l’articolata, quasi esagerata, complessità strutturale, per la varietà dei temi affrontati, nonché per la ricchezza letteraria, scenica, pittorica, musicale e coreografica, e poi per la potenza dell’immaginario oscuro che mostra e sollecita, per i continui cambi di registro che propone, per la sua capacità di soddisfare un po’ tutte le grandi istanze artistiche del 900, non si inquadra, non si circoscrive, non entra in categorie precise, è schivo, sfuggente, scostante, ma soprattutto inquieta, perché – seppur in secondo piano, sorta di fantasma del testo e del palcoscenico – mostra la sconfitta della ragione, dell’ordine, della progettualità, mostra il logos che arranca di fronte all’impazzimento della carne, alle convulsioni che scuotono gli attori pazzi, alle dermatiti e al prurito che torturano Marat, all’obesità che immobilizza Sade. L’apparato statale, il potere politico e religioso, rappresentato dalla figura del Direttore Coulmier, chiude in gabbia questa débâcle della ragione, questo scandalo di corpi scomposti, di inarrestabile disordine, lo chiude dentro un manicomio ma poi commette l’errore di teatralizzare il tutto e il teatro, com’è nella sua natura, libera e amplifica ogni contraddizione. Un testo che non si inquadra, scrivevo, ma che realizza in potenza (il testo teatrale ha sempre energie sceniche “in potenza”) una delle più compiute e rigogliose espressioni di arte totale dello scorso secolo.

articolo già pubbicato nel blog TERRA DI NESSUNO – CRITICA DELLA DRAMMATURGIA

NO MAN’S LAND (TERRA DI NESSUNO) – la primavera non verrà mai più

No Man’s Land, di Harold Pinter, scritto nel 1974, prima rappresentazione e pubblicazione nel 1975. 1^ ed. italiana 1979, Einaudi, trad. Cesare Garboli, Elio Nissim, Romolo Valli. 2^ ed. italiana 1996, Einaudi, trad. Alessandra Serra, Laura del Bono, Elio Nissim

SPOONER – No. Sei in terra di nessuno. Che non si muove, che non cambia, che non invecchia, ma che dura in eterno silenziosa e glaciale.

HIRST – A questo io bevo.

Beve… Poi lentamente cala il sipario. 

Probabilmente non esiste approfondimento critico di questo dramma che non si sia posto l’obbligo di rispondere alla seguente domanda: qual è, o cosa è, questa terra di nessuno di Harold Pinter “Che non si muove, che non cambia, che non invecchia, ma che dura in eterno silenziosa e glaciale” (“Which never moves, which never changes, which never grows older, but which remains forever icy and silent”)? È un obbligo a cui nemmeno io voglio sottrarmi, tutt’altro, e darò una lapidaria risposta che tuttavia, da sola, mi sembra in grado di gettare luce sull’enigmatico testo pinteriano più di quanto possano pagine e pagine di riflessione: la terra di nessuno di Pinter è la vita. Alla celebre, suddetta, battuta di Spooner risponde il suo contraltare Hirst: “A questo io bevo” (“I’ll drink to that!”) e con questo scambio il dramma si chiude. Hirst, quindi, beve alla vita, non brinda ma beve, come avviene di continuo in questo testo, tutti bevono, tracannano whisky come fosse acqua fresca. Ma se si “brinda” a qualcosa, alla vita ad esempio, festeggiandola, non si “beve” a qualcosa. Il bere (alcol ovviamente) veicola una dipendenza, una passività, una fuga, una sconfitta. Di fronte alla vita “icy and silent” di Spooner (e di Hirst, che anticipa nel primo atto la medesima battuta) la soluzione dei 4 personaggi di No Man’s Land non è di festeggiare, ovvero brindare, ma di bere. E qui devo aprire un inciso: i tre traduttori della prima versione italiana del testo – Cesare Garboli, Elio Nissim e Romolo Valli, traduzione del 1979 – scelgono il letterale “bere” per “drink”, e “I’ll drink to that!” diventa “A questo io bevo”. Alessandra Serra, Laura del Bono ed Elio Nissim che tradurranno per la versione del 1996, faranno un’altra scelta rendendo “I’ll drink to that!” con “A questo io brindo”. Quest’ultima soluzione mi pare una forzatura: Hirst non brinda; in nessun momento del testo, tantomeno nel finale, maturano le condizioni per brindare a qualcosa; non brinda ma beve fino allo stordimento come un disperato alcolista e il senso di “I’ll drink to that” si trova in un gioco di parole dove “drink” è sì letteralmente bere (in questo caso il bere dell’alcolista) ma è anche una dichiarazione di accordo con la precedente battuta di Spooner, un “ben detto!”, un “concordo con te e bevo”, un “sono d’accordo con la tua visione della vita ed è per questo che bevo”. Potremmo fermarci qui, ma non si deve mai far coincidere un testo teatrale con la sua ermeneutica allegorica, come sempre c’è molto di più.

Una stanza nella villa di Hirst, una variante del salotto borghese dove più di un mobilio basilare cattura lo sguardo l’esposizione di libri e alcolici. Hirst e Spooner sono in scena e parlano delle qualità che formano il “vero uomo”: forza, intelligenza, perspicacia. Noi non sappiamo nulla di loro e, a quanto pare, anch’essi sono ignari delle rispettive vite, non si conoscono, si sono incontrati casualmente la sera stessa in un parco, entrambi intenti a praticare voyeurismo; poi Hirst ha invitato Spooner a casa sua e ora approcciano una conoscenza più approfondita. Il secondo atto smentirà il primo proponendo Hirst e Spooner come amici di vecchia data, due intellettuali che rivaleggiavano per la carriera e per le donne. Hirst sembrerebbe essere un letterato, un saggista, un poeta; Spooner si rivela garzone di birreria e anch’esso poeta. Poi entrano Foster e Briggs, altre incognite in gioco. Il primo dice di essere figlio di Hirst ma poi si qualifica come suo segretario e infine come suo allievo poeta. Briggs è altrettanto misterioso, si muove con il piglio da padrone di casa ma assolve a funzioni riconducibili al “maior domus”. In definitiva ogni pagina smentisce la precedente e contraddice la successiva, qualunque ricerca di coerenza narrativa in questo testo è tempo perso; i personaggi esistono solo in base a ciò che dichiarano in quello specifico istante, e nell’istante successivo pur restando sempre gli stessi sono cambiati, hanno un’altra storia, altre esperienze, altre relazioni. 

