MARAT/SADE – il livello verticale che non dovrebbe esistere

Die Verfolgung und Ermordung Jean Paul Marats, dargestellt durch die Schauspielgruppe des Hospizes zu Charenton unter Anleitung des Herrn de Sade, dramma di Peter Weiss, anche noto come Marat/Sade, scritto e rappresentato nel 1964. Tradotto e pubblicato in Italia nel 1967 da Einaudi, Collana Supercoralli, col titolo La persecuzione e l’assassinio di Jean-Paul Marat, rappresentato dalla compagnia filodrammatica dell’ospizio di Charenton sotto la guida del marchese de Sade; traduzione di Ippolito Pizzetti.

Il modello strutturale che vorrei proporre e utilizzare per l’analisi di questa drammaturgia di Peter Weiss si basa sull’individuazione di alcuni livelli teatrali “nidificati” l’uno nell’altro. Per livello teatrale intendo un sistema semiotico, ovvero produttivo di significato sociale, che presenta entrambe le seguenti condizioni: a) è composto da un piano narrativo autonomo il quale; b) viene rappresentato (messo in scena). Dunque, osservando la struttura del testo come vedessimo un organismo sezionato in altezza, partendo dall’alto avremo un primo livello che ne contiene un secondo. Tuttavia l’approfondimento che segue mostrerà l’inadeguatezza di questo primo abbozzo strutturale che, almeno nel caso del Marat/Sade, andrà necessariamente complicato.

Il primo livello teatrale, che convenzionalmente chiamo “livello zero”, è implicito alla rappresentazione di questo testo come di qualunque altro testo: è la visione, a cui possiamo partecipare o con vista e udito, quindi da spettatori, o, anche, con la sola immaginazione stimolata dalla lettura, quindi da lettori. Qual è l’oggetto di questa nostra visione, reale o immaginaria? La messa in scena di un testo teatrale del 1964 di Peter Weiss dal lungo e articolato titolo: “La persecuzione e l’assassinio di Jean Paul Marat, rappresentati dai filodrammatici di Charenton, sotto la guida del Marchese di Sade“, testo più semplicemente noto come “Marat/Sade“. La visione e la messa in scena (regia, attori e recitazione, scrittura scenica, qualunque atto o elemento teso alla rappresentazione della vicenda, ecc.) sono elementi sincronici e appartenenti al primo livello teatrale, il “livello zero”.

Poi si pone il secondo livello teatrale, il “livello meno uno”, interno al primo, e precisamente interno alla vicenda narrata dal primo: una filodrammatica capitanata dal Marchese de Sade mette in scena una vicenda storica risalente ai tempi della rivoluzione francese, l’assassinio di Jean-Paul Marat. Questa messa in scena è immaginata avvenire nel 1808 a opera di una compagnia di pazienti psichiatrici internati nel manicomio di Charenton e diretti da de Sade, anch’egli paziente del frenocomio, seppur di riguardo. Lo spettacolo ha, a sua volta, un suo pubblico, un pubblico “teatralizzato” (oggetto di rappresentazione) composto dal direttore, dalla sua famiglia, dai dipendenti dell’ospedale psichiatrico. Anche in questo caso c’è una linea sincronica che coinvolge il pubblico reale, quello teatralizzato, tutta la messa in scena della vicenda da parte di de Sade e della sua compagnia.

Ho scritto sopra che il livello è teatrale in quanto coincide con la rappresentazione teatrale di un piano narrativo. I livelli produttivi della funzione relazionale teatrale sono quindi due, la rappresentazione del testo di Weiss (livello zero) e la rappresentazione dell’uccisione di Marat diretta da de Sade (livello meno uno). Se invece facessi coincidere i livelli solo con i piani narrativi autonomi, ne dovrei individuare un terzo, convenzionalmente “livello base”, quello della vicenda che non contiene altro che se stessa, un livello teatralmente muto e passivo, che si fa rappresentare ma non rappresenta. Qual è questa vicenda che fa da base alle precedenti e che su queste proietta il suo riverbero? Lo dice il titolo: “La persecuzione e l’assassinio di Jean Paul Marat“, una vicenda storica, un assassinio avvenuto nel luglio del 1793 da parte della girondina Charlotte Corday. In definitiva, con la distinzione tra piani esclusivamente narrativi e piani teatrali posso complicare la struttura con un terzo livello. Avremo quindi: la vicenda (piano narrativo ma non teatrale), la rappresentazione della vicenda (piano narrativo e teatrale), la rappresentazione della rappresentazione della vicenda (piano narrativo e teatrale).

La struttura così disegnata a livelli decrescenti, o a matrioske, o, ancor meglio, a cilindro telescopico, è ovviamente, e pienamente, riconducibile all’antico espediente del teatro nel teatro, ovvero il fare di una rappresentazione teatrale l’oggetto drammatizzato della rappresentazione teatrale “vera”, soluzione teoricamente infinita nel numero delle iterazioni, come nelle immagini costruite sull’effetto Droste, ma che comunque, a prescindere dagli enne livelli messi in scena, ha sempre un piano esclusivamente narrativo, la vicenda che nel caso di Marat/Sade ho definito “base” (“che non contiene altro che se stessa”), che entra nella struttura teatrale solo se, e in quanto, viene rappresentata.

È abbastanza? No, non ancora; potrebbe esserlo nel caso di un testo metateatrale classico, non in questo Marat/Sade, costruzione drammaturgica in cui l’architetto Weiss escogita una sorprendente innovazione strutturale, tira fuori dal cilindro qualcosa di illogico, che non dovrebbe esistere, che contraddice l’impenetrabilità dei singoli livelli: il protagonista del livello meno uno, de Sade, dialoga con il protagonista della vicenda che sta rappresentando, Marat; attenzione: non dialoga da regista con l’attore che interpreta Marat, ma da personaggio con l’altro personaggio. In tal modo, grazie a questo sconfinamento tra livelli, a questa confusione ragionata dei piani narrativi, la “base” Marat viene drammatizzata (ovvero recuperata al teatro) due volte: attraverso la vicenda dell’uccisione del rivoluzionario giacobino, e questo è il “livello meno uno”, e poi attraverso l’esposizione del suo pensiero politico, in dialettica con quello del nichilista de Sade. Il confronto-scontro tra i due opposti mondi intellettuali dà vita a un livello trasversale, direi addirittura verticale laddove i precedenti sono orizzontali, un livello che si pone come la vera ragion d’essere del dramma, il “livello Marat/Sade”, principale vettore del dibattito tematico che il brechtiano Weiss offre al pubblico.

The Machines attack Mankind, Berlin 1935. Peter Weiss.
The Machines attack Mankind, Berlin 1935. Peter Weiss.

Qual è questo dibattito tematico? Che attinenze ha, se ne ha, con la contemporaneità? Donatien-Alphonse-François de Sade, più noto come Marchese de Sade, aristocratico francese, filosofo, poeta, drammaturgo, saggista, politico rivoluzionario, e poi notoriamente libertino e trasgressivo, razionalista, ateo, anticlericale, nichilista, libertario, anarchico ante litteram. Il suo interlocutore, a lui coetaneo e connazionale, si chiama Jean-Paul Marat, medico, scienziato, saggista, giornalista, politico rivoluzionario, giacobino radicale. La dialettica tra i due mostra il combattimento tra posizioni estreme, che hanno qualche iniziale punto in comune (l’anticlericalismo, a esempio) ma poi divergono in antitesi, modi di essere opposti, eppure entrambi così poco moderni o, meglio, così poco spendibili nella quotidianità, perlomeno nella quotidianità del “costruire”, ottimi invece per la quotidianità del “distruggere”: il nichilismo disilluso, Sade, e l’intransigenza rivoluzionaria del “Terrore”, Marat, concezioni della vita entrambe poco cattoliche, poco politiche, poco utili alla costruzione del sociale. Ed è nel confinamento storico delle loro idee che Sade e Marat trovano, se non un accordo, uno spazio comune – spazio anche fisico: il manicomio – che li accoglie e li connota entrambi.

SADE – Me ne infischio di questi movimenti di popolo

che girano intorno mordendosi la coda

Me ne infischio di tutte le buone intenzioni

che si disperdono in vicoli ciechi

me ne infischio di tutti i sacrifici

che si fanno per questa o quella causa

Io credo solamente in me stesso

MARAT – Io credo solo alla causa

che tu tradisci

[…]

SADE – Credi che li renderesti felici

se ciascun potesse percorrere la sua strada solo a metà

e andasse a sbattere sempre nell’uguaglianza

Credi che esisterebbe un progresso

se ciascuno fosse soltanto un piccolo anello

di una grande catena […]

MARAT – […] si tratta di un principio

che la rivoluzione esige

che i tiepidi e i compagni di strada

vengano espulsi

Per noi non esiste altra soluzione

che abbattere fino alle fondamenta

per quanto ciò possa apparire spietato

alle pance satolle che si crogiolano nel loro benessere

Eppure se ci si approccia al dramma di Weiss nella maniera meno preconcetta possibile, lasciando affiorare “naturalmente” sensazioni, immagini, collegamenti, intuizioni, non possiamo non percepire tra le pieghe del testo che la vera dialettica agitata non riguarda le tesi contrapposte dei due protagonisti – un discorrere tra i due che a lungo andare diviene rumore bianco -, semmai l’inquieto dualismo tra forme: forme teatrali novecentesche: il teatro epico di Bertolt Brecht e il teatro della crudeltà di Antonin Artaud; e poi forme antropologiche: mente e corpo, ragione e carne, intelletto e passione. Weiss confeziona un’architettura teatrale nella quale convivono e si dispiegano due dimensioni solitamente inconciliabili: raffinate – fredde, lucide – riflessioni politico-filosofico da un lato; corpi fuori controllo dall’altro, corpi di pazzi “scostumati”, di rivoluzionari sanguinari, di sadici perversi, corpi nudi, feriti, malati, incatenati, convulsi, rapiti dalle passioni. Ai lucidi ragionamenti di Marat e Sade – ragionamenti pacifici e astratti per loro natura – sull’utilità o meno della violenza rivoluzionaria, si contrappone una violenza ben più reale e disturbante perché non semplicemente ragionata o evocata ma mostrata all’interno di una situazione considerata normale, una necessità dell’organizzazione sociale: il manicomio, e quindi la privazione della libertà, i ceppi e le frustate, le malattie che devastano la carne, i corpi osceni che rinnegano la compostezza borghese. Una dimensione, questa dei corpi e della carne, dentro cui il Sade di Weiss – qui avo del colonnello Kurtz di Apocalypse Now, nonché alfiere in scena di Antonin Artaud – si muove con soddisfatto, seppur tragico, piacere:

per tredici anni

ho appreso

che questo è un mondo di corpi

ed ogni corpo è pieno di una forza tremenda

e ogni corpo è solo tormentato dalla sua irrequietudine

[…]

Chiuso dietro tredici chiavistelli

il piede nel ceppo

sognavo soltanto

queste fessure dei corpi

che esistono soltanto

per uncinarvisi ed esserne inghiottiti

In definitiva un testo, il Marat/Sade di Weiss, che per l’articolata, quasi esagerata, complessità strutturale, per la varietà dei temi affrontati, nonché per la ricchezza letteraria, scenica, pittorica, musicale e coreografica, e poi per la potenza dell’immaginario oscuro che mostra e sollecita, per i continui cambi di registro che propone, per la sua capacità di soddisfare un po’ tutte le grandi istanze artistiche del 900, non si inquadra, non si circoscrive, non entra in categorie precise, è schivo, sfuggente, scostante, ma soprattutto inquieta, perché – seppur in secondo piano, sorta di fantasma del testo e del palcoscenico – mostra la sconfitta della ragione, dell’ordine, della progettualità, mostra il logos che arranca di fronte all’impazzimento della carne, alle convulsioni che scuotono gli attori pazzi, alle dermatiti e al prurito che torturano Marat, all’obesità che immobilizza Sade. L’apparato statale, il potere politico e religioso, rappresentato dalla figura del Direttore Coulmier, chiude in gabbia questa débâcle della ragione, questo scandalo di corpi scomposti, di inarrestabile disordine, lo chiude dentro un manicomio ma poi commette l’errore di teatralizzare il tutto e il teatro, com’è nella sua natura, libera e amplifica ogni contraddizione. Un testo che non si inquadra, scrivevo, ma che realizza in potenza (il testo teatrale ha sempre energie sceniche “in potenza”) una delle più compiute e rigogliose espressioni di arte totale dello scorso secolo.

articolo già pubbicato nel blog TERRA DI NESSUNO – CRITICA DELLA DRAMMATURGIA

NO MAN’S LAND (TERRA DI NESSUNO) – la primavera non verrà mai più

No Man’s Land, di Harold Pinter, scritto nel 1974, prima rappresentazione e pubblicazione nel 1975. 1^ ed. italiana 1979, Einaudi, trad. Cesare Garboli, Elio Nissim, Romolo Valli. 2^ ed. italiana 1996, Einaudi, trad. Alessandra Serra, Laura del Bono, Elio Nissim

SPOONER – No. Sei in terra di nessuno. Che non si muove, che non cambia, che non invecchia, ma che dura in eterno silenziosa e glaciale.