Spooner, Hirst, Foster, Brigs, quattro personaggi maschili, due sessantenni e due più giovani (trent’anni Foster e quaranta Briggs), vecchi contro giovani come nelle commedie classiche, eppure questa differenza generazionale non sembra produrre alcun fluire del tempo (“Which never moves, which never changes, which never grows older”). Nulla accade, nulla è accaduto, i quattro personaggi quasi mai entrano veramente in relazione tra loro, si aggirano, semmai, come morti viventi romeriani all’interno di una realtà grottesca, “silenziosa e glaciale”, svelata dalla quarta parete della scatola scenica che li illumina e li offre, a noi lettori/spettatori, non come fuochi di una narrazione strutturata su eventi, accadimenti, meccanismi di causa-effetto, bensì come deboli fantasmi che stancamente e con poca convinzione reiterano brandelli di identità degne al più di un gioco infantile (una sorta di “facciamo finta che…”). Il realismo di Pinter, quel contesto che all’inizio, come sempre nei suoi drammi, appare solido e riconoscibile, viene tradito man mano che i dialoghi procedono svelando le deformità dei personaggi. Spooner in particolare, centro ideale del dramma, anche in termini di composizione del quadro scenico, esorbitante e verboso nel linguaggio, suggerisce una medesima, flaccida, eccedenza corporea, una forma monolitica che erutta parole con musicale monotonia. 

SPOONER – Sono un amico ostinato delle arti, specialmente della poesia, e una guida per la gioventù.  La mia casa è aperta a tutti.  Ci vengono giovani poeti. Mi leggono i loro versi. Offro loro il caffè e i miei commenti senza chiedere il conto. Sono ammesse le donne, ce n’è qualcuna che è anche un poeta. Altre non lo sono. Anche alcuni degli uomini non lo sono. Molti degli uomini non lo sono. […]

Con Terra di Nessuno, con Spooner su tutti, Pinter riprende temi cari a Ionesco: l’indipendenza del linguaggio che si fa oggetto sociale, abito da indossare nelle varie situazioni, e poi il parlare che sovrasta e dissolve il parlatore, il dialogo che non comunica. In alcuni drammi di Ionesco (La Cantatrice Calva in particolare) quel che va in scena è la frattura tra linguaggio e umanità: il primo ha vita a sé e usa la seconda come proprio habitat, fino a configurare l’ipotesi di un’ontologia del linguaggio. In Pinter l’operazione differisce parzialmente: il linguaggio non ha la forza impetuosa che mostra in Ionesco, non maschera il vuoto tramite una parvenza di vitalità e dialettica, non socializza. Spooner soprattutto, ma anche Hirst e, in misura minore, Briggs e Foster, eruttano parole che non vanno da nessuna parte, non compiono il tragitto tra emettitore e ricevente ma ricadono addosso al primo dei due poli come magma liquido e infuocato e questa verbalità che gli cola addosso svela, parzialmente e instabilmente, quasi per contrasto, per impermeabilità direi, anzi per solidificazione e stratificazione, il suo profilo altrimenti invisibile. Abbiamo quindi una deriva solipsistica del linguaggio e al tempo stesso un’iperstimolazione verbale e perciò eccedenza del significato che da veicolo di senso e riconoscimento transita nei territori del non sense. Nel testo di Pinter il non sense è inquietante, definisce il personaggio per negazione, per ciò che non è (operazione, in un certo senso, non estranea alla letteratura mistica). È un linguaggio ambiguo e depistante, spiazzante, non dice “questi sono dei buffoni ingenui e/o spersonalizzati” (come avviene in Ionesco), dice semmai “questi non sono nulla di quel che affermano, o di quel che credi”, e l’inquietudine nasce anche dall’impossibilità di definirli, di uscire dal dubbio per giungere alla certezza.

“Anche”, scrivevo, non “solo”: Pinter sa sollecitare ulteriori inquietudini disseminando elementi istintuali tra tutti i personaggi, una carica di violenza e di potenziale sopraffazione, un abbrutimento generalizzato, una mancanza di dignità che sfocia nel servilismo. Sullo sfondo una struttura oppositiva – spesso presente nei suoi drammi – tra cultura (sbandierata) e natura (istinto che emerge). Molti dialoghi si presentano come corda tesa tra questi due poli, mezzo per tener viva una tensione che però non esplode mai. Il linguaggio schizofrenico evidenzia la doppiezza, multiformità, ambiguità, mutabilità pericolosa dell’uomo e delle relazioni che costruisce. La natura emerge sulla patina di cultura. L’uomo, qualunque cosa affermi, non è quel che mostra. Viene da chiedersi quanto ci sia di autobiografico, o comunque frutto di esperienze dirette, in questa narrazione degli ambienti culturali, quanto la coppia Hirst/Spooner – intellettuale di successo il primo, artista fallito il secondo – sia sineddoche affidabile. Certamente in questo testo Pinter lascia galoppare la propria fantasia sui campi sterminati degli ambienti letterari e artistici che ben conosce, le dinamiche e le relazioni che in quegli ambiti prendono vita, i rapporti di potere, le umiliazioni, i servilismi, i deliri egotici. Il ritratto pinteriano del mondo intellettuale, quello dei poeti in particolare, è parodistico e grottesco ma al tempo stesso impietoso.

foto di scena estratta da “IL DRAMMA – mensile dello spettacolo”, n.3 marzo 1978

È il 1974, i principali capolavori dell’assurdo sono stati scritti e pubblicati, il genere non fa più scandalo, è stato digerito e assimilato e nessuno si chiede più chi o cosa simbolizzi Godot. No Man’s Land rappresenta probabilmente il “boato” finale che chiude un lungo spettacolo pirotecnico, il colpo di coda di un’estetica che, a sua volta, è il colpo di coda delle avanguardie storiche, davvero una lunga coda che dal primo Novecento si incunea nel secondo attraversando i disastri bellici da cui prende in eredità disillusione, nichilismo, amarezza. L’assurdo è avanguardia fattasi vecchia, è priva di spensierato vigore, di voglia di vivere. Harold Pinter chiude il genere con un dramma che, come avviene con i bambini, ruba somiglianze da entrambi i genitori: è un nuovo Fin de Partie dove però i quattro prigionieri del solito spazio chiuso, Hirst/Hamm, Spooner/Clov, Brigs/Nagg, Foster/Nell, rinunciano anche alla resa dei conti, e troppo stanchi per battaglie e giochi di potere lasciano spazio a un teatro borghese senza passato né futuro, inscenato al più da presenze fantasmatiche; ma è anche un testo che chiama in causa Ionesco per chiudere definitivamente ogni progetto sulle capacità socializzanti del linguaggio, che in No Man’s Land ha prospettive al più onanistiche.

Fantasmi quindi, ma fantasmi che fanno sorridere. “Non c’è niente di più comico dell’infelicità“, fa dire Beckett a Nell in Finale di Partita, e Pinter non si tira indietro nell’applicare la lezione di uno dei suoi due maestri: la natura farsesca del dramma emerge con ogni evidenza nei tratti comici dei tanti scambi tra Spooner e Hirst nel primo quanto nel secondo atto.

SPOONER – Una volta frugai con gli occhi nel volto di mia madre. Non vidi altro che pura e semplice malevolenza. Sono fortunato di essere ancora vivo. Lei vorrà sapere che cosa avevo fatto per suscitare tanto odio in mia madre. 

HIRST – Si era pisciato addosso. 

SPOONER – Proprio così. Quanti anni pensa che avessi allora?

HIRST – Ventotto. 

SPOONER – Proprio così. 

Tuttavia l’umorismo (involontario, nelle intenzioni dei personaggi) emerge sì qua e là ma non prende mai il sopravvento. Al pubblico appare in ogni caso una parvenza di serietà e di intellettualismo che però, già a uno sguardo un poco meno distratto, si svela nella sua ingannevolezza, un po’ come avviene nelle immagini prodotte dalla Intelligenza Artificiale dove tutto a prima vista appare familiare (un mobile, un vestito, un qualunque oggetto di uso quotidiano) ma a una osservazione più attenta ogni elemento risulta sconosciuto, non conforme alle aspettative. Come anticipavo sopra, l’operazione di Pinter passa sempre, o spesso, attraverso un realismo che fa da cornice a una dilatazione e deformazione dei tratti e dei comportamenti umani, il che tradisce proprio quella premessa di realismo che si rivela essere illusoria. L’opera di Francis Bacon (che non a caso appare con un suo soggetto sulla copertina dell’edizione Einaudi 1979) è un buon riferimento pittorico per comprendere la deformazione dei personaggi pinteriani (Spooner su tutti).

SPOONER – Che meraviglia.  Continui. Continui a dirmi ancora delle piccole eccentriche perversioni di quella vita e di quel tempo. Mi inquadri, con tutta l’autorità e lucidità di cui può disporre, la struttura socio-economica-politica dell’ambiente in cui lei ha raggiunto l’età della ragione.  Mi dica di più. 

Dove risiede, quindi, in ultima analisi, la grandezza e soprattutto l’originalità di questo classico? Quale lezione ci lascia o, meglio, in qualità di ultimo esemplare di una “stirpe” di opere, ci ribadisce? Credo che No Man’s Land sia solo in parte, una parte evidente ma non più che epidermica, la tematizzazione drammatica di una visione della vita pervasa da un nichilismo senza speranza – argomento, questo, che non sarebbe certo una novità nella longeva produzione dell’assurdo. Credo, invece, che questo testo sia sostanzialmente un discorso interno al teatro, in particolare un discorso sul testo teatrale, un’eredità che possiamo sintetizzare in questo assunto: non esistono personaggi preesistenti alle loro parole o, formulazione più radicale, non esistono personaggi ma solo le loro parole. 

HIRST – Cambiamo argomento. (Pausa) Una volta per tutte. (Pausa) Che cosa ho detto?

FOSTER – Ha detto di cambiare argomento una volta per tutte. 

HIRST – Ma che cosa vuol dire?

FOSTER – Vuol dire che una volta cambiato l’argomento, lei non lo cambierà mai più. 

HIRST – Mai più?

FOSTER – Mai più. 

HIRST – Mai più?

FOSTER – Lei ha detto una volta per tutte. 

HIRST – Ma che cosa vuol dire? Che – cosa – vuol – dire?

FOSTER – Vuol dire per sempre. Vuol dire che l’argomento è cambiato una volta per tutte, per l’ultima volta, e per sempre.  Se, per esempio, l’argomento è “l’inverno”, sarà inverno per sempre. 

HIRST – L’argomento è l’inverno?

FOSTER – Ora l’argomento è l’inverno.  E resterà quindi inverno per sempre. 

BRIGGS – Una volta per tutte. 

FOSTER – E durerà per sempre. Se a entrare in argomento è l’inverno, per esempio, la primavera non verrà mai più. 

articolo già pubbicato nel blog TERRA DI NESSUNO – CRITICA DELLA DRAMMATURGIA

SUNSET LIMITED – le vie cieche dell’Occidente

The Sunset Limited: A Novel in Dramatic Form, di Cormac McCarthy
2006, USA – 2008, Italia (traduzione di Martina Testa)

BIANCO – […] credo nel valore delle cose.
NERO – Ok. Di quali cose?
BIANCO – Di un sacco di cose. Le cose culturali, per esempio. I libri, la musica, l’arte. Cose di questo genere. […] Queste sono per me le cose che hanno valore. Sono la base della civiltà. O quantomeno, un tempo avevano valore. Probabilmente oggi non ne hanno più tanto.
NERO – E cosa gli è successo, a quelle cose?
BIANCO – La gente ha smesso di dar loro valore […] Quel mondo è in gran parte scomparso. E fra poco lo sarà del tutto.
NERO – Non so se riesco a seguirti, professore.
BIANCO – Non c’è niente da seguire. Va bene così. Le cose che amavo un tempo erano molto fragili. Molto delicate. Ma io non lo sapevo. Pensavo che fossero indistruttibili. E mi sbagliavo.
NERO – Ed è questo che ti ha spinto a buttarti giù dal binario. Non una questione personale.
BIANCO – Ma è una questione personale. É proprio questo l’effetto dell’istruzione. Rende il mondo intero qualcosa di personale.
NERO – Hm.
BIANCO – Cosa, hm?
NERO – […] a che servono idee del genere se poi non riescono a farti tenere i piedi incollati a terra quando arriva il Sunset Limited a centotrenta all’ora?

Binari attraversano la drammaturgia americana e la parabola umana che questa racconta. Binari che se alla fine dei ’40 aprivano a sogni e promesse grazie all’indolente andirivieni di A Streetcar named Desire, ora lasciano sfrecciare l’aggressiva e disillusa mortalità di un Sunset Limited – letteralmente “tramonto limitato” -, storico treno passeggeri che collegava New Orleans a Los Angeles. Da Desire scendeva Blanche DuBois alla ricerca di una nuova vita, di un riscatto al fallimento che si lasciava alle spalle; sul Sunset Limited tenta di gettarsi, e quindi di chiudere la propria vita, un non meglio specificato intellettuale “Bianco”. Ci prova ma non ci riesce perché ad impedirglielo interviene un (altrettanto “non meglio specificato”) ex galeotto “Nero”.

Cormac McCarthy, scrittore che nei suoi romanzi predilige le tinte vigorose ed icastiche e che nel narrare spande le avvisaglie dell’imminenza apocalittica, affronta questa drammaturgia abbracciando un dualismo radicale, didascalico addirittura, o stereotipato, ma lo fa con una tale padronanza del dialogo da allontanare nel lettore ogni sospetto di ingenuità o di pregiudizi: McCarthy è maestro autorevole e dispotico, attraverso un raffinato e deciso gioco linguistico guida senza incertezze il lettore portandolo dove lui decide di portarlo. Sottolineo il ruolo risolutivo del dialogo perché se la drammaturgia è solitamente una partitura a due strumenti, dialogo e azione, detto e fatto, voce e corpo, Sunset Limited tralascia sostanzialmente il secondo per costruire un edificio che si dimostra funzionale all’atto teatrale nonostante si basi, appunto, su un solo componente, quello dialogico. Quindi basta un dialogo – pur se maestoso – per transitare dalla letteratura alla scena? McCarthy stesso sembra “fiutare” e disinnescare l’eventuale interrogativo utilizzando come sottotitolo la locuzione “Romanzo in forma drammatica” il che, ulteriormente e su suggerimento dell’autore, sembra spingere l’approccio al testo in direzione non tanto di una forma narrativa contrapposta ad una drammatica quanto di un “letterario” che si oppone a “scenico”. Se ogni drammaturgia deve saper rispondere della sua duplice appartenenza di prodotto letterario e di futuro elemento di scrittura scenica, Sunset Limited sembrerebbe perciò disinteressarsi della seconda possibilità proponendosi come elegante riflessione esistenziale a due voci, assolutamente statica riguardo i movimenti nello spazio scenico. “Sembrerebbe”, appunto, ma non è così: Sunset Limited è genuino e puro oggetto teatrale. Vediamo perché.