HIRST – A questo io bevo.

Beve… Poi lentamente cala il sipario. 

Probabilmente non esiste approfondimento critico di questo dramma che non si sia posto l’obbligo di rispondere alla seguente domanda: qual è, o cosa è, questa terra di nessuno di Harold Pinter “Che non si muove, che non cambia, che non invecchia, ma che dura in eterno silenziosa e glaciale” (“Which never moves, which never changes, which never grows older, but which remains forever icy and silent”)? È un obbligo a cui nemmeno io voglio sottrarmi, tutt’altro, e darò una lapidaria risposta che tuttavia, da sola, mi sembra in grado di gettare luce sull’enigmatico testo pinteriano più di quanto possano pagine e pagine di riflessione: la terra di nessuno di Pinter è la vita. Alla celebre, suddetta, battuta di Spooner risponde il suo contraltare Hirst: “A questo io bevo” (“I’ll drink to that!”) e con questo scambio il dramma si chiude. Hirst, quindi, beve alla vita, non brinda ma beve, come avviene di continuo in questo testo, tutti bevono, tracannano whisky come fosse acqua fresca. Ma se si “brinda” a qualcosa, alla vita ad esempio, festeggiandola, non si “beve” a qualcosa. Il bere (alcol ovviamente) veicola una dipendenza, una passività, una fuga, una sconfitta. Di fronte alla vita “icy and silent” di Spooner (e di Hirst, che anticipa nel primo atto la medesima battuta) la soluzione dei 4 personaggi di No Man’s Land non è di festeggiare, ovvero brindare, ma di bere. E qui devo aprire un inciso: i tre traduttori della prima versione italiana del testo – Cesare Garboli, Elio Nissim e Romolo Valli, traduzione del 1979 – scelgono il letterale “bere” per “drink”, e “I’ll drink to that!” diventa “A questo io bevo”. Alessandra Serra, Laura del Bono ed Elio Nissim che tradurranno per la versione del 1996, faranno un’altra scelta rendendo “I’ll drink to that!” con “A questo io brindo”. Quest’ultima soluzione mi pare una forzatura: Hirst non brinda; in nessun momento del testo, tantomeno nel finale, maturano le condizioni per brindare a qualcosa; non brinda ma beve fino allo stordimento come un disperato alcolista e il senso di “I’ll drink to that” si trova in un gioco di parole dove “drink” è sì letteralmente bere (in questo caso il bere dell’alcolista) ma è anche una dichiarazione di accordo con la precedente battuta di Spooner, un “ben detto!”, un “concordo con te e bevo”, un “sono d’accordo con la tua visione della vita ed è per questo che bevo”. Potremmo fermarci qui, ma non si deve mai far coincidere un testo teatrale con la sua ermeneutica allegorica, come sempre c’è molto di più.

Una stanza nella villa di Hirst, una variante del salotto borghese dove più di un mobilio basilare cattura lo sguardo l’esposizione di libri e alcolici. Hirst e Spooner sono in scena e parlano delle qualità che formano il “vero uomo”: forza, intelligenza, perspicacia. Noi non sappiamo nulla di loro e, a quanto pare, anch’essi sono ignari delle rispettive vite, non si conoscono, si sono incontrati casualmente la sera stessa in un parco, entrambi intenti a praticare voyeurismo; poi Hirst ha invitato Spooner a casa sua e ora approcciano una conoscenza più approfondita. Il secondo atto smentirà il primo proponendo Hirst e Spooner come amici di vecchia data, due intellettuali che rivaleggiavano per la carriera e per le donne. Hirst sembrerebbe essere un letterato, un saggista, un poeta; Spooner si rivela garzone di birreria e anch’esso poeta. Poi entrano Foster e Briggs, altre incognite in gioco. Il primo dice di essere figlio di Hirst ma poi si qualifica come suo segretario e infine come suo allievo poeta. Briggs è altrettanto misterioso, si muove con il piglio da padrone di casa ma assolve a funzioni riconducibili al “maior domus”. In definitiva ogni pagina smentisce la precedente e contraddice la successiva, qualunque ricerca di coerenza narrativa in questo testo è tempo perso; i personaggi esistono solo in base a ciò che dichiarano in quello specifico istante, e nell’istante successivo pur restando sempre gli stessi sono cambiati, hanno un’altra storia, altre esperienze, altre relazioni. 

Spooner, Hirst, Foster, Brigs, quattro personaggi maschili, due sessantenni e due più giovani (trent’anni Foster e quaranta Briggs), vecchi contro giovani come nelle commedie classiche, eppure questa differenza generazionale non sembra produrre alcun fluire del tempo (“Which never moves, which never changes, which never grows older”). Nulla accade, nulla è accaduto, i quattro personaggi quasi mai entrano veramente in relazione tra loro, si aggirano, semmai, come morti viventi romeriani all’interno di una realtà grottesca, “silenziosa e glaciale”, svelata dalla quarta parete della scatola scenica che li illumina e li offre, a noi lettori/spettatori, non come fuochi di una narrazione strutturata su eventi, accadimenti, meccanismi di causa-effetto, bensì come deboli fantasmi che stancamente e con poca convinzione reiterano brandelli di identità degne al più di un gioco infantile (una sorta di “facciamo finta che…”). Il realismo di Pinter, quel contesto che all’inizio, come sempre nei suoi drammi, appare solido e riconoscibile, viene tradito man mano che i dialoghi procedono svelando le deformità dei personaggi. Spooner in particolare, centro ideale del dramma, anche in termini di composizione del quadro scenico, esorbitante e verboso nel linguaggio, suggerisce una medesima, flaccida, eccedenza corporea, una forma monolitica che erutta parole con musicale monotonia. 

SPOONER – Sono un amico ostinato delle arti, specialmente della poesia, e una guida per la gioventù.  La mia casa è aperta a tutti.  Ci vengono giovani poeti. Mi leggono i loro versi. Offro loro il caffè e i miei commenti senza chiedere il conto. Sono ammesse le donne, ce n’è qualcuna che è anche un poeta. Altre non lo sono. Anche alcuni degli uomini non lo sono. Molti degli uomini non lo sono. […]

Con Terra di Nessuno, con Spooner su tutti, Pinter riprende temi cari a Ionesco: l’indipendenza del linguaggio che si fa oggetto sociale, abito da indossare nelle varie situazioni, e poi il parlare che sovrasta e dissolve il parlatore, il dialogo che non comunica. In alcuni drammi di Ionesco (La Cantatrice Calva in particolare) quel che va in scena è la frattura tra linguaggio e umanità: il primo ha vita a sé e usa la seconda come proprio habitat, fino a configurare l’ipotesi di un’ontologia del linguaggio. In Pinter l’operazione differisce parzialmente: il linguaggio non ha la forza impetuosa che mostra in Ionesco, non maschera il vuoto tramite una parvenza di vitalità e dialettica, non socializza. Spooner soprattutto, ma anche Hirst e, in misura minore, Briggs e Foster, eruttano parole che non vanno da nessuna parte, non compiono il tragitto tra emettitore e ricevente ma ricadono addosso al primo dei due poli come magma liquido e infuocato e questa verbalità che gli cola addosso svela, parzialmente e instabilmente, quasi per contrasto, per impermeabilità direi, anzi per solidificazione e stratificazione, il suo profilo altrimenti invisibile. Abbiamo quindi una deriva solipsistica del linguaggio e al tempo stesso un’iperstimolazione verbale e perciò eccedenza del significato che da veicolo di senso e riconoscimento transita nei territori del non sense. Nel testo di Pinter il non sense è inquietante, definisce il personaggio per negazione, per ciò che non è (operazione, in un certo senso, non estranea alla letteratura mistica). È un linguaggio ambiguo e depistante, spiazzante, non dice “questi sono dei buffoni ingenui e/o spersonalizzati” (come avviene in Ionesco), dice semmai “questi non sono nulla di quel che affermano, o di quel che credi”, e l’inquietudine nasce anche dall’impossibilità di definirli, di uscire dal dubbio per giungere alla certezza.

“Anche”, scrivevo, non “solo”: Pinter sa sollecitare ulteriori inquietudini disseminando elementi istintuali tra tutti i personaggi, una carica di violenza e di potenziale sopraffazione, un abbrutimento generalizzato, una mancanza di dignità che sfocia nel servilismo. Sullo sfondo una struttura oppositiva – spesso presente nei suoi drammi – tra cultura (sbandierata) e natura (istinto che emerge). Molti dialoghi si presentano come corda tesa tra questi due poli, mezzo per tener viva una tensione che però non esplode mai. Il linguaggio schizofrenico evidenzia la doppiezza, multiformità, ambiguità, mutabilità pericolosa dell’uomo e delle relazioni che costruisce. La natura emerge sulla patina di cultura. L’uomo, qualunque cosa affermi, non è quel che mostra. Viene da chiedersi quanto ci sia di autobiografico, o comunque frutto di esperienze dirette, in questa narrazione degli ambienti culturali, quanto la coppia Hirst/Spooner – intellettuale di successo il primo, artista fallito il secondo – sia sineddoche affidabile. Certamente in questo testo Pinter lascia galoppare la propria fantasia sui campi sterminati degli ambienti letterari e artistici che ben conosce, le dinamiche e le relazioni che in quegli ambiti prendono vita, i rapporti di potere, le umiliazioni, i servilismi, i deliri egotici. Il ritratto pinteriano del mondo intellettuale, quello dei poeti in particolare, è parodistico e grottesco ma al tempo stesso impietoso.

foto di scena estratta da “IL DRAMMA – mensile dello spettacolo”, n.3 marzo 1978

È il 1974, i principali capolavori dell’assurdo sono stati scritti e pubblicati, il genere non fa più scandalo, è stato digerito e assimilato e nessuno si chiede più chi o cosa simbolizzi Godot. No Man’s Land rappresenta probabilmente il “boato” finale che chiude un lungo spettacolo pirotecnico, il colpo di coda di un’estetica che, a sua volta, è il colpo di coda delle avanguardie storiche, davvero una lunga coda che dal primo Novecento si incunea nel secondo attraversando i disastri bellici da cui prende in eredità disillusione, nichilismo, amarezza. L’assurdo è avanguardia fattasi vecchia, è priva di spensierato vigore, di voglia di vivere. Harold Pinter chiude il genere con un dramma che, come avviene con i bambini, ruba somiglianze da entrambi i genitori: è un nuovo Fin de Partie dove però i quattro prigionieri del solito spazio chiuso, Hirst/Hamm, Spooner/Clov, Brigs/Nagg, Foster/Nell, rinunciano anche alla resa dei conti, e troppo stanchi per battaglie e giochi di potere lasciano spazio a un teatro borghese senza passato né futuro, inscenato al più da presenze fantasmatiche; ma è anche un testo che chiama in causa Ionesco per chiudere definitivamente ogni progetto sulle capacità socializzanti del linguaggio, che in No Man’s Land ha prospettive al più onanistiche.

Fantasmi quindi, ma fantasmi che fanno sorridere. “Non c’è niente di più comico dell’infelicità“, fa dire Beckett a Nell in Finale di Partita, e Pinter non si tira indietro nell’applicare la lezione di uno dei suoi due maestri: la natura farsesca del dramma emerge con ogni evidenza nei tratti comici dei tanti scambi tra Spooner e Hirst nel primo quanto nel secondo atto.

SPOONER – Una volta frugai con gli occhi nel volto di mia madre. Non vidi altro che pura e semplice malevolenza. Sono fortunato di essere ancora vivo. Lei vorrà sapere che cosa avevo fatto per suscitare tanto odio in mia madre. 

HIRST – Si era pisciato addosso. 

SPOONER – Proprio così. Quanti anni pensa che avessi allora?

HIRST – Ventotto. 

SPOONER – Proprio così. 

Tuttavia l’umorismo (involontario, nelle intenzioni dei personaggi) emerge sì qua e là ma non prende mai il sopravvento. Al pubblico appare in ogni caso una parvenza di serietà e di intellettualismo che però, già a uno sguardo un poco meno distratto, si svela nella sua ingannevolezza, un po’ come avviene nelle immagini prodotte dalla Intelligenza Artificiale dove tutto a prima vista appare familiare (un mobile, un vestito, un qualunque oggetto di uso quotidiano) ma a una osservazione più attenta ogni elemento risulta sconosciuto, non conforme alle aspettative. Come anticipavo sopra, l’operazione di Pinter passa sempre, o spesso, attraverso un realismo che fa da cornice a una dilatazione e deformazione dei tratti e dei comportamenti umani, il che tradisce proprio quella premessa di realismo che si rivela essere illusoria. L’opera di Francis Bacon (che non a caso appare con un suo soggetto sulla copertina dell’edizione Einaudi 1979) è un buon riferimento pittorico per comprendere la deformazione dei personaggi pinteriani (Spooner su tutti).

SPOONER – Che meraviglia.  Continui. Continui a dirmi ancora delle piccole eccentriche perversioni di quella vita e di quel tempo. Mi inquadri, con tutta l’autorità e lucidità di cui può disporre, la struttura socio-economica-politica dell’ambiente in cui lei ha raggiunto l’età della ragione.  Mi dica di più. 

Dove risiede, quindi, in ultima analisi, la grandezza e soprattutto l’originalità di questo classico? Quale lezione ci lascia o, meglio, in qualità di ultimo esemplare di una “stirpe” di opere, ci ribadisce? Credo che No Man’s Land sia solo in parte, una parte evidente ma non più che epidermica, la tematizzazione drammatica di una visione della vita pervasa da un nichilismo senza speranza – argomento, questo, che non sarebbe certo una novità nella longeva produzione dell’assurdo. Credo, invece, che questo testo sia sostanzialmente un discorso interno al teatro, in particolare un discorso sul testo teatrale, un’eredità che possiamo sintetizzare in questo assunto: non esistono personaggi preesistenti alle loro parole o, formulazione più radicale, non esistono personaggi ma solo le loro parole. 

HIRST – Cambiamo argomento. (Pausa) Una volta per tutte. (Pausa) Che cosa ho detto?

FOSTER – Ha detto di cambiare argomento una volta per tutte. 

HIRST – Ma che cosa vuol dire?

FOSTER – Vuol dire che una volta cambiato l’argomento, lei non lo cambierà mai più. 

HIRST – Mai più?

FOSTER – Mai più. 

HIRST – Mai più?

FOSTER – Lei ha detto una volta per tutte. 

HIRST – Ma che cosa vuol dire? Che – cosa – vuol – dire?

FOSTER – Vuol dire per sempre. Vuol dire che l’argomento è cambiato una volta per tutte, per l’ultima volta, e per sempre.  Se, per esempio, l’argomento è “l’inverno”, sarà inverno per sempre. 

HIRST – L’argomento è l’inverno?

FOSTER – Ora l’argomento è l’inverno.  E resterà quindi inverno per sempre. 

BRIGGS – Una volta per tutte. 

FOSTER – E durerà per sempre. Se a entrare in argomento è l’inverno, per esempio, la primavera non verrà mai più. 

articolo già pubbicato nel blog TERRA DI NESSUNO – CRITICA DELLA DRAMMATURGIA

Inland Empire di David Lynch: il mistero, il ritorno, il rimorso

Inland Empire – Studio Canal – USA, Polonia, Francia – 2006 – 172′. Soggetto, sceneggiatura, regia, montaggio: David Lynch. Musica di Angelo Badalamenti. Con Laura Dern, Justin Theroux, Jeremy Irons, Harry Dean Stanton, Julia Ormond, Scott Coffey, Krzysztof Majchrzak, Peter J. Lucas, Karolina Gruszka

È il Lynch che ti aspetti, questo di Inland Empire. Lontano anni luce da quella “scappatella” che fu Una storia vera, rieccolo alle prese con se stesso e con tutte quelle tematiche, appunto, lynchiane che l’hanno reso nel corso della sua ormai lunga carriera un regista “di culto”. Di che culto si tratta? Cosa c’è nel suo cinema, così personale, così – mi si passi il termine – onanista, così provocante i nervi e la pazienza e la sensibilità e l’intelligenza del pubblico, cosa c’è di tanto affascinante da stregare regolarmente migliaia di cinefili in tutto il mondo? Perché si va al cinema ad assistere alla passerella dei fantasmi di David Lynch?

MISTERO – Ho citato Una storia vera, quanto di meno lynchiano ha realizzato il regista di Missoula, ma forse proprio in quel film del 1999 possiamo trovare la risposta: il mistero; come nessuno Lynch parla del mistero. Lì lo fece nella maniera più tradizionalmente narrativa, raccontando linearmente una “storia vera”, raccontandola attraverso una telecamera lontana dal soggetto, distaccata, che registra l’evento ma non dà giudizi né spiegazioni. Un vecchio che percorre centinaia di miglia guidando una motofalciatrice da giardino per andare a casa del fratello che non vede da decenni solo per poter stare almeno una sera con lui ad osservare le stelle. Non è un fatto misterioso, questo? Non è, ancora una volta, il soffermarsi sul mistero di come la vita, le nostre vite, quelle di ognuno di noi, quelle che ci appaiono retrospettivamente tanto lineari, consequenziali, libere, siano invece attraversate, intersecate, deviate, da vite altrui, ed in particolare dalle vite dei nostri doppioni – uomini e donne – che hanno qualcosa di noi, a volte qualcosa di incredibilmente nostro, che ci appartiene, o ci apparteneva, e che ritorna, lo si voglia o meno, ritorna a parlarci, a chiamarci, a turbarci? Il ritorno e il rimorso. Il cinema di Lynch, anche in Una storia vera, è quindi sempre la rappresentazione di un mistero, e precisamente il mistero di un io scomposto e proiettato negli altri, una nostra eco che esce da noi, viaggia attraverso gli altri, e torna a noi deformata, pronta a sconvolgere la nostra guida sicura nella vita.

INIZIAZIONE – L’antropologo Arnold van Gennep (1873 – 1957) è entrato nella manualistica dell’antropologia culturale per la sua celebre analisi del c.d. “riti di passaggio”. Van Gennep distinse in tali riti tre momenti: una prima fase di separazione dal contesto sociale di appartenenza; una fase liminare (o marginale), nella quale l’individuo è sospeso in una sorta di limbo avendo perso la condizione originale ma non avendo ancora raggiunto quella finale; la fase terminale di aggregazione, nella quale l’individuo è inserito in un gruppo con un nuovo status. La fase liminare risulta la più delicata, quella dove ogni riferimento vecchio è perduto e nessun riferimento nuovo è ancora stato costruito. Nella filmografia di Lynch mi sembra di poter distinguere un gruppo di film che narrano per grandi linee il processo di iniziazione ed un secondo gruppo che, dell’iniziazione, si soffermano esclusivamente sulla seconda fase, quella liminare. Nel primo gruppo abbiamo: Elephant man – una iniziazione fallita alla vita “normale”; Dune, Velluto blu, Cuore selvaggio – iniziazioni riuscite alla vita adulta; Una storia vera – iniziazione alla morte. Il secondo gruppo rappresenta lo sconvolgimento tipico della fase liminare, quel punto da cui non si può tornare indietro ma oltre cui ancora non si può andare, quel punto dove non sai più chi sei. È il gruppo del ritorno e del rimorso, della reiterazione, dei cerchi e delle spirali. È il gruppo dove la mente cancella e impera. È il gruppo di Eraserhead, Twin Peaks, Fire walk with me, Strade di fuoco, Mulholland Drive, Inland Empire, ovvero inconscio, confusione, inenarrabilità.

RITORNO E RIMORSO Inland Empire è un catalogo delle forme e dei temi cinematografici lynchiani (e anche degli attori e attrici di Lynch). Ma non c’è proprio “tutto” Lynch: Elephant man, Dune, Velluto blu, Cuore selvaggio, Una storia vera, rappresentano tutti, a loro modo, episodi a parte, divagazioni da quello che mi sembra essere il percorso centrale della cinematografia di Lynch, quello che mi piace chiamare della circolarità, della spirale, del ritorno e della reiterazione, del rimorso. Inland Empire è l’ultimo film di “questo” Lynch, il Lynch che nasce ingenuo e spontaneo – come un bambino – con Eraserhead, che inizia a giocare con Twin Peaks e Fire walk with me, che cresce, matura e ragiona con Strade di fuoco e Mulholland Drive. I sottotitoli delle versioni italiane danno credito a questa mia lettura: si parte da La mente che cancella (Eraserhead) e si finisce – o si torna a casa – con L’impero della mente (Inland Empire). Il cerchio è chiuso e dopo Inland Empire non ci potrà essere mai più qualcosa di “questo” Lynch. Dovrà parlarci, se vorrà ancora parlarci, con altri linguaggi. Magari tornando a raccontarci “storie vere”, e a raccontarcele facendoci credere – illudendoci e illudendosi – che la vita è lineare, che nella vita siamo liberi di scegliere, o addirittura di fuggire. Che possiamo ignorare i ritorni e i rimorsi.

MATRIOSKE, FRATTALI E DONNE – «A Hollywood le stelle creano i sogni e i sogni creano le stelle». È una battuta di William H. Macy tratta da Inland Empire, dalla fase iniziale del film, ed è probabilmente la migliore chiave di lettura (ammesso che Lynch possa essere “letto”) per addentrarsi nell’ennesimo delirio lynchiano. Stelle del cinema e sogni: Inland Empire è un discorso sul cinema e sulla vita, sulla vita come cinema. Non più la metafora vita-teatro ma vita-cinema, o vita-schermo, e quindi la lettura “esistenziale” abbandona l’idea della vita come rappresentazione di un ruolo per abbracciare la più post-moderna concezione della vita come simulacro e feticcio, registrabile, proiettabile, osservabile. Non c’è nessun piano narrativo in Inland Empire – dei tanti che compongono il film – che non sia film. Film nel film nel film: c’è sempre qualcuno seduto che osserva una vita proiettata attraverso uno schermo. Come un gioco di matrioske, ogni film è contenuto da un film più “grande” e alla fine esci dal cinema con il dubbio che qualcuno, dotato di perfido telecomando, stia “vedendo” te. Matrioske, quindi, ma ancor di più frattali: Inland Empire è un frattale cinematografico, ove ogni più piccolo frammento del film riproduce la struttura narrativa dell’insieme più grande. E, infine, è un film di donne e sulle donne. Tutte le donne di Lynch, del suo e del nostro immaginario: donne che hanno figli, donne che non possono avere figli, donne che amano i loro mariti, donne che tradiscono i loro mariti, donne puttane, donne che si innamorano, donne che vengono illuse dagli uomini, tradite dagli uomini, picchiate dagli uomini, donne che lottano e si difendono, donne “leggere”, che allietano la vita, che ridono e ballano. Mancano solo le sante e di questo gliene siamo grati.

PRESUNZIONE ED IRONIA – Non è sano narrare Lynch, non è giusto narrare Inland Empire. Non si può narrare attraverso una verbalizzazione che si avvale di logica e linearità ciò che è scomposto in forme illogiche e non lineari. Chi non ha mai avuto a che fare con Lynch non si avvicini a questo film, ne resterebbe scottato. Chi, invece, è già iniziato, troverà il Nostro in gran forma, lo vedrà giocare come mai con se stesso, con la sicurezza e la presunzione che appartiene solo a chi – a torto o a ragione – è convinto di essere un “grande”. Un Lynch talmente “maturo” da rasentare il “guasto”. L’equilibrio lynchiano tra narrazione e antinarrazione, tra logica cartesiana e logica onirica, viene qui a cadere a favore del secondo polo: tre ore di vero “delirio” lisergico con l’evidente risultato di assistere ad un prodotto più complesso e, inevitabilmente, meno chiaro e compatto di qualunque altro precedente – eccezion fatta per Eraserhead, di cui Inland Empire mi sembra in qualche modo il “pronipote”. Il limite principale del film sta in un sottofondo di lucido autocompiacimento che reitera quando non ce ne sarebbe bisogno, che autocita sino a stancare. Consapevole di questo, Lynch immette forti dosi di leggerezza ed ironia, si prende in giro, come nella scena finale quando estrae dal suo cappello da mago nientemeno che Nastassja Kinski (la “sorella del fantasma“): priva di una gamba la vediamo camminare (forse ha assistito alla proiezione del film) e affermare direttamente alla telecamera «bello!». Ma l’antidoto si rivela pericoloso quanto il veleno che dovrebbe combattere: prendersi in giro è sempre un modo per stare al centro della scena.