I due personaggi, il Bianco e il Nero, si affrontano l’uno di fronte l’altro. Li vediamo seduti, un tavolo li separa, profili affilati che si oppongono, tendenzialmente fermi, stilizzati, sono segni o, addirittura, elementi scenici, arredi. Sono immobili ma le loro voci no, le voci si muovono e bucano la quarta parete. Il primo aspetto che connota il dialogo tra i due è l’agonismo. In genere l’agonismo è movimento fisico, è azione, l’agonismo non si sposa con la stasi ma qui avviene o, meglio, è la stasi che si cala nell’agone e che inscena un combattimento con le armi del testo e della voce, del logos e del dialogo. È una partita: il Nero attacca, il Bianco si difende. Ma in una lotta non ci può essere particolare spazio per le sfumature, per le mezze misure, non sono funzionali a questo tipo di attività, ed ecco che McCarthy cala gli stereotipi forti, il nero vs il bianco, il povero vs il benestante, il galeotto vs l’onesto, l’ignorante vs l’intellettuale, il religioso vs l’agnostico, lo spirituale vs il razionale, la fede vs la ragione. Riassumendo, un nero povero, ex galeotto, ignorante ma ricco di fervore religioso si oppone ad un bianco benestante, ben integrato in società, un professore colto e scettico in materia di fede; la contrapposizione è marcata, priva di mediazioni, di punti di incontro, di accordi. La nettezza con cui McCarthy disegna i due poli contrapposti cattura l’attenzione del lettore/spettatore: da due uomini in scena ti aspetti e pretendi movimento e azioni, da due princìpi no, la relazione tra princìpi si sposta su un altro piano, quello delle argomentazioni. Ma il teatro, si obietterà, è terra per attrici e attori, non per idee astratte e disincarnate. No, il teatro è terra per elementi di scrittura scenica e per la partitura multisensoriale che questi vanno a comporre, sollecitando tanto i sensi quanto la mente dello spettatore. Nel teatro “in atto” convergono le estetiche e le regole della pittura, della musica, della dialettica: la drammaturgia di Sunset Limited regala il dualismo bianco/nero per la prima, un ritmo raffinato e sempre controllato per la seconda, una battaglia a colpi di argomentazioni per la terza.

Il testo annulla fisicità e temporalità, depotenzia spazio e tempo, per il primo rendendo assenti significativi movimenti fisici, per il secondo ignorando la narrazione intesa come successione di eventi e scegliendo, semmai, una dialogicità che è approfondimento e destratificazione della medesima e sempre stessa problematica esistenziale. Le due tesi contrapposte si studiano attraverso silenzi e fasi interlocutorie per poi attaccarsi improvvisamente alla ricerca della stoccata vincente. La pausa diviene motore del movimento verbale/testuale, carburante del ritmo, strumento primario della base ritmica dell’azione verbale, ne causa il ripartire subitaneo, lo “stop and go”. Con rara sensibilità musicale McCarthy usa la pausa per creare un sottofondo di sospensione, un silenzio “elastico” dove la parola o, meglio, la frase, rimbalza e schizza impazzita e si rifrange in una moltiplicazione esponenziale che raggiunge lo spettatore da ogni direzione avvolgendolo. Artaud, in Il Teatro e il suo Doppio, parlava della parola in termini di sua <<capacità di espansione […], di sviluppo nello spazio, di azione dissociatrice e vibratoria sulla sensibilità>>. Artaud si riferiva agli aspetti prosodici della parola e perciò alla sua interpretazione, ma la tesi è valida anche per il testo che l’autore offre all’interprete, un testo non ancora recitato ma che già ha in sé, nella sua struttura, il dono della musica. Il potere avvolgente della frase, dunque, la sua mobilità ed elasticità sviano il pubblico dal bisogno di osservare dei movimenti: la percezione sonora, il maggior “nutrimento” uditivo, compensa la staticità dello sguardo inchiodato sui due opposti cromatismi, Bianco e Nero, duplici punti di fuga della composizione pittorica creata dal romanziere di Providence, giganteschi altoparlanti di una tenzone che ci riguarda tutti.

<<Niente di quello che succede significa qualcos’altro>>, dice il Bianco, e con questa frase nega di colpo l’intera storia e cultura dell’Occidente, improntata alla metafora e alla ricerca del senso. E ancora: <<La felicità è contraria alla condizione umana>>, <<La sofferenza e il destino umano sono la stessa cosa. L’una è la descrizione dell’altro>>, <<L’evoluzione non potrà non condurre la vita intelligente alla consapevolezza di una certa cosa sopra tutte le altre, e questa cosa è la futilità>>. Le opinioni del professore Bianco sono figlie di un nichilismo radicale, conclusioni logiche di una razionalità portata ai limiti estremi, sorta di malattia autoimmune della ragione. La risposta del Nero è nella fede, nella presenza di un senso divino in tutto, di una teleologia degli accadimenti. É uno scontro sul piano dinamico dell’agonismo, scrivevo prima, ma pur trattandosi di una sfida testuale e verbale non è l’arma dell’abilità retorica a condurlo. La retorica è quasi del tutto assente, né i dialoghi attingono a sofismi, tutt’altro: nonostante la profondità e complessità del tema, e soprattutto grazie alla conduzione del Nero, le argomentazioni si avvalgono di allegorie, di metafore, di piani discorsivi sorprendentemente accessibili, un linguaggio “quotidiano” direi. Non c’è abilità retorica, dicevo, c’è semmai <<l’accompagnare il proprio interlocutore a “partorire” la verità>>, definizione, questa tra caporali, abbastanza comune in rete come spiegazione del cosiddetto metodo maieutico di paternità socratica. La forma dialettica del filosofeggiare socratico, raccontata da Platone nel Teeteto, è detta maieutica (dal greco “maieutikḗ”, ovvero “ostetricia”) in quanto, in analogia al fare della levatrice con la partoriente ed il feto, tende a guidare l’interlocutore (generalmente con brevi e precise domande) in un percorso che dovrà chiudersi con la conoscenza sia del suo errore, sia della Verità che finora mai aveva raggiunto. É il metodo che adotta il Nero, è lui il “nostro” Socrate ma davanti a sé non ha l’arrendevolezza di un Alcibiade, né di un Teeteto, e il professore Bianco rintuzza, quasi con noia, i tentativi persuasivi del Nero che evidentemente, dall’alto del suo scetticismo, gli debbono apparire del tutto inefficaci. Eppure il Nero è molto lontano dall’essere un ingenuo sprovveduto e si dimostra un più che degno avversario dell’intellettuale Bianco:

NERO – […] Non sono uno che dubita. Però sono uno che fa domande.
BIANCO – E che differenza c’è?
NERO – Be’, secondo me chi fa domande vuole la verità. Mentre chi dubita vuole sentirsi dire che la verità non esiste.