A.XX°N.N. – Per il resto, direi uno Strade perdute all’ennesima potenza. Tre i piani narrativi, le “storie” che attengono ad una coerente dimensione spazio-temporale – quattro, se si conta anche la metaforica, metacinematografica, metanarrativa stanza dei conigli (ripresa dal serial Rabbits che Lynch ha diretto per il proprio sito a pagamento). In primo luogo abbiamo Inland Empire, il “nostro” film, che per convenzione (come ogni film) narra una storia “vera”, una soggettiva su cui dovrebbe poggiare qualunque ulteriore costruzione. Di questa storia Laura Dern è la protagonista, una attrice di Hollywood di nome Nikki Grace che sta per girare un film insieme all’attore maschile Devon Berk (Justin Theroux). Il film nel film – intitolato Il buio cielo del domani – è il secondo piano narrativo, ma per lunghezza e presenza è di gran lunga il primo. Di questo film si viene a sapere essere un remake di un vecchio lungometraggio tedesco (intitolato 47 – siebenundvierzieg) mai terminato per la morte misteriosa dei due attori protagonisti. Il lungometraggio mai terminato è il terzo piano narrativo, reso con colori seppiati ed in lingua originale polacca, ed è a sua volta basato sul soggetto di una vecchia storia “vera” (o una leggenda) di origine polacca, storia che ha a che fare con polacchi e zingari e puttane e circhi. Le vicende si mischiano, si intrecciano e si richiamano sino al momento che – proprio quando in quel richiamarsi tra loro ti sembrava di aver trovato una timida chiave di lettura – si disconoscono l’una con l’altra. Ma le analogie permangono, stimolano un bisogno di razionalizzazione, mi spingono a tentare – pericolosamente (e confusamente) – una schematica narrazione:

SALDARE IL CONTO Il tema comune è una tragica storia d’amore, un tradimento che un uomo e una donna consumano ai danni dei loro rispettivi partner. La donna che tradisce è sempre il fulcro delle varie narrazioni: il partner tradito la picchierà a sangue e le ucciderà l’amante; inoltre sarà minacciata di morte dalla moglie dell’amante (Julia Ormond). Il tutto viene vissuto in una mente, quella di Nikki (Laura Dern) che nell’interpretare il ruolo di Susan che tradisce il marito (Peter J. Lucas) per Billy (Justin Theroux), finisce per confondere i piani del “reale” e tradire il suo “vero” marito con Devon Berk, l’attore che interpreta Billy. Ma questo è probabilmente già accaduto nel film tedesco-polacco in cui i due attori protagonisti sono stati misteriosamente assassinati. Tale continua attualizzazione sul piano della “realtà” (primo piano narrativo) di una vicenda “non reale” (un soggetto cinematografico) è l’inspiegabile sortilegio – il mistero – che plasma le quasi tre ore di Inland Empire. È la vicenda “matrice” che fa da soggetto, la storia polacca, che sembra permeare – stregare – ogni tentativo di riproduzione filmica dell’atto. Qualcosa di quella vicenda è irrisolto, inquieto, chiede giustizia. «Il cavallo torna alla sorgente»; «Un conto deve essere saldato»: sono battute ricorrenti nel film che indicano ancora l’immagine del cerchio, del ritorno, il concetto di una necessità che – anche attraverso il tempo – le cose debbano tornare, chiudersi, ma chiudersi nel senso di appianarsi, chiudersi in maniera “giusta”, armonica, etica direi. In sospeso, dalla vicenda polacca, c’è un amore tragicamente annientato col sangue (di lui), amore che ora esige la riscossione del debito, cerca “giustizia”. Ed ecco quindi il Lynch “poeta” di Inland Empire, cantore di un amore epico e cavalleresco (già presente in Cuore selvaggio), un amore che sfida la morte e soprattutto sfida il tempo, un amore troncato violentemente e che ora affida allo scorrere del tempo le speranze di un ritorno, una rinascita, un “lieto fine”. Ma il tempo lo sfidano anche il “male” e la vendetta: come già in Strade perdute, anche qui c’è un “burattinaio” che tira i fili, una manifestazione ambigua ed inquietante del “cerchio del destino” che attraversa indisturbato i piani temporali. In Strade perdute fu lo splendido Robert Blake (l’uomo in nero), in Inland Empire appare nella veste di Crumpy, il polacco (un grande Krzysztof Majchrzak) chiamato anche “il fantasma”, personificazione maschile della vendetta, l’ansia di vendetta per il tradimento d’amore subito, un’ansia che trapassa il tempo, che «cerca un ingresso»: nella vicenda polacca Crumpy era l’ex della alter ego di Susan (Karolina Gruszka), era colui che roso dalla gelosia le uccideva il suo nuovo amore. Al termine del film, Nikki-Susan ucciderà Crumpy il polacco e in questo modo chiuderà il cerchio, riscuoterà il debito, ristabilirà un ordine. Ma non basta, e qui la retorica di Lynch crea un lieto fine onirico e maestoso: Susan dona (tramite un bacio) alla sua “antica” alter ego il proprio marito – Peter J. Lucas -, che è il “proprio marito” nel secondo piano narrativo, il film nel film, ma è anche lo stesso attore che nella vicenda polacca interpretava il ruolo dell’amante che veniva ucciso da Crumpy; le dona il marito e le dona un figlio: giustizia è fatta e il lieto fine hollywoodiano è rispettato.

IL PIÙ POETICO – Tornano le tecniche dell’inquietudine tipiche di Lynch: i piani-sequenza in ambienti quasi privi di luce, i primissimi piani di visi deformati, ora allungati, ora sfocati, sempre afferenti all’incubo, il vibrare improvviso e inquieto di un qualunque punto luce, generalmente luce bianca, che comunica l’imminente ingresso di un’altra dimensione, di un diverso spazio-tempo, gli improvvisi e allucinati flashback, l’uso spettrale dei suoni. Tecniche, tutto sommato, che nell’era degli effetti speciali appaiono quasi primitive, eppur sempre efficaci. Resta poi l’estetica fotografica e pittorica lynchiana, quella onirica e psichedelica che dà vita ad immagini di una bellezza e di una pulizia formale tali da confrontarsi direttamente con quelle del cinema di Kubrick (Shining mi sembra un buon termine di confronto; tra l’altro in Inland Empire c’è la stanza 47 che cita la stanza 237 dell’Overlook Hotel). E infine un discorso, quello di Lynch, che per quanto personale, impalpabile, incomprensibile, sfuggente ed inenarrabile sia, sa prenderci nella pancia e nella testa, sa entrarci nel corpo e scavare, lentamente, sino a costruirsi una nicchia in cui vive e da cui, come ogni mistero irrisolto, ritorna su. Mi sbilancio: il più bel film di Lynch, o almeno il più poetico.

SUNSET LIMITED – le vie cieche dell’Occidente

The Sunset Limited: A Novel in Dramatic Form, di Cormac McCarthy
2006, USA – 2008, Italia (traduzione di Martina Testa)

BIANCO – […] credo nel valore delle cose.
NERO – Ok. Di quali cose?
BIANCO – Di un sacco di cose. Le cose culturali, per esempio. I libri, la musica, l’arte. Cose di questo genere. […] Queste sono per me le cose che hanno valore. Sono la base della civiltà. O quantomeno, un tempo avevano valore. Probabilmente oggi non ne hanno più tanto.
NERO – E cosa gli è successo, a quelle cose?
BIANCO – La gente ha smesso di dar loro valore […] Quel mondo è in gran parte scomparso. E fra poco lo sarà del tutto.
NERO – Non so se riesco a seguirti, professore.
BIANCO – Non c’è niente da seguire. Va bene così. Le cose che amavo un tempo erano molto fragili. Molto delicate. Ma io non lo sapevo. Pensavo che fossero indistruttibili. E mi sbagliavo.
NERO – Ed è questo che ti ha spinto a buttarti giù dal binario. Non una questione personale.
BIANCO – Ma è una questione personale. É proprio questo l’effetto dell’istruzione. Rende il mondo intero qualcosa di personale.
NERO – Hm.
BIANCO – Cosa, hm?
NERO – […] a che servono idee del genere se poi non riescono a farti tenere i piedi incollati a terra quando arriva il Sunset Limited a centotrenta all’ora?

Binari attraversano la drammaturgia americana e la parabola umana che questa racconta. Binari che se alla fine dei ’40 aprivano a sogni e promesse grazie all’indolente andirivieni di A Streetcar named Desire, ora lasciano sfrecciare l’aggressiva e disillusa mortalità di un Sunset Limited – letteralmente “tramonto limitato” -, storico treno passeggeri che collegava New Orleans a Los Angeles. Da Desire scendeva Blanche DuBois alla ricerca di una nuova vita, di un riscatto al fallimento che si lasciava alle spalle; sul Sunset Limited tenta di gettarsi, e quindi di chiudere la propria vita, un non meglio specificato intellettuale “Bianco”. Ci prova ma non ci riesce perché ad impedirglielo interviene un (altrettanto “non meglio specificato”) ex galeotto “Nero”.

Cormac McCarthy, scrittore che nei suoi romanzi predilige le tinte vigorose ed icastiche e che nel narrare spande le avvisaglie dell’imminenza apocalittica, affronta questa drammaturgia abbracciando un dualismo radicale, didascalico addirittura, o stereotipato, ma lo fa con una tale padronanza del dialogo da allontanare nel lettore ogni sospetto di ingenuità o di pregiudizi: McCarthy è maestro autorevole e dispotico, attraverso un raffinato e deciso gioco linguistico guida senza incertezze il lettore portandolo dove lui decide di portarlo. Sottolineo il ruolo risolutivo del dialogo perché se la drammaturgia è solitamente una partitura a due strumenti, dialogo e azione, detto e fatto, voce e corpo, Sunset Limited tralascia sostanzialmente il secondo per costruire un edificio che si dimostra funzionale all’atto teatrale nonostante si basi, appunto, su un solo componente, quello dialogico. Quindi basta un dialogo – pur se maestoso – per transitare dalla letteratura alla scena? McCarthy stesso sembra “fiutare” e disinnescare l’eventuale interrogativo utilizzando come sottotitolo la locuzione “Romanzo in forma drammatica” il che, ulteriormente e su suggerimento dell’autore, sembra spingere l’approccio al testo in direzione non tanto di una forma narrativa contrapposta ad una drammatica quanto di un “letterario” che si oppone a “scenico”. Se ogni drammaturgia deve saper rispondere della sua duplice appartenenza di prodotto letterario e di futuro elemento di scrittura scenica, Sunset Limited sembrerebbe perciò disinteressarsi della seconda possibilità proponendosi come elegante riflessione esistenziale a due voci, assolutamente statica riguardo i movimenti nello spazio scenico. “Sembrerebbe”, appunto, ma non è così: Sunset Limited è genuino e puro oggetto teatrale. Vediamo perché.

I due personaggi, il Bianco e il Nero, si affrontano l’uno di fronte l’altro. Li vediamo seduti, un tavolo li separa, profili affilati che si oppongono, tendenzialmente fermi, stilizzati, sono segni o, addirittura, elementi scenici, arredi. Sono immobili ma le loro voci no, le voci si muovono e bucano la quarta parete. Il primo aspetto che connota il dialogo tra i due è l’agonismo. In genere l’agonismo è movimento fisico, è azione, l’agonismo non si sposa con la stasi ma qui avviene o, meglio, è la stasi che si cala nell’agone e che inscena un combattimento con le armi del testo e della voce, del logos e del dialogo. È una partita: il Nero attacca, il Bianco si difende. Ma in una lotta non ci può essere particolare spazio per le sfumature, per le mezze misure, non sono funzionali a questo tipo di attività, ed ecco che McCarthy cala gli stereotipi forti, il nero vs il bianco, il povero vs il benestante, il galeotto vs l’onesto, l’ignorante vs l’intellettuale, il religioso vs l’agnostico, lo spirituale vs il razionale, la fede vs la ragione. Riassumendo, un nero povero, ex galeotto, ignorante ma ricco di fervore religioso si oppone ad un bianco benestante, ben integrato in società, un professore colto e scettico in materia di fede; la contrapposizione è marcata, priva di mediazioni, di punti di incontro, di accordi. La nettezza con cui McCarthy disegna i due poli contrapposti cattura l’attenzione del lettore/spettatore: da due uomini in scena ti aspetti e pretendi movimento e azioni, da due princìpi no, la relazione tra princìpi si sposta su un altro piano, quello delle argomentazioni. Ma il teatro, si obietterà, è terra per attrici e attori, non per idee astratte e disincarnate. No, il teatro è terra per elementi di scrittura scenica e per la partitura multisensoriale che questi vanno a comporre, sollecitando tanto i sensi quanto la mente dello spettatore. Nel teatro “in atto” convergono le estetiche e le regole della pittura, della musica, della dialettica: la drammaturgia di Sunset Limited regala il dualismo bianco/nero per la prima, un ritmo raffinato e sempre controllato per la seconda, una battaglia a colpi di argomentazioni per la terza.

Il testo annulla fisicità e temporalità, depotenzia spazio e tempo, per il primo rendendo assenti significativi movimenti fisici, per il secondo ignorando la narrazione intesa come successione di eventi e scegliendo, semmai, una dialogicità che è approfondimento e destratificazione della medesima e sempre stessa problematica esistenziale. Le due tesi contrapposte si studiano attraverso silenzi e fasi interlocutorie per poi attaccarsi improvvisamente alla ricerca della stoccata vincente. La pausa diviene motore del movimento verbale/testuale, carburante del ritmo, strumento primario della base ritmica dell’azione verbale, ne causa il ripartire subitaneo, lo “stop and go”. Con rara sensibilità musicale McCarthy usa la pausa per creare un sottofondo di sospensione, un silenzio “elastico” dove la parola o, meglio, la frase, rimbalza e schizza impazzita e si rifrange in una moltiplicazione esponenziale che raggiunge lo spettatore da ogni direzione avvolgendolo. Artaud, in Il Teatro e il suo Doppio, parlava della parola in termini di sua <<capacità di espansione […], di sviluppo nello spazio, di azione dissociatrice e vibratoria sulla sensibilità>>. Artaud si riferiva agli aspetti prosodici della parola e perciò alla sua interpretazione, ma la tesi è valida anche per il testo che l’autore offre all’interprete, un testo non ancora recitato ma che già ha in sé, nella sua struttura, il dono della musica. Il potere avvolgente della frase, dunque, la sua mobilità ed elasticità sviano il pubblico dal bisogno di osservare dei movimenti: la percezione sonora, il maggior “nutrimento” uditivo, compensa la staticità dello sguardo inchiodato sui due opposti cromatismi, Bianco e Nero, duplici punti di fuga della composizione pittorica creata dal romanziere di Providence, giganteschi altoparlanti di una tenzone che ci riguarda tutti.

<<Niente di quello che succede significa qualcos’altro>>, dice il Bianco, e con questa frase nega di colpo l’intera storia e cultura dell’Occidente, improntata alla metafora e alla ricerca del senso. E ancora: <<La felicità è contraria alla condizione umana>>, <<La sofferenza e il destino umano sono la stessa cosa. L’una è la descrizione dell’altro>>, <<L’evoluzione non potrà non condurre la vita intelligente alla consapevolezza di una certa cosa sopra tutte le altre, e questa cosa è la futilità>>. Le opinioni del professore Bianco sono figlie di un nichilismo radicale, conclusioni logiche di una razionalità portata ai limiti estremi, sorta di malattia autoimmune della ragione. La risposta del Nero è nella fede, nella presenza di un senso divino in tutto, di una teleologia degli accadimenti. É uno scontro sul piano dinamico dell’agonismo, scrivevo prima, ma pur trattandosi di una sfida testuale e verbale non è l’arma dell’abilità retorica a condurlo. La retorica è quasi del tutto assente, né i dialoghi attingono a sofismi, tutt’altro: nonostante la profondità e complessità del tema, e soprattutto grazie alla conduzione del Nero, le argomentazioni si avvalgono di allegorie, di metafore, di piani discorsivi sorprendentemente accessibili, un linguaggio “quotidiano” direi. Non c’è abilità retorica, dicevo, c’è semmai <<l’accompagnare il proprio interlocutore a “partorire” la verità>>, definizione, questa tra caporali, abbastanza comune in rete come spiegazione del cosiddetto metodo maieutico di paternità socratica. La forma dialettica del filosofeggiare socratico, raccontata da Platone nel Teeteto, è detta maieutica (dal greco “maieutikḗ”, ovvero “ostetricia”) in quanto, in analogia al fare della levatrice con la partoriente ed il feto, tende a guidare l’interlocutore (generalmente con brevi e precise domande) in un percorso che dovrà chiudersi con la conoscenza sia del suo errore, sia della Verità che finora mai aveva raggiunto. É il metodo che adotta il Nero, è lui il “nostro” Socrate ma davanti a sé non ha l’arrendevolezza di un Alcibiade, né di un Teeteto, e il professore Bianco rintuzza, quasi con noia, i tentativi persuasivi del Nero che evidentemente, dall’alto del suo scetticismo, gli debbono apparire del tutto inefficaci. Eppure il Nero è molto lontano dall’essere un ingenuo sprovveduto e si dimostra un più che degno avversario dell’intellettuale Bianco:

NERO – […] Non sono uno che dubita. Però sono uno che fa domande.
BIANCO – E che differenza c’è?
NERO – Be’, secondo me chi fa domande vuole la verità. Mentre chi dubita vuole sentirsi dire che la verità non esiste.

E così tra continui assalti, mirabili parate, improvvisi contrattacchi, citazioni shakespeariane (<<Chi sarebbe disposto a sopportare questo incubo, se non per paura dell’incubo che lo seguirà?>>) il testo scorre aspro e crudele verso il finale di partita, finale che non riesce a decretare un vincitore ma nemmeno un pareggio: in realtà Sunset Limited mette in scena due tragiche sconfitte, quella della fede e quella della ragione: il Bianco (la ragione) abbandona la scena con la propria foga autodistruttiva illesa; il Nero (la fede) piange l’assenza dentro di sé delle <<parole giuste>>. Sono due inettitudini che si annullano a vicenda, le vie cieche dell’Occidente.

articolo già pubbicato nel blog TERRA DI NESSUNO – CRITICA DELLA DRAMMATURGIA

ESSERE UNA MACCHINA, di Mark O’Connell, Adelphi

Le principali utopie (o distopie) della futurologia contemporanea ci sono un po’ tutte: in primo luogo la AI, con la sua temuta crescita esponenziale fuori controllo, eventualità potenzialmente letale per la razza umana; poi la crioconservazione, cioè il trattamento di “sospensione” del corpo, né vivo né morto, vetrificato nell’azoto liquido in attesa di tempi migliori; si passa dopo al mind uploading, forse il prodotto dell’immaginario contemporaneo più sconvolgente, la riproduzione del cervello, quindi della mente, quindi della coscienza, e il suo trasferimento in un dispositivo non biologico; poi è il turno della robotica più raffinata, probabilmente l’unica frontiera postumana in grado di strapparci un sorriso, forse per le potenzialità slapstick dei robot antropomorfi; infine la fusione, o ibridazione, tra uomo e macchina, il cyborg, territorio quest’ultimo più “indie” che accademico, tangente per certi versi tanto il mondo degli hacker quanto quello della body art.
Essere una Macchina di Mark O’Connell, edizione originale del 2017 e italiana (Adelphi) del 2018, attraversa con la leggerezza della migliore divulgazione e la profondità del saggio speculativo il frastagliato e per nulla unitario universo del transumanesimo americano. Il “famigerato” transumanesimo, una sensibilità probabilmente, o un’immensa vaga “volontà di essere”, di certo non una filosofia strutturata, né una scuola di pensiero con leader riconosciuti, né una fede religiosa o una setta post new age, né infine un partito o un programma politico. Cosa, allora, in estrema sintesi? Il sogno inconfessabile del genere umano, inconfessabile perché pecca di hybris, invade il campo delle religioni e suscita risatine di sufficienza; inconfessabile eppure, negli ultimi decenni, sempre più sfacciatamente affermato e argomentato da un manipolo di pionieri che non temono l’essere marchiati come folli; inoltre, dettaglio fondamentale, sogno fatto oggetto di importanti e crescenti finanziamenti. Essere una macchina, è questo il sogno? No, questo è solo lo specchietto per le allodole che nasconde la “bestemmia” più estrema: sconfiggere la morte e salire al rango di dèi creatori e immortali, postumani appunto.
Comunque la si pensi, questo è un libro che spazza via luoghi comuni e facili pregiudizi ma al tempo stesso conserva il distacco e l’ironia fondamentali, irrinunciabili direi, per mostrare lo iato che passa tra la folle grandiosità di un sogno e la malinconica, tenera, ridicola finitezza dell’esistenza (mortale) di chi quel sogno lo fa.

Il paradosso di Lynch – Percorsi del tempo in Strade Perdute di David Lynch

La riduzione esegetica dei film di Lynch – o almeno della maggior parte di questi – a una chiara, razionale e lineare struttura, è operazione non semplicemente complessa ma probabilmente sbagliata: l’appeal della cinematografia lynchiana risiede nel suo essere mai del tutto chiara e spiegabile, nel suo seguire modelli narrativi tradizionali che improvvisamente vengono traditi, nell’inserire sempre un qualcosa affinché quel “tutto” che sembrava tornare alla fine non torna affatto. Anche il seguente tentativo di descrizione dei modelli temporali utilizzati dal cineasta di Missoula in Strade Perdute (Lost Highway, 1997), è un esercizio spero interessante ma che non può aggiungere molto all’interpretazione di un prodotto cinematografico impermeabile all’ostensione, soprattutto se quell’ostensione vuole quadrare il cerchio, vuole mettere ciascun pezzo del puzzle al suo posto. Questa operazione parte, quindi, con la consapevolezza di poter restare fine a se stessa, senza tuttavia escludere a priori guadagni di intelligibilità.

Premessa sul “tempo”.  La tradizione di studi antropologici e storico-religiosi ha individuato e descritto due fondamentali concezioni culturali del tempo comuni a tutte le società conosciute: lineare e ciclico. La concezione lineare è legata alla consequenzialità, all’idea che il passato è causa del presente, ma soprattutto è legata ad una idea di libertà e responsabilità dell’uomo – in una parola: la Storia – che porta il tempo ad essere una sorta di contenitore, in continua crescita, dell’operato dell’uomo. Cioè, la percezione del tempo passato e di quello (ipotetico) futuro non può prescindere dal fare umano. È la Storia a fare il tempo ed è l’agire umano, libero e responsabile, a fare la Storia. L’idea del tempo come divenire storico caratterizza l’avvento delle c.d. civiltà superiori, a partire dall’Egitto dei faraoni e, quindi, dall’istituzione della regalità (sono le “liste di re” a misurare il tempo). Il concetto temporale di ciclicità si oppone – gettandovi in tal modo ulteriore luce – a quello di linearità. Se il fare umano contraddistingue quest’ultimo, è la priorità degli eventi naturali a dare forma al primo. Nulla dell’azione umana può aspirare ad avere la medesima capacità fondante dell’azione naturale, ed in particolare dell’alternarsi ciclico delle stagioni. Non si nega la consequenzialità, il principio di causa ed effetto, ma tutto passa in secondo piano rispetto al vero motore del divenire: il ripetersi delle stagioni, ed il loro alternarsi. Se nella concezione lineare l’uomo è motore (sempre più unico) della dinamica causa/effetto, e la Storia altro non è che un accumularsi progressivo di atti umani, nella concezione ciclica l’agire dell’uomo è di fatto ininfluente nei confronti del variare delle cose, variazione invece soggetta principalmente al ritorno delle stagioni e a tutto quanto in ambito produttivo (e quindi sociale e culturale) queste impongono. L’unica forma di riscatto umano e culturale di fronte alla schiacciante presenza della natura passa per la coppia mito/rito. Nel mito il “dato naturale” si fa “culturale” attraverso il demandare la ciclicità stagionale ad un piano extraumano: è il ritorno dell’eroe mitico, riattualizzato nel relativo rito, che assicura annualmente il ripetersi delle stagioni. In tal modo, attraverso la coppia mito/rito, l’impotenza dell’uomo di fronte all’imponenza della ciclicità stagionale trova un termine di mediazione: sintetizzando, la natura agisce non di per sé ma tramite la dimensione extraumana – “divina”, si potrebbe dire, anche se impropriamente -; quest’ultima può essere in qualche modo controllata e/o riportata sul piano umano tramite mitopoiesi e ritualità. In definitiva, all’azione storica del tempo lineare si può contrapporre l’azione mitica del tempo ciclico: l’azione storica esalta se stessa, ovvero l’idea di poter agire liberamente e costruire progressivamente una successione di eventi; l’azione mitica annulla l’idea stessa di libera azione umana.