E così tra continui assalti, mirabili parate, improvvisi contrattacchi, citazioni shakespeariane (<<Chi sarebbe disposto a sopportare questo incubo, se non per paura dell’incubo che lo seguirà?>>) il testo scorre aspro e crudele verso il finale di partita, finale che non riesce a decretare un vincitore ma nemmeno un pareggio: in realtà Sunset Limited mette in scena due tragiche sconfitte, quella della fede e quella della ragione: il Bianco (la ragione) abbandona la scena con la propria foga autodistruttiva illesa; il Nero (la fede) piange l’assenza dentro di sé delle <<parole giuste>>. Sono due inettitudini che si annullano a vicenda, le vie cieche dell’Occidente.

articolo già pubbicato nel blog TERRA DI NESSUNO – CRITICA DELLA DRAMMATURGIA

Aldo Morto, tragedia di Daniele Timpano

Daniele Timpano
Daniele Timpano

«Va be’. Niente di importante», Aldo Moro è stato ammazzato 35 anni fa. 1978. «Cose che capitavano negli anni settanta». Un’altra epoca. Un altro mondo. Niente di importante… oggi. Allora era tutto in bianco e nero, le 16 sfumature di grigio percepibili avvolgevano i palazzi della politica, come una densa nebbia. Forse si sparava per questo,  per illuminare quella cappa di mistero e foschia che era la politica italiana, per squarciare quel velo di nebbia oltre al quale distinguevi appena vaghe idee di personaggi vecchi e ingobbiti, liturgie secolari ripetersi con l’incedere stanco di un pachiderma, inconfessabili vergogne nazionali negate fino alla morte. La morte, appunto, di Aldo e di tanti altri. Allora, in un’Italia benestante si rincorrevano le incognite della rivoluzione, oggi in un’Italia povera si rincorrono le sicurezze della restaurazione. Un’altra epoca, un altro mondo.

C’è qualcosa di irreale nella politica di questi anni che celebra il martirio di Moro. In quelle facce fintamente addolorate, in quelle corone di fiori bugiardi deposte con residui di energia costantemente più deboli, in tutta quell’ipocrisia istituzionale comprendi la tirannia della forma. Tiranna è la forma perché urla più di ogni contenuto. Tiranna è la forma nella sua disgustosa assertività. Rivoluzionario è colui che rompe la forma e apre spazi di possibilità. L’autore-regista-attore Daniele Timpano ha scritto un monologo intitolato Aldo Morto e l’ha portato in scena in diverse serate sparse per l’Italia. Poi il 16 marzo del 2013 è entrato in una sala del Teatro dell’Orologio di Roma e da lì uscirà l’8 maggio prossimo. 54 giorni di repliche e 54 giorni di autoreclusione in una celletta di 3 metri per 1 ricavata nella stessa sala, alle spalle del fondale. Se è vecchia e noiosa la cerimonia istituzionale in ricordo di Moro che possibilità ha lo spettacolo di Timpano di non replicare la medesima vecchia noia? Una noia profana, contrapposta a quella sacra delle istituzioni ma pur sempre noia. Noia di cose di un’altra epoca, di un altro mondo. Noia perché ci è venuto a noia quel fatto (incomprensibile come tutti i fatti italiani) che ha generato fiumi di analisi e discorsi e parole e accuse e difese e libri e teatro e film…

Ma Daniele Timpano non è uno storico e non ha verità storiche da farci bere. Daniele Timpano non è un politico e non ci propina né morali né ideologie. Daniele Timpano non è nemmeno un giornalista d’inchiesta che svela misteri impensabili. Daniele, tra l’altro, nel 1978 aveva solo 4 anni e di tutti quei fatti – soprattutto di quelle atmosfere – non ricorda nulla. Sì, certo, si documenta, si documenta come un topo da biblioteca ma nessuno pensi che questo suo one-man show sia riconducibile al genere “teatro di narrazione”. In definitiva Timpano è un artista puro, merce rarissima a teatro, e il suo Aldo Morto è uno straordinario lavoro sulla forma narrativa, teatrale e non solo.

Più vecchio di Timpano, io quegli anni e quei fatti me li ricordo abbastanza. Non meno documentato di Timpano ho letto tesi e antitesi sull’argomento. Ecco perché ringrazio Timpano di non aver ceduto alla presunzione di “dirci la sua”, di ammalarsi di tuttologia come molti bravi odierni italiani; nessun sovrappiù di intelligenza sulla vicenda Moro ho avuto dalla visione di questo spettacolo e tuttavia mi è parsa netta e impietosa la pennellata del pittore Timpano nell’inchiodare sulla tela del palcoscenico le forme umane di quella storia, di quegli anni e degli anni a venire. Qui interviene la personale verità artistica dell’autore, una verità disillusa, forse nichilista, un mostruoso miscuglio di ironico distacco e pietosa compartecipazione. Emerge il ridicolo e a volte la disumanità dei personaggi narrati, eppure non ho percepito volontà di condanna, il Timpano giudice e moralista non si è manifestato. Ritratti come grotteschi fumetti,  i protagonisti di quella straziante vicenda italiana si muovono come automi privi di anima, sembrano danzare un macabro gioco di ruolo intorno al palo-totem Moro, e grazie a tale distacco ne cogli le odiose convenzioni, le formalità, le falsità con cui inscenano i loro rituali ipocriti, in qualche modo ne cogli la “necessità” (ananke) e quindi la tragedia. Come se fare a brandelli un evento storico, farne coriandoli e gettarli in aria a caso, affidarli al caso nella loro ricaduta a terra, rendesse il senso della Storia più della storia stessa.

Timpano sembra ripercorrere a tratti l’operazione cubista di sezionamento e ricreazione dell’immagine. Come in un quadro cubista lo sguardo frontale del pubblico abbraccia il soggetto da più angolazioni e la coerenza si perde da vicino e si riacquista da lontano. Ma ogni possibilità di partecipazione emotiva è negata, nonché è negato il tentativo stesso di giungere ad una sintesi in termini di verità storica o politica.  Si affida a salti temporali, improvvise irruzioni autobiografiche, scomposizione e disarticolazione delle convenzioni narrative, tributi estetizzanti ai piaceri del ritmo e della bella e ardita letteratura (il fantastico finale a mo’ di martirologio), calca sull’iperbole senza tradire la verosimiglianza, non è mai credibile in quel che dice, non vuole essere credibile, frulla idee, immagini, fatti, parole, rendendo testimonianza alla sensibilità artistica e comunicativa della nostra epoca. La contemporaneità della sua estetica toglie polvere e ragnatele al teatro italiano e gli dona vita come pochi in Italia sanno fare. 

Aldo Morto è uno spettacolo che ci dice più sulla nostra epoca di quanto dica dell’altra, ormai andata e irraggiungibile. Quella era l’epoca delle grandi narrazioni, la nostra si presenta sempre più come quella delle piccole confusioni. I fatti si dissolvono e si confondono, le verità sembrano imprendibili e cangianti, come farfalle che si fanno beffe del retino che le insegue e che le vorrebbe ingabbiare. La sfida tragica tra l’uomo e la verità sembrano porsi come il vero tema di questo spettacolo la cui visione lascia in retrogusto una rappresentazione dell’umano tangente le dimensioni del mostruoso.

Poi il pubblico esce e l’attore torna nella sua cella di 3 metri per 1, torna alla sua reclusione, accende la webcam e si mette in streaming, si dà in pasto alle comunità virtuali, facebook, twitter, you tube, blog vari. Reclusione e streaming, isolamento e trasparenza, scomparsa e perenne presenza, tutti i poli su cui gioca la nostra contemporaneità.

Non è un teatro per poveri

Totò, Miseria e Nobiltà
Totò, Miseria e Nobiltà

Nel corso di questo sciagurato 2012 ho concentrato le mie forze produttive su tre spettacoli che mi vedevano impegnato in veste di autore e regista: Terzo Millennio – ripresa di un lavoro ormai vecchio di 15 anni – che è stato in scena a Milano per due settimane di marzo; XXX Pasolini, che debuttò a fine 2011 e che quest’anno ho riproposto in alcune occasioni romane tra gennaio e settembre; infine Veronica, con debutto “nazionale” a ottobre per quindici giorni. Tre spettacoli che tra prove e messa in scena mi sono costati a occhio e croce almeno otto mesi di lavoro. Se analizzo il tutto da un mero punto di vista economico, senza sofisticherie contabili… insomma il cosiddetto “conto della serva” tra entrate ed uscite, chiudo il bilancio 2012 con un saldo negativo di alcune migliaia di euro. In altre parole, potrei dire che quest’anno ho lavorato otto mesi per guadagnarmi un debito, oppure – formulazione ancor più paradossale e divertente – che ho pagato per lavorare gratis otto mesi.

Solo questo? No, per carità, ci sono state anche le soddisfazioni, i complimenti, quel bel clima da “impresa epica” che si crea nella compagnia ogni qualvolta si va in scena, una dozzina di recensioni perlopiù positive. Sì, tutte belle cose ma poi…

In base alle mie (non poche) esperienze nel settore, alla fine del 2011 avrei potuto sottoscrivere sicuramente l’affermazione che il teatro – almeno il teatro al mio livello, che è il livello della creazione indipendente – non è un’attività che ti permette un minimo (davvero minimo) di stabilità economica. Ma tutto sommato nemmeno di “dignitosa precarietà” economica. Cioè, (luogo comune) “col teatro non ci si campa”, teatro ed economia non vanno d’accordo, si ignorano completamente. Fin qui nulla di nuovo.

Oggi che il 2012 volge al termine sono costretto a rivedere addirittura al ribasso questa affermazione per riformularla nei seguenti termini: il (mio) teatro è un hobby da ricchi. E per “ricco” intendo semplicemente colui che ha una stabilità economica alle spalle che gli permette di sperperare denaro e tempo per le sue passioni. E quel “colui” certamente non sono io. Al momento, la cosa più di buon senso che posso fare è quella di fermare ogni mio nuovo progetto e limitarmi ad eventuali, sporadiche repliche a “rischio impresa zero” (esistono?).

Ora non voglio incorrere nell’errore “induttivo”, l’errore di chi proietta la propria esperienza sul resto del mondo. Cioè, non escludo che vi siano produzioni di teatro indipendente, o “off”, o “di ricerca”, o come cavolo lo si vuol chiamare, che diano soddisfazioni e certezze anche economiche. Non escludo questa possibilità ma se mi guardo intorno mi sento ragionevolmente di relegarla al ruolo di eccezione piuttosto che di regola. La regola, perciò, resta quella sopra descritta, che potrei riformulare parafrasando Cormac McCarthy: non è un teatro per poveri.

Che il teatro italiano non sia per poveri ce ne faremo tutti quanti – ricchi e poveri – una ragione. D’altronde in Italia non è per poveri la cultura, l’istruzione, la buona alimentazione etc. Il teatro italiano esisterà a prescindere dalle mie difficoltà produttive e dalle analoghe difficoltà di altre centinaia di teatranti bravi e volenterosi ma non abbastanza “ricchi” di soldi e di tempo per far sentire adeguatamente la propria voce, il proprio pensiero, le proprie idee. Un teatro sempre più irrigidito e chiuso, come casta di figli d’arte o figli di papà che si passano il mestiere di generazione in generazione, come i notai.

Che il teatro non sia per poveri è anche un sospetto che ho da anni, non potendo fare a meno di notare la significativa percentuale di rampolli della buona borghesia che infesta il nostro ambiente, spesso nascosta nei luoghi più improbabili, centri sociali, teatri occupati etc. Ma a parte il sano odio di classe che tale verità mi scatena, mi chiedo anche in che misura la barriera economica si rifletta sul prodotto artistico offerto; mi chiedo se – privi della giusta distanza storica – non ci si renda adeguatamente conto di quanto i tanti rivoli su cui si declina il teatro “d’avanguardia”, colto, sofisticato, altro non siano che l’espressione di un’arte borghese spocchiosa, compiaciuta e decadente; e mi chiedo, infine, se la progressiva scomparsa di un pubblico “normale”, quel pubblico che gli artisti e la critica invocano e desiderano come un messia taumaturgo, sia anche effetto di un’incomunicabilità tra mondi, sia anche causata dall’uso di un linguaggio – e il linguaggio è vissuto, è sensibilità, è problematiche – straniero ed elitario, in ultima analisi inutile, inutile nel senso più utilitaristico del termine. Sia, insomma, se non già atto di lotta di classe almeno il segno di un’istintiva diffidenza tra classi.

 

Quel che resta di Beckett

un giovanissimo Samuel Beckett

Nel ’95 ho “incontrato” Samuel Beckett. Amore a prima vista, una passione che ha segnato gran parte dei miei primi testi e che ancora oggi mi condiziona nel bene e nel male. Il mio “maestro” di teatro di allora, Piero Patino (fu il primo direttore artistico del Festival di Santarcangelo), di fronte alla mia nuova scoperta ridacchiava con sufficienza dicendomi cose tipo «Beckett è un grande ma la maggior parte degli autori che lo imita lo fraintende e lo tradisce; lo rendono noioso e credono che nel teatro dell’assurdo qualunque frase si scriva, o si dica in scena, vada bene, ma non è così». Già, non è così. Come è, allora?

A circa 60 anni dalla prima rappresentazione di Aspettando Godot (1953), e a 55 anni dalla prima rappresentazione di Finale di Partita (1957), è ancora abbastanza frequente assistere a compagnie che si cimentano con la lezione del Maestro, producendo drammaturgie che ne vorrebbero ricalcare l’immaginario e la poetica. Per quanto mi riguarda, come spettatore, il risultato mi lascia spesso perplesso, a volte più e a volte meno, e mi tornano in mente le parole di Patino: «credono che nel teatro dell’assurdo qualunque frase si scriva, o si dica in scena, vada bene».