Prima di tentare una rappresentazione intuitiva e visiva di queste due concezioni, occorre precisare il sistema di riferimento. Cioè, il punto di vista che individua una modalità lineare e vi contrappone una modalità ciclica è il nostro, quello di uomini moderni, occidentali, che leggono gli avvenimenti tramite modelli che si rifanno alla Storia e alla scienza. Guardiamo il nostro passato e ipotizziamo un nostro futuro e ambedue, il passato ed il futuro, ci appaiono come momenti differenziati tra loro (e tra loro e la nostra posizione del presente) principalmente in base alla quantità di avvenimenti, eventi, azioni umane che li hanno alimentati. Sappiamo che nel nostro passato l’uomo non aveva ancora fatto tutto quello che è stato fatto sino ad oggi, e che il valore del nostro futuro sarà determinato dalla quantità e qualità delle cose che faremo. Il sistema di riferimento non legge il tempo come neutro scorrere astronomico degli astri ma lo umanizza, ne fa un tempo vissuto, agito. Il nostro sistema di riferimento legge noi stessi quali esseri partecipi – e cause – di un procedere del tempo lineare, progressivo, accumulante. La linea retta, ininterrotta, protesa verso l’alto con una freccia sulla sommità è la figura bidimensionale che meglio rappresenta la nostra concezione lineare del tempo. Lo stesso sistema di riferimento, poi, analizza quelle società c.d. primitive (o fredde, per dirla con Lévi-Strauss) dove il rapporto tra tempo oggettivo (astronomico) e tempo agito, è prossimo all’infinito. Privo di accadimenti degni di restare nella memoria, il tempo di tali società (reali o spesso frutto dell’immaginario etnografico) ci appare scorrere senza lasciare segno, gira intorno a se stesso seguendo la ciclicità stagionale. Un anello chiuso è la figura bidimensionale che meglio ci visualizza una modalità temporale ciclica, o al più – per dare una maggiore soddisfazione visiva all’idea dello scorrere oggettivo del tempo, o per accordare a questi popoli una minima percentuale di partecipazione alla Storia – un lento sommarsi progressivo di anelli che si uniscono in una struttura spiraliforme che si innalza disegnando la superficie – tridimensionale, stavolta – di un immaginario cilindro. La ciclicità è data dalla circolarità delle spirali, e ad una spirale segue sempre una nuova spirale in un continuum potenzialmente infinito.

Lost Highway.  Il “nodo temporale” di Lost Highway sta in quella frase – «Dick Laurent è morto» – che noi spettatori udiamo con il protagonista Fred all’inizio del film dietro alla porta chiusa (Fred risponde al citofono e ascolta la frase misteriosa), e poi udiamo di nuovo alla fine del film pronunciata dallo stesso Fred all’esterno della porta chiusa (rivolta tramite citofono verso l’interno): ci si immagina allora che Fred pronunci da fuori casa la frase allo stesso Fred che la ascolta dentro casa. Ma aldilà del problema dell’ubiquità (chi è abituato a Lynch non se lo pone), il punto dolente è che tra l’inizio del film (Fred ascolta la frase) e la sua fine (Fred pronuncia la frase) il nostro protagonista ne ha passati di avvenimenti (e ne è passato di tempo): allora come può la fine della storia di Fred essere anche il suo incipit? È questa porta chiusa, che è la stessa porta della stessa casa (vista da dentro all’inizio e da fuori alla fine), ad indurci ad una sorta di corto circuito del nostro a-priori temporale. Se quella porta non fosse stata la stessa, se quindi non avessimo visto coincidere fine ed inizio della storia, avremmo potuto immaginarci un – altrettanto “intricante” – passaggio di testimone in una immaginaria staffetta della follia: Fred porge ad un chiunque altrui la frase con cui ha avuto inizio la sua delirante avventura. Ma la porta era la stessa, la casa era la stessa, la storia è la stessa: sintetizzando, il passato di Fred è figlio del suo futuro (che a sua volta è, ovviamente, figlio del proprio passato). E questo nodo ci porta ad una struttura temporale certamente non lineare bensì ciclica, e di una ciclicità probabilmente ancora più radicale di come l’abbiamo immaginata poco sopra. Questa, come si diceva, non esclude la libertà dell’azione umana, semmai ne fissa ferrei ed invalicabili limiti: ogni mutamento od evoluzione sociale deve essere ricondotto e sterilizzato all’interno di un meccanismo temporale che, ciclicamente, rimette “tutto al suo posto”, così come fu stabilito nel tempo del mito. Ma se quindi vi è una rinuncia all’idea di un agire umano che sia totalmente indipendente e non influenzato dal ritorno del tempo, occorre precisare che il ritorno non chiude mai totalmente in se stesso l’anello temporale e, comunque, la chiusura si situa più sul piano della società che su quello dell’individuo. Invece, nel caso delle vicende di Fred non si può pensare ad altro che ad un anello radicalmente chiuso dove l’inizio e la fine non esistono, o almeno possono essere adottati solo convenzionalmente. La passività di Fred di fronte al chiudersi dell’anello appare totale: Fred è sballottato da eventi che lo sovrastano e sui quali non è in grado di esercitare alcun controllo. Immaginando allora la vita di Fred, dalla sua nascita al momento in cui iniziano le vicende narrate dal film, si può pensare ad una linea retta che improvvisamente cortocircuita in un anello chiuso causando la “fine del tempo” (e della libertà individuale); nell’intersezione tra la retta e l’anello è situata la porta della casa di Fred.

Robert Blake

Se un “normale” anello dà ragione della struttura temporale altrettanto non può accadere riguardo la struttura narrativa. Ciò perché (chi conosce la trama del film lo sa bene) in un dato momento il sassofonista Fred (Bill Pullman) svanisce lasciando al suo posto l’ignaro meccanico Pete (Balthazar Getty), che a sua volta, più avanti, ricambierà la “cortesia” passando di nuovo il testimone a Fred. Per una buona parte del film, seguiremo quindi la vita di Pete dimenticando quella di Fred. Il passaggio tra Fred e Pete non si situa solo sul neutro piano narrativo: pur essendo le loro vite indipendenti l’una dall’altra (i due non si conoscono, né appartengono a medesimi ambienti), troppi sono nel film gli indizi che rimandano ad una complementarità o ad una sorta di contiguità: fisicamente uguali le loro donne Renée ed Alice (anche perché interpretate dalla stessa attrice, Patricia Arquette), fisicamente uguali i loro rivali Dick Laurent e Mr. Eddy (stesso attore, Robert Loggia, ma probabilmente si tratta dello stesso personaggio seppur assume nel film due differenti nomi), e comune alle due storie è il personaggio misterioso (lo splendido Robert Blake) che sembra muovere il tutto seguendo pedissequamente un suo (a noi ignoto) piano. Le due vicende suggeriscono l’una la soluzione dell’altra ma, come premettevo sopra, il film sembra resistere ad ogni tentativo di riduzione alla ragione. E se proprio non si vuole retrocedere di fronte al conatus di razionalità che tutti ci muove, suggerisco la lettura di un buon lavoro di Fabrizio Colamartino, “Le strade perdute dell’inconscio”: in questo articolo l’interpretazione del film segue paradigmi freudiani e psicanalitici, e caratteri e ruoli dei principali personaggi vengono descritti proprio attraverso il loro essere ciascuno inversione e soluzione delle dinamiche psicologiche dei propri doppioni speculari.

Anello di Moebius

Uno dei modelli proposti per l’esegesi della struttura narrativa di Strade perdute è il famoso anello di Moebius: «questo thriller allucinato come un incubo parla dell’incapacità di un uomo di mantenere il controllo sulla propria vita. Lo fa attraverso una struttura narrativa paragonabile a quella di una fuga (musicale) oppure all’anello di Moebius che si avvolge su se stesso senza che sia possibile distinguere la parte esterna da quella interna, una struttura in cui è scardinato addirittura il fondamento di ogni narrazione, l’identità del protagonista» [Il Morandini, Zanichelli].
Per chi non lo conosca, l’anello studiato dal matematico August Ferdinand Möbius (1790-1860) altro non è che «un classico esempio di superficie non orientata. Le superfici ordinarie, intese come le superfici che nella vita quotidiana siamo abituati ad osservare, hanno sempre due lati, per cui è sempre possibile percorrere idealmente uno dei due lati senza mai raggiungere il secondo, salvo attraversando una possibile linea di demarcazione costituita da uno spigolo (si pensi ad un cilindro cavo, ad esempio). Quindi è possibile stabilire convenzionalmente un lato “superiore” o “inferiore”, oppure “interno” o “esterno”. Nel caso del nastro di Möbius, invece, tale principio viene a mancare: esiste un solo lato e un solo bordo. La sua superficie risulta essere infinitamente percorribile. […] Un nastro di Möbius può essere facilmente realizzato partendo da una striscia rettangolare ed unendone i lati corti dopo aver impresso ad uno di essi mezzo giro di torsione. A questo punto se si percorre il nastro con una matita, partendo da un punto casuale, si noterà che la traccia si snoda sull’intera superficie del nastro che è quindi unica» [Wikipedia – http://it.wikipedia.org/wiki/Anello_di_Moebius]

Quindi, pensiamo alla figura tridimensionale di un anello, dotato perciò di una superficie esterna e di una interna, superfici non comunicanti se non attraverso un’ulteriore superficie (si immagini una sezione rettangolare) o uno spigolo (sezione triangolare), e poniamo convenzionalmente che una delle due superfici – quella esterna – rappresenti le vicende di Fred mentre l’altra – quella interna – le vicende di Pete. Poniamo anche la convenzione che la visibilità data dal film coincida solo con la superficie esterna (visibile proprio in quanto esterna). Un normale anello ci darebbe allora visibilità solo delle vicende di Fred. Un anello di Moebius invece porterebbe in un dato momento la superficie interna ad esternarsi e quindi ad essere visibile per poi, in un secondo momento, tornare all’invisibilità data dal divenire di nuovo interna. Immaginiamo che Fred e Pete partano insieme percorrendo il primo la superficie esterna (visibile tramite film) ed il secondo quella interna (invisibile): in un dato punto l’interna diviene esterna e viceversa e quindi il film visualizza Pete e manda in oblio Fred; al “giro” successivo nello stesso punto la situazione cambia di nuovo e torniamo a seguire Fred ed a perdere le tracce di Pete. L’analogia con la narrazione è abbastanza soddisfatta con l’eccezione che nel nastro di Moebius il punto di cambio tra superfici è sempre lo stesso mentre nel film ve ne sono due distinti: il primo in carcere, quando Fred lascia il posto a Pete; il secondo nel deserto, quando Pete svanisce e torna Fred.

L’anello di Moebius non sembra dare lo stesso soddisfacente risultato se posto in relazione alla struttura temporale dei due protagonisti, Fred e Pete. L’artificio di questa figura è che attraverso quel mezzo giro di torsione di cui ci parlava la citazione da Wikipedia, le due superfici che in un normale anello sono separate e non comunicanti divengono una sola continua superficie. Basta percorrerla idealmente a partire da un determinato punto che si comprende come sia in realtà un’unità continua e circolare. Relazionandola al concetto di tempo, e assumendo l’assioma per cui una qualunque linea temporale può riguardare un solo personaggio, ne uscirebbe il paradosso che Fred e Pete vivono in prima persona la stessa successione di avvenimenti. Se l’anello di Moebius è un’unica superficie, anche immaginando che Fred e Pete partano in due differenti punti, uno interno ed invisibile e l’altro esterno e visibile, resta che prima o poi dovranno ambedue percorrere tutti i punti della superficie. Ciò non accade nella realtà (perché il mio tempo è solo mio), né accade nel film. Quando Pete si sostituisce a Fred si trova nella sua vita (non in quella di Fred) e si relaziona con i suoi conoscenti (non con quelli di Fred): le due vite sono separate, pur con eccezioni e particolarità di cui parlerò più avanti.

Una buona soluzione si può ottenere con un modello che complica l’anello di Moebius nel seguente modo:


Si può facilmente notare come stavolta le due superfici siano completamente distinte e non comunicanti tra loro. Il che equivale a dire che Fred e Pete hanno ciascuno il proprio percorso temporale. Ma se qualunque genere di anello si adatta al tempo circolare di Fred, lo stesso non vale per Pete: ciò che di lui ci mostra il film suggerisce linearità e progressione; la porta invalicabile che in Fred modifica il principio di causa/effetto verso una reiterazione infinita del tipo causa/effetto/causa, in Pete non c’è. L’anello si adatta a Fred ma non può soddisfare il fluire del tempo in Pete. Il nuovo anello, invece, soddisfa ampiamente la struttura narrativa, ed anche meglio del precedente: nella continuità di visibilità della superficie esterna (quella di Fred) si pongono due distinte interruzioni (carcere e deserto) attraverso le quali è la superficie interna (quella di Pete) a farsi provvisoriamente esterna, e quindi visibile nel film.