Che il teatro di Beckett sia annoverabile all’interno di quel controverso genere universalmente definito Teatro dell’Assurdo è opinione diffusa e accettata a partire dal famoso saggio di Martin Esslin del 1961, ma ogni categoria storica è sempre in parte grossolana e chiunque si sia impegnato in una comparazione tra i due padri putativi del genere, Beckett, appunto, e Ionesco, avrà indubbiamente notato più la loro distanza che la vicinanza.
Semplificando, potrei dire che Beckett è fondamentalmente un tragico laddove Ionesco è commediografo. Potrei dire anche che Beckett è un filosofo, Ionesco un cronista. Che Beckett utilizza l’assurdo come metafora esistenziale, Ionesco svela l’assurdo della nostra quotidianità. Che Beckett violenta il mezzo teatrale in direzione della stasi (antiteatrale) mentre Ionesco cavalca a suo geniale modo i consueti cliché teatrali. In ultima analisi, potrei dire che Beckett è “pesante” e Ionesco “leggero”. Ed è proprio la pesantezza di Beckett il problema della sua (in)attualità e della sua continua riproposizione sotto le coperte della “nuova” ed emergente drammaturgia.
Quella pesantezza, che nell’era di Beckett era storicamente/intellettualmente innovativa e teatralmente/formalmente armonica, oggi si fa sentire in tutta la sua “gravità”, tant’è che le odierne imitazioni beckettiane risultano quasi sempre inattuali, ovvero vecchie, e non comunicative, ovvero noiose.

Perché vecchie? Perché 60 anni dopo possiamo dire che il crudo ritratto della condizione umana schizzato da Beckett – quella condizione depauperata (Aspettando Godot), disabile e intrappolata (Finale di Partita), marcescente (Giorni Felici e L’ultimo nastro di Krapp) -, è stato ampiamente digerito e non ci fa più riflettere, non ci sorprende, al massimo ci intristisce. Non è più un fosco vaticinio ma un’insopportabile realtà quotidiana. Beckett è ormai un classico e, come vale per tutti i classici, o va fatto riposare con rispetto o, se proprio lo si vuole riesumare, occorre saperlo depurare di ciò che non serve più per poi attualizzarlo con profonda riflessione. Tutto sommato nella drammaturgia contemporanea mondiale, già a partire da Pinter, Beckett è stato intelligentemente “diluito” e attualizzato in variegate forme; riproporlo oggi ancora in una soluzione “100%” mi sembra davvero anacronistico.

Perché noiose? Perché il problema delle drammaturgie contemporanee di matrice beckettiana è che dopo cinque o dieci minuti hanno detto tutto quel che c’è da dire. I restanti 50 o 60 o più minuti sono solamente ripetizione, noiosa ed inutile ripetizione. Ma la ripetizione o, meglio, la reiterazione, in Beckett non è limite bensì struttura, è in parte la forza stessa della sua opera. Si tratta di una reiterazione circolare e spiraliforme che affascina per la sua natura ipnotica. È sorretta da una rigorosa regia narrativa che conduce il personaggio e lo spettatore per progressivi gradini verso il baratro, verso quel buco nero della condizione umana che l’irlandese pone al centro della sua riflessione. Il teatro di Beckett è musicale mentre la sua attuale riproposizione è generalmente cacofonica. La stasi e l’attesa beckettiane, che sono profondamente narrative, vengono confuse con l’assenza e l’inutilità della narrazione; quei personaggi privi di un futuro che popolano gli scenari beckettiani divengono anti-personaggi indistinguibili e intercambiabili. Infine, quel linguaggio apparentemente anarchico e illogico che in Beckett non è mai una vaga e generica morte del linguaggio e/o della sua facoltà narrativa, semmai è morte della sua capacità redentiva, nei suoi seguaci contemporanei diviene troppe volte un agglomerato di parole in libertà dove piangere o ridere, pregare o dire oscenità, sono tutte valide alternative per un minestrone anti-narrativo che altro non è se non il prodotto di un clamoroso fraintendimento, in altre parole un credere che «…nel teatro dell’assurdo qualunque frase si scriva, o si dica in scena, vada bene».

Quella cieca fede in una nuova drammaturgia italiana

Harold Pinter, Premio Nobel per la Letteratura 2005

Se il modo teatrale fosse un’ampia e profonda caverna, uno di quegli antri dove ogni singolo fonema pronunciato rintocca più volte trasportato dall’eco, saremmo tutti frastornati dal continuo ripetersi a mo’ di mantra delle sillabe gì-a… gì-a… gì-a, residui sonori di uno dei termini più pronunciati, discussi, sezionati degli ultimi due anni: drammaturgia.
Penso alla “vocazione drammaturgica” che il Valle Occupato si è data (e che un teatro senta la necessità, quasi a distinguersi dagli altri teatri, di autodefinirsi a vocazione drammaturgica, già la dice lunga sullo stato della drammaturgia italiana). Penso alla recente costituzione del Centro Nazionale di Drammaturgia Italiana Contemporanea, numeroso (ad oggi più di 100 iscritti) collettivo di autori teatrali che si pone obiettivi davvero molto sfidanti. Penso all’attenzione costante e crescente che la “nuova” critica rivolge alla “nuova” drammaturgia.
Ecco, “drammaturgia” viene spesso preceduta dall’aggettivo “nuova”. La cosa è certamente da approfondire.

La nuova drammaturgia non è un genere, semmai è una speranza o, religiosamente, un atto di fede. Si attende l’avvento di una nuova drammaturgia italiana così come, soprattutto in Italia, si attendono generiche nuove ere, una nuova politica, una nuova società, un nuovo uomo della provvidenza che carismaticamente apra la fase di un mondo nuovo. L’attesa di una nuova era si unisce come un gemello siamese alla consapevolezza che l’era attuale sia decadente e senza speranza. Di fronte all’imbarbarimento palese dei costumi, delle idee, delle arti, cerchiamo tutti con ansia quell’eccezionalità che riscatti il presente e lo trasformi in un paradiso, una “tierra sin mal”, una golden age. Eccezionalità, appunto. E quale potrebbe essere questa eccezionalità che improvvisamente risolleva le sorti della drammaturgia italiana? Probabilmente l’apparire improvviso di un grande drammaturgo, un drammaturgo di livello mondiale, un nuovo Pirandello.

E questo modo di ragionare, di concentrarsi sull’eccezionale, è tipicamente italiano: attendere l’epifania del genio senza porsi il problema di come creare i presupposti affinché tale genio si manifesti, come se un meraviglioso fiore possa crescere e sbocciare in un terreno arido, non dissodato, non concimato, non costantemente irrigato. Ci si concentra sulla palingenesi operata dall’improbabile avvento della next big thing e si perdono di vista tutte quelle buone pratiche indispensabili alla fioritura dell’eccezionalità, o che addirittura renderebbero tale eccezionalità del tutto superflua. Ad esempio, per chiarire cosa intendo, Harold Pinter, l’ultimo drammaturgo ad aver vinto il Nobel, è un’eccezionalità? No, è stato semplicemente uno dei migliori drammaturghi di una nazione che di ottimi e validi drammaturghi ne sforna in continuità. E perché ne sforna in continuità? Semplicemente perché li cura. In altre parole, gli inglesi hanno cura del proprio “vivaio” drammaturgico, danno loro le giuste occasioni di visibilità, gli strumenti per la loro crescita, tutte le azioni per la loro valorizzazione.

Ci sono drammaturghi in Italia? Sì, certamente, come dicevo sopra il recente Centro Nazionale di Drammaturgia Italiana Contemporanea conta ad oggi già un centinaio di autori teatrali, e ad occhio e croce penso che almeno un altro centinaio eserciti comunque la professione. Forse la DOR potrebbe darci cifre più precise sui drammaturghi viventi rappresentati ma non mi risulta che tali dati siano accessibili. La sensazione netta è quella di un magma informe e indistinguibile. Se si domandasse, anche ai più esperti del settore, chi sono i “maggiori” drammaturghi italiani, probabilmente ognuno darebbe arbitrariamente i suoi cinque o sei nomi che, con pochissime eccezioni (i vecchi Fo e Maraini, il giovane Paravidino), discorderebbero tra loro. La verità è che non si conosce lo stato della drammaturgia italiana, non se ne conoscono i numeri, la qualità e la potenzialità. Si vive alla giornata avvolti dal completo disinteresse, quel tipo di disinteresse che crea i presupposti per le tipiche dinamiche all’italiana, per cui la giusta conoscenza e qualche soldo da investire di tasca propria aprono porte impossibili da attraversare ad altri. E quel poco che si investe sulla “novità” riguarda sempre l’estero. Penso ai tanti autori della contemporaneità teatrale occidentale rappresentati e celebrati in Italia, Koltès, Ravenhill, Crimp, Kane, Fosse, Belbel, Reza, Srbljanovic… penso a loro e penso ai tanti testi di colleghi, amici e conoscenti, che ho avuto la fortuna di leggere. Esiste una particolare differenza di qualità, stili, forme narrative, maturità e coraggio drammaturgici? No, non c’è questa differenza, la drammaturgia italiana non ha qualità da invidiare ai collegi esteri, è “semplicemente” e con ottuso pregiudizio negata. Potenzialmente in Italia potrebbe esserci un nostro Pinter o, perché no?, addirittura un nuovo Shakespeare… ipotesi puramente “in potenza”, per carità, ma comunque se ci fosse non lo sapremmo mai. Siamo completamente privi di criteri di valutazione, di strutture deputate allo sviluppo della scrittura teatrale, di un sistema chiaro e condiviso di filtri e valorizzazioni, di progetti per la promozione estera, di un sistema legislativo che protegga o addirittura imponga la propria drammaturgia.

Drammaturghi italiani umiliati e offesi, dunque? In parte sì e in parte abbiamo le nostre colpe. Le individuo sia in una certa incapacità imprenditoriale di autopromozione (che, attenzione, è cosa differente dal mellifluo irretire il potente di turno), sia nell’allergia a fare gruppo e categoria professionale superando sterili individualismi (e a questo, spero, il nuovo Centro Nazionale di Drammaturgia dovrebbe porre rimedio). Sia, infine, in una diffusa pigrizia nei confronti dell’elaborazione teorica che – secondo me – dovrebbe stare alla base della personale produzione (così come alla base dell’attività del critico), riscattando il proprio lavoro dall’episodicità tipica dell’ “ispirazione” e dall’evanescenza del “mi piace” – “non mi piace” – “funziona” – “non funziona”, per portarlo nella direzione ben più prolifica e matura di un rigoroso progetto drammaturgico, dispiegato in un lungo percorso evolutivo segnato dalle necessarie, irrinunciabili, tappe.

Da Manzoni a Castellucci: discorso semiserio sul concetto di merda nell’arte

Sul concetto del volto nel figlio di Dio - di Romeo Castellucci - Avignone

Probabilmente la lista è molto più lunga e antica, ma il primo che mi viene in mente è Piero Manzoni, artista di lontana discendenza dall’Alessandro dei Promessi Sposi. Nel 1961 sigillò le sue feci dentro 90 barattoli di conserva (numerati) a cui applicò la famosa etichetta “merda d’artista”. Tra i tanti significati dell’atto artistico – oltre quello ovviamente provocatorio – possiamo individuare: A) l’idea che tutto ciò che proviene da un artista sia di per sé artistico; B) l’idea che la creazione artistica risponda ad un processo analogo all’elaborazione intestinale; C) l’idea (molto pop-art) che la mercificazione dell’arte abbassi quest’ultima al ruolo di merda o, viceversa, elevi la merda allo status di arte.

Poi merita sicuramente un passaggio il Salò di Pasolini dove i quattro “signori”, l’Eccellenza, il Presidente, il Monsignore, il Duca, utilizzano la merda come collante sociale e oggetto sacro di un rito d’iniziazione verso l’alto, dove “alto” è il male, o il potere, o più riduttivamente il fascismo. «Dio perché ci hai abbandonato?» urlano i giovani prigionieri seminudi dentro una pentola ricolma di feci. Il Castellucci del Sul concetto del volto nel figlio di Dio probabilmente obietterebbe che quelle feci sono proprio la prova che l’abbandono non è avvenuto, semmai i “figli” devono accettare con amore l’imbarazzante eredità del Padre, e mangiarla (come, in Salò, sono obbligati a fare). Meno sofisticato è il Pasolini di Petrolio, dove il personaggio del Merda è davvero “una merda d’uomo”, non d’artista, una merda d’uomo nel senso più popolare del termine.

Infine, perdonate tanta arroganza, tra Manzoni, Pasolini e Castellucci mi ci metto anche io. In un mio vecchio testo teatrale che non ho mai avuto l’opportunità di portare in scena, un figlio (Urlo) rimprovera al padre (Eros) e alla madre (Ofelia) la loro attitudine troppo gaudente e, nel caso specifico, troppo concentrata sul cibo:

EROS – Avremo salmone e caviale.
OFELIA – Tartufi e porcini.
EROS – Aragosta, ostriche e datteri di mare.
OFELIA – Capriolo, daino, cacciagione.
EROS – E poi frutti di mare, pasta, risotti.
OFELIA – Bruschette calde con paté e olive e Bordeaux e Brunello.
URLO – E merda, merda, tanta merda!
EROS – Merda, sì! Se Dio non avesse voluto la merda ci avrebbe creati pari a Lui.
URLO – Ma siamo stati creati a Sua immagine e somiglianza!
EROS – Nelle aspirazioni! Certo! Ma nelle fattezze Lui è più avanti di noi e non ha bisogno di evacuare. L’evacuazione è il segno del nostro limite. Se noi riuscissimo a comprendere il tutto non avremmo bisogno di elaborare scarti. Finché approssimiamo, defechiamo.

Quindi Dio, che non approssima e che comprende tutto, non può fare la cacca che è invece il segno più profondo della nostra limitata condizione di umani. Ma anche tra gli umani, l’idea del proprio padre concentrato nelle sue funzioni scatologiche imbarazza e scandalizza (come l’idea che i propri genitori possano avere tra loro rapporti sessuali). Un Dio, o un padre, che rivela al figlio i propri escrementi è un Dio, o un padre, che sta morendo. Ciò che forse alcuni cattolici rifiutano nel lavoro di Romeo Castellucci è proprio questa tragica idea.