Le dinamiche temporali che intrecciano le vite dei due protagonisti trovano una migliore rappresentazione tornando ad una formalizzazione bidimensionale. Iniziamo con Fred. Il collasso temporale localizzabile convenzionalmente nell’evento della porta non può certamente comprendersi tramite il semplice ausilio di una linea temporale continua e protesa in avanti: occorre aggiungere un anello:

Assumo le seguenti convenzioni:
T-1 rappresenta la storia vissuta di Fred un attimo prima dell’evento della porta;
TXA è l’evento della porta (Fred ascolta la frase);
TXP è l’evento della porta (Fred pronuncia la frase);
TXA e TXP coincidono temporalmente, sono lo stesso evento TX;
TX1 rappresenta il portato di avvenimenti di Fred successivi a TXA;
TX2 rappresenta il portato di avvenimenti di Fred quasi alla chiusura dell’anello temporale, quindi dopo l’intromissione degli eventi riguardanti Pete;
T+1 rappresenta Fred dopo TXP (ultime inquadrature del film, in cui Fred fugge con la sua auto).

I paradossi principali sono due. Il primo è che si può immaginare la compresenza temporale di Fred in due distinti momenti: TX1 e T+1. In pratica avremo due Fred che si divaricano in due differenti linee spazio-temporali. Il secondo, già visto, è che TX2 è contemporaneamente effetto e causa di TX1 (e viceversa). Inoltre, se si seguono le frecce, si intuisce come il portato d’avvenimenti in TX2 sia totalmente responsabile di quanto avviene in T+1 ed in gran parte responsabile di quanto in TX1. T-1, ovvero la vita lineare di Fred vista un attimo prima del corto circuito della porta, si limita a “penetrare” in TX1 e a perdere progressivamente “peso” nei successivi TX2 e T+1. In quest’ultimo, poi, si può dire che T-1 sia del tutto ininfluente, praticamente inesistente, ovvero che il Fred che nelle sequenze finali del film fugge via chissà verso dove, è un Fred che ben poco o nulla si porta appresso della propria vita lineare, quella precedente all’evento della porta.

Si può ora inserire il divenire temporale di Pete. Pur restando nella rappresentazione bidimensionale utilizzerò l’idea (tridimensionale) di una spirale che avanza vista dall’alto, immagine più adeguata a dar conto di una progressione del tempo che si dispiega nello spazio.

Le novità rispetto alla precedente figura sta nella presenza della curva temporale di Pete (curva rossa) che “impatta” quella di Fred in C (carcere) e successivamente in D (deserto). Nell’impatto la curva di Pete occulta il percorso di Fred (visualizzato con tratto punteggiato) e ad esso si sostituisce. Si può immaginare che il doppio impatto porti la curva temporale di Fred a non riuscire a seguire più quello che avrebbe dovuto essere il suo “normale” percorso spiraliforme (linea blu tratteggiata) ma a ricadere progressivamente su se stessa sino alla chiusura dell’anello in TX.

Bene, mi rendo conto di essere entrato in un campo che per essere percorso con cognizione avrebbe necessità di nozioni scientifiche (fisiche e matematiche soprattutto) di cui non dispongo assolutamente. Probabilmente un fisico saprebbe illuminarci a riguardo, sarebbe cioè in grado di dirci se effettivamente i paradossi lynchiani raccontati in Lost Highway possono avere una possibile esistenza in qualche remota regione dello spazio-tempo, nel macroscopico o nel microscopico, in presenza comunque di peculiari ed inusuali condizioni fisiche. Per quanto mi riguarda ho solamente sfidato me stesso cercando di razionalizzare un “irrazionale” troppo stimolante per essere risolto con le categorie del surreale o dell’onirico, e tentando quindi di fare emergere la presenza di una struttura formale nascosta dietro la semplice “stranezza” narrativa di Lynch; e non è nemmeno necessario supporre che il Regista ne abbia avuto coscienza. Chiudo esaminando un’ultima figura che accorda narrazione e tempo (un “tempo della narrazione”) visualizzando anche l’interazione di Fred e Pete con altri personaggi del film.

Curva blu di Fred e curva rossa di Pete restano invariate. All’esterno della curva blu appaiono dislocati i personaggi della vicenda di Fred: D. sta per Dick Laurent, R. sta per Renée. All’interno della curva rossa ci sono i personaggi della storia di Pete: E. sta per Mr. Eddy e Al. sta per Alice. Tra i paradossi della successione temporale, oltre a quelli già visti, si nota Renée in vita – è nell’hotel con Dick Laurent – dopo che Fred l’ha da tempo uccisa (nella figura i cerchietti rossi indicano la morte del personaggio). Ma questo è un paradosso solo se si assume il punto di vista di Fred, altrimenti è possibile pensare al rapporto nell’hotel tra Renée e Dick come un momento precedente alle vicende tra Fred e Renée e quindi alla morte di lei. In questo caso la linearità temporale di Renée sarebbe, per così dire, ineccepibile.
Nell’area racchiusa tra le due curve troviamo i personaggi comuni ad ambedue le narrazioni: il regista porno Andy (An.) e l’uomo misterioso vestito di nero, che ho indicato con X. Tra i personaggi comuni ho escluso la coppia Dick Laurent/Mr. Eddy. Sono o non sono lo stesso personaggio? Il film è completamente ambiguo su questo tema e personalmente mi piace pensarli distinti. Riguardo l’uomo misterioso, l’uomo in nero, l’uomo della tecnologia (ha sempre oggetti tecnologici tra le mani: cellulari, telecamere, telefoni, televisori portatili e, alla fine, una pistola), credo che, al pari dei personaggi della “Red Room” di Fire walks with me, non vada considerato assolutamente in termini umani: è fuori dal tempo e dallo spazio, vaga per le differenti dimensioni limitandosi ad entrare ed uscire secondo i suoi piani. E ciò non può non riflettersi anche nel momento in cui si affrontano coerenze ed incoerenze della narrazione: Mr. X è dentro e fuori dal testo, è probabilmente Lynch stesso che si diverte a scombinare il tranquillo scorrere del tempo delle sue creature. Infine c’è Andy, personaggio minore eppure unico chiaro momento comune tra le due differenti vicende. Si può osservare (curva nera) come almeno lui, nel suo lambire la vita di Fred e quella di Pete, rispetti se non altro la minima sequenza logica che ci si aspetta da un essere umano immerso nel tempo: quella di morire dopo aver vissuto, e non viceversa.

(articolo precedentemente pubblicato dalla “defunta” rivista web Amnesia Vivace n.18, giugno 2006)

La Bomba Voyeur, romanzo saggio di Alfredo Zucchi

Questo libro mi crea problemi. È raro che un libro mi dia problemi. Questo c’è riuscito. Problemi di ordine classificatorio, tassonomico, di incasellamento. Serve incasellare le cose, senza incasellamento e tassonomia non si ragiona, Bacone e Cartesio docet.
Si presenta al pubblico come romanzo ma ha una prima parte dove la narrazione divide lo spazio con la speculazione, il ragionamento cioè, e si tratta di un ragionare che parte dalla narrazione, o trama, per andare verso complesse riflessioni intorno al contemporaneo. Nella seconda parte, poi, la speculazione prende decisamente il sopravvento e il libro assume la forma del saggio. Ma i problemi restano perché se di saggio si tratta non si può negare che sia un saggio che conserva la voglia di restare romanzo. È un’indecisione, questa, e quindi una mancanza, o una consapevole e coraggiosa scelta? Non lo so, quel che so è che come romanzo presenta una trama contratta e controllata, priva di variabili, a mo’ di caso sperimentale da laboratorio sopra cui provare l’affidabilità di una determinata tesi mentre, dal punto di vista del saggio, ha la discrasia che si crea tra un ritmo rapido e divulgativo (con episodiche e volontarie discese nella volgarità) e un lessico specialistico, colto, pesante, aggravato anche da metafore non immediate, che avrebbe bisogno di maggior lentezza (ovvero spazio; ovvero pagine) per poter essere digerito adeguatamente dal lettore. Non è facile seguire il ragionamento di Alfredo Zucchi, è depistante, complesso, multidisciplinare, ha un’asticeĺla interpretativa molto alta, eppure presenta guizzi musicali, cortocircuiti di senso, deviazioni inaspettate tali che abbandonarlo è impossibile. Zucchi ti sfida a vedere le sue carte, a scoprire se dietro c’è il bluff. Il bluff non c’è, magari non c’è nemmeno una scala reale ma le carte sono buone e soprattutto è buona la strategia che t’ha portato a vederle. Il romanzo-saggio parla del potere politico, ragiona sull’ontologia del potere politico attraverso il caso Italia e abbracciando il paradigma interpretativo più amato dagli italiani (forse perché è il più “vero”?), quello complottistico: una simil P2 – dentro cui si intravedono molto vagamente Andreotti, Cossiga, Berlusconi, Gelli -, tesse le fila delle più oscure e importanti vicende del Paese. Eppure questi personaggi appena accennati, maschere di un canovaccio secolare, sembrano schiavi privi di autonomia, esili fuscelli mossi dal grande imperioso vento che tutto fa girare, appunto il potere. E il potere è anche sesso, e questa trasmutazione continua tra sesso e potere e morte porta Zucchi (a mio parere) a ripercorrere le orme pasoliniane di Petrolio e Salò; la lingua è diversa ma il campo è lo stesso.
Ecco qui quel che ho capito e apprezzato di questo “strano” libro transgender. Quel tanto che non ho capito, colto, appreso, amato, lo tengo per me per prossime riflessioni.
Leggete La Bomba Voyeur: se cercate un libro che vi faccia dire “Finalmente qualcosa di nuovo” (a prescindere se poi quel nuovo vi soddisfi o meno), se cercate un libro che vi metta alla prova anche fino al nervosismo, questo è il libro giusto.

Il “male” e il fascismo nell’ultimo Pasolini (Salò e Petrolio)

finzione (fotogramma da Salò)
finzione (fotogramma da Salò)

realtà (foto delle torture nella prigione di Abu Ghraib)
realtà (foto delle torture nella prigione di Abu Ghraib)

 

 

 

 

 

 

 

 

Salò rappresenta cinematograficamente il “male”, e lo fa dandogli la veste storica del fascismo repubblichino. Il fascismo è l’immagine chi si accompagna al concetto di “male” per farne un significante riconoscibile. Il punto da indagare è se la scelta pasoliniana di adottare il fascismo come forma storica – incarnazione – del “male”, sia mirata a una condanna assoluta del fascismo oppure sia semplicemente dettata dalla necessità di “vestire” storicamente e socialmente il “male”, ovvero farlo apparire nella Storia attraverso l’uso di un qualunque momento storico dell’umanità.

In realtà il “male” in Salò trascende il fascismo e l’esperienza storica repubblichina. Il “male” in Salò non è in alcun modo un documento storico e soprattutto è avulso dalla Storia perché se nella Storia si manifesta – di qualunque momento si tratti – della Storia si disinteressa: non ha finalità teleologiche, non risponde a un disegno di conquista dell’umanità in un contesto manicheo di lotta tra tenebre e luce. Il “male” di Salò, il “male” pasoliniano, è autoreferenziale, vive di se stesso, è interessato solo a se stesso. È come un buco nero, un vortice che attrae tutto a sé e nulla rilascia. La pianista che si getta nel vuoto di fronte alla scena finale delle torture collettive è emblematica in questo senso: il suo movimento è verso il luogo delle torture, non è a fuggire da esso. La pianista si lancia verso il “male” e vi si annulla perché dopo averlo visto all’opera non può darsi alla fuga, perché non potrebbe più vivere gestendo quella parte di “male” che ormai è in lei, è entrato attraverso i suoi occhi, alberga nella sua memoria. Il “male” in quella forma così assoluta non lo si può gestire, divora. Altrettanto vale per le figure dei quattro “signori”. Questi, più che essere uomini che consapevolmente scelgono da dare “male”, sono strumenti inconsapevoli di qualcosa che li trascende: dal “male” sono agiti e posseduti. Nel film non hanno alcuna vestigia di umanità, sembrano semmai demoni che non godono semplicemente per il male che arrecano ma godono perché essi sono il “male” che si manifesta e che vive colpendo chiunque, a partire da se stessi. Non hanno nessun interesse verso le loro vittime, non sono mossi da odio personale o politico verso loro, semplicemente hanno bisogno di vittime perché il “male” non può manifestarsi senza queste, e se stessi sono vittime felici delle proprie depravazioni inenarrabili. Al “male” interessa esclusivamente l’atto maligno, ed è questo un atto che vive il suo limite proprio nella Storia: «noi vorremmo uccidervi per l’eternità» dice ad un certo punto uno dei quattro carnefici. Il “male” tende quindi ad eternarsi, a divenire principio fuori dal tempo.

C’è una sorta di forza centripeta che muove la struttura del film e che, come in un gorgo, aumenta di intensità proporzionalmente al suo procedere verso l’atto finale che tutto ingoia. All’inizio c’è la Storia ma è solo un pretesto: si parte da immagini riconducibili al fascismo e alla guerra, i rastrellamenti, Salò, Marzabotto, e si finisce con un’apoteosi maligna che è fuori da qualunque riferimento storico, è l’inferno. Il Pasolini di Salò non è storico né sociologo, è semmai un uomo in preda ad una visione a carattere apocalittico. Ma, come San Giovanni, Pasolini è un artista, non un passivo “megafono di Dio”. La sua è un’estasi che controlla razionalmente e che riporta in scena con la precisione di un orologiaio. Lavora su tempi dilatati e silenti, unisce inquadrature rigidamente simmetriche a un movimento spiraliforme che tende a chiudersi in sé, a svanire nell’implosione. A tratti sembra richiamarsi a Kubrick, a quella sua tragica certezza sull’unione indissolubile tra il manifestarsi della razionalità e del “male”. Ma poi l’estasi riprende il sopravvento e dalle geometrie di Kubrick si passa al caos di Bosh e del suo Giudizio universale riecheggiante nelle torture finali. Ma impressiona la glacialità delle ultime scene: un silenzio indifferente che mette i brividi e che ancor più di Bosh mi rammenta l’ineluttabile pessimismo della Flagellazione di Piero della Francesca.

Ci si può anche leggere – ed è stato spesso fatto – un’allegoria sul potere. I quattro “signori”, l’Eccellenza, il Presidente, il Monsignore, il Duca, rappresentano poteri sociali e politici, quello giudiziario, quello economico, quello religioso e quello dell’aristocrazia. Salò diviene quindi l’immagine di una degenerazione del potere – ma la cosa mi appare semplicistica – o più probabilmente la lucida constatazione che il “potere” è, come il “male”, fine a se stesso («la sola vera anarchia è quella del potere» afferma il Duca): il potere non è niente più che un insaziabile appetito. Non esiste conseguentemente rapporto sociale che non sia rapporto di potere e che – questo sì è molto pasoliniano – non risponda alla logica della complicità tra vittima e carnefice. Ricordo bene di aver letto in un passo di Petrolio una frase che pressappoco diceva: «non c’è disegno di carnefice che non sia suggerito dallo sguardo della vittima». Se poniamo attenzione al fatto che Petrolio e Salò risalgono all’incirca agli stessi anni – tra il ’73 e il ’75 il romanzo, mentre il film data 1975 – probabilmente sveliamo una chiave di lettura interna – intima e inconscia – all’autore stesso. Ancora Petrolio: «il Possesso è un Male, anche per definizione, è il Male: quindi l’essere posseduti è ciò che è più lontano dal Male, o meglio, è l’unica esperienza possibile del Bene…» [appunto 65, p. 319]. Salò, quindi, sembra risolversi intorno a un dualismo tra la carne che mangia (possiede) e la carne che viene mangiata (viene posseduta). Omosessualità, sodomia, il “male” del carnefice che possiede e il “bene” della vittima che si fa possedere… temi che girano intorno alle ultime opere di Pasolini, fantasmi che sembrano non dargli pace, ancora “buchi neri” che attraggono ma non svelano nulla. I fantasmi tormentano Pasolini, come suggerisce anche il suo amico Alberto Arbasino in una intervista sul quotidiano “La Repubblica” del 21 ottobre 2005: a una domanda riguardo la sua opinione su Salò, tra le altre cose Arbasino parla di un film angosciante, ma «l’angoscia che quel film mi trasmetteva non era tanto per le immagini che vedevo, quanto perché un amico si era arrovellato su quei fantasmi». E quali erano i fantasmi su cui si arrovellava il Poeta? L’esistenza del male? Le torture? Le violenze? Le ingiustizie? Più probabilmente, parafrasando il film di Jonathan Demme, si trattava de “l’innocenza del silenzio”, il silenzio rassegnato delle vittime, non di chi possiede ma di chi viene posseduto. Il suo silenzio.

Nonostante ciò, l’esegesi del film ha sempre trascurato la poetica pasoliniana – intima, e quindi incomprensibile – per una lettura ideologica semplice e a tutti comprensibile. Inquadrare Salò nella “visione antropologica” pasoliniana, quella per intenderci degli Scritti corsari, non è difficile né errato, in un certo senso direi che è scontato. Che Salò rappresenti il vertice estremo della degenerazione del potere può essere suggerito anche dal modo di porsi e del sesso e della violenza: non c’è alcuna sorta di piacere, non c’è motivazione contingente, c’è solo fame e voracità, metafore dell’avidità del potere che si ciba dei corpi altrui, o anche metafora dell’avidità consumista.
Ma i “falli” smisurati e le sodomizzazioni che sovrabbondano in Salò come in Petrolio sfuggono alle interpretazioni politiche e sociologiche. Eppure Pasolini è stato anche questo, un esteta dell’atto sodomitico. Ed è in questa estetica ossessivamente riprodotta che risiedono i suoi fantasmi, che emerge confuso il senso del “bene” e del “male”. Dice Blangis (il Duca): «Il gesto sodomitico è il più assoluto per quanto contiene di mortale per la specie umana; il più ambiguo, per quanto accetta, allo scopo di trasgredirle, le norme sociali; è infine il più scandaloso, perché pur essendo il simulacro dell’atto generativo, ne è la totale derisione». Ecco un esempio di come l’uomo cerca “cultura” all’interno dei propri istinti naturali.
La mia impressione su Salò – come su Petrolio – è che queste opere nascondino un tentativo di mettere a fuoco quei fantasmi. Sembra come se Pasolini giri intorno ai propri “buchi neri” nel cercare di conoscerli a fondo, dargli ordine, risolverli. Ma non ci riesce, e l’intelligibilità delle due opere diviene necessariamente parziale ed insoddisfacente. D’altronde un’opera d’arte non è un rebus: va ascoltata, non “decifrata”. L’idea di Salò come film metafora sul potere ha una sua verità ma Salò è sempre qualcosa di più perché è Pasolini a essere qualcosa di più. Non sono mai stato attratto dall’idea che esista una razionalità assoluta, estranea alla dimensione intimamente umana di chi la pratica; le grandi teorie sociali portano sempre il marchio dell’individualità e dell’intimità e di chi le crea e di chi le sposa. Allora il Pasolini sociologo (e l’artista Pasolini) non può essere disgiunto dall’uomo Pasolini e dalla sua “vita interiore”.

Torniamo a Petrolio, vero scrigno dell’interiorità pasoliniana (dalla quarta di copertina dell’edizione Einaudi: «…un libro […] che è una specie di ‘summa’ di tutte le mie esperienze, di tutte le mie memorie»). L’appunto 67 intitolato Il fascino del fascismo pone con evidenza equivalenze e contrapposizioni illuminanti. Si parte dall’enunciazione di una sorta di motore esistenziale dell’umanità: il “sentimento del passato”, il tentativo (tragico perché inesorabilmente fallace) di ricostruire, ripercorrere, immaginare, interpretare la vita dei padri e il loro passato. La continuità del passato invade tutta la vita presente: «La stabilizzazione del Presente, le Istituzioni e il Potere che le difende, si fondano su questo sentimento del Passato, come mistero da rivivere: se noi non ci illudessimo di rifare le stesse esperienze esistenziali dei padri, saremmo presi da un’angoscia intollerabile, perderemmo il senso di noi […]. Il Fascismo esprime in modo primitivo e elementare tutto questo: perciò dà il primo posto alla filosofia irrazionale e all’azione […]. Il Fascismo è l’ideologia dei potenti, la rivoluzione comunista è l’ideologia degli impotenti. […] I potenti sono anche carnefici, gli impotenti sono anche vittime» [p. 263, miei i corsivi].

E poche righe dopo: «Nel potente non c’è ambiguità; e così in coloro che decidono di obbedire al potente […]. Le vittime sono invece profondamente ambigue: la loro decisione di rifiutare il potere che hanno a portata di mano, per crearne un altro in un domani incerto, improbabile, spesso idealizzato e utopistico, non può non insospettire. Si può condannare il potente […] e si possono condannare i giovani che […] decidono di stare con i potenti […] in tutto questo non c’è niente che insospettisca […]. Anzi, è difficile pensare come mai a qualcuno possa venire in mente di fare la scelta contraria…» [pp. 263-264].

Concludo il “saccheggio” a Petrolio con l’appunto 126 intitolato Manifestazione fascista (seguito). Ora è Carlo Valletti (il protagonista dell’incompiuto romanzo) che riflette osservando al centro di Torino lo svolgersi di un corteo fascista: la decadenza antropologica che dà forma allo sguardo del Pasolini sociologo non risparmia nemmeno i nuovi fascisti: «Le persone che passavano davanti a Carlo erano dei miseri cittadini ormai presi nell’orbita dell’angoscia del benessere. […] Facevano pena, e niente è meno afrodisiaco della pena […]. Erano dei piccoli borghesi senza destino, messi ai margini della storia del mondo, nel momento stesso in cui venivano omologati a tutti gli altri» [p.503]. E poche righe dopo: «I veri fascisti erano ora in realtà gli antifascisti al potere. Il potente era Carlo…».

In definitiva, mi sembra che Petrolio chiarisca Salò in questi termini antitetici:

  • da un lato abbiamo male = potere = fascismo = carnefice = possedere sessualmente
  • e dall’altro abbiamo bene = impotenza = comunismo = vittima = essere posseduti sessualmente

Insomma, è l’essenza stessa del potere – qualunque potere – ad essere fascista, e tale potere è sempre ontologicamente “male”.
Mi sembra una chiave di lettura utile per orientarsi meglio nel labirinto pasoliniano ma, come ho detto prima, lungi da me l’idea di “decifrare” Pasolini e le sue opere in termini di rebus. La struttura oppositiva delineata si limita a dare indicazioni, coordinate generali, tuttavia in nessun modo può essere esaustiva né della poetica dell’Autore, né di Salò, né di Petrolio. Salò stesso, a ben pensare, la contraddice: i fascisti carnefici non si dedicano solo al “possedere” (sessualmente) ma a loro volta si fanno possedere con gioia. Forse la contraddizione rientra se si pensa che il farsi possedere dei quattro “signori” non è una passiva e silenziosa accettazione di una prevaricazione altrui bensì volontaria scelta. Probabilmente in questo caso non conta più la distinzione tra atto passivo e attivo, conta l’opzione intenzionale per il gesto sodomitico che – ripeto la citazione del Duca Blangis già prodotta sopra – «…è il più assoluto per quanto contiene di mortale per la specie umana; il più ambiguo, per quanto accetta, allo scopo di trasgredirle, le norme sociali; è infine il più scandaloso, perché pur essendo il simulacro dell’atto generativo, ne è la totale derisione». La sodomia quindi è “male” perché deride la vita e la mortifica mentre l’accettare in silenzio, da vittima rassegnata, la prepotenza della possessione è, per Pasolini, il “bene”, e si tratta di un “bene” a forte connotazione politica e rivoluzionaria. Ma il “male”, nell’Italia dei primi anni ’70, ha trionfato inesorabilmente sul “bene” dell’utopia comunista e Pasolini ne prende nota nell’osservare l’umanità che vive nelle nuove periferie: «…quella gente non opponeva più la sua cultura a quella dei padroni, quella gente non conosceva più la santità della rassegnazione, quella gente non conosceva più la silenziosa volontà della rivoluzione» [Petrolio, appunto 124, p. 497, corsivi dell’Autore].

L’omologazione televisiva cambiava la gente e faceva morire le grandi utopie rivoluzionarie: quella fascista, “virile ed ascetica” (vedi appunto 126, p. 503), e quella comunista, forte nella misura della sua rassegnazione e del suo silenzio. Ma se il fascismo moriva come utopia rivoluzionaria, esso permaneva ineliminabile nell’esistenza maligna del Potere.

(articolo già pubblicato in una prima versione in Amnesia Vivace n° 16, dicembre 2005)

intervista su Salò a Pasolini

link a XXX PASOLINI spettacolo teatrale