L’inganno della Scrittura Creativa

Snoopy scrittore (Peanuts, Schulz)
Snoopy scrittore (Peanuts, Schulz)

Il concetto di Scrittura Creativa non l’ho mai amato molto. Ovvio che la scrittura lo sia, così come lo è qualsiasi altra espressione artistica, ma la comunicazione ultimamente inflazionata di questo concetto dà volontariamente spazio a vistosi fraintendimenti: creativa come libera, creativa come ludica, creativa come rilassante; creativa, insomma, come lo è uno spazio di alterità rispetto a un mondo ingabbiato e stressato tra norme, doveri e regole. Non è mai così, qualunque scrittore si accorge che lo spazio di creatività nel proprio lavoro è ridotto a un impulso iniziale (che a ben guardare è anch’esso figlio più della necessità che della libertà), e che l’opera che sta creando, dopo solo poche pagine, assume una personalità e una progettualità talmente inflessibili e tiranne da annullare la volontà del creatore stravolgendola nell’asservimento completo. Allora nulla diventa più doveroso e metodico della tua scrittura e scopri che non ha più – né ha mai avuto – la funzione di divertirti o rilassarti ma solo quella di servire lei, la tua opera, che non è più tua, non è mai stata tua, ma si appartiene, appartiene a se stessa, e vuole essere soddisfatta. Ogni termine che userai, ogni locuzione, ogni verbo saranno studiati e soppesati per lei, perché possa nascere e svilupparsi senza tradire la propria personalità, il suo (e tuo) progetto interiore. Ed essendo sempre lungo il parto di un’opera, settimane su settimane, mesi, forse anni, arriva il giorno in cui ti accorgi che sei cambiato da quando avevi concepito quel progetto, sei un altro, la tua sensibilità e i tuoi desideri sono mutati, e quest’altro che ora sei divenuto vorresti esprimerlo nella tua scrittura ma non puoi, non ancora, almeno non con quell’opera che ancora non ha visto la luce. Devi rimanerle fedele, sempre, comunque, perché lei ha la priorità su di te. C’è tanta genitorialità in questo mestiere, altro che creatività.

Aldo Morto, tragedia di Daniele Timpano

Daniele Timpano
Daniele Timpano

«Va be’. Niente di importante», Aldo Moro è stato ammazzato 35 anni fa. 1978. «Cose che capitavano negli anni settanta». Un’altra epoca. Un altro mondo. Niente di importante… oggi. Allora era tutto in bianco e nero, le 16 sfumature di grigio percepibili avvolgevano i palazzi della politica, come una densa nebbia. Forse si sparava per questo,  per illuminare quella cappa di mistero e foschia che era la politica italiana, per squarciare quel velo di nebbia oltre al quale distinguevi appena vaghe idee di personaggi vecchi e ingobbiti, liturgie secolari ripetersi con l’incedere stanco di un pachiderma, inconfessabili vergogne nazionali negate fino alla morte. La morte, appunto, di Aldo e di tanti altri. Allora, in un’Italia benestante si rincorrevano le incognite della rivoluzione, oggi in un’Italia povera si rincorrono le sicurezze della restaurazione. Un’altra epoca, un altro mondo.

C’è qualcosa di irreale nella politica di questi anni che celebra il martirio di Moro. In quelle facce fintamente addolorate, in quelle corone di fiori bugiardi deposte con residui di energia costantemente più deboli, in tutta quell’ipocrisia istituzionale comprendi la tirannia della forma. Tiranna è la forma perché urla più di ogni contenuto. Tiranna è la forma nella sua disgustosa assertività. Rivoluzionario è colui che rompe la forma e apre spazi di possibilità. L’autore-regista-attore Daniele Timpano ha scritto un monologo intitolato Aldo Morto e l’ha portato in scena in diverse serate sparse per l’Italia. Poi il 16 marzo del 2013 è entrato in una sala del Teatro dell’Orologio di Roma e da lì uscirà l’8 maggio prossimo. 54 giorni di repliche e 54 giorni di autoreclusione in una celletta di 3 metri per 1 ricavata nella stessa sala, alle spalle del fondale. Se è vecchia e noiosa la cerimonia istituzionale in ricordo di Moro che possibilità ha lo spettacolo di Timpano di non replicare la medesima vecchia noia? Una noia profana, contrapposta a quella sacra delle istituzioni ma pur sempre noia. Noia di cose di un’altra epoca, di un altro mondo. Noia perché ci è venuto a noia quel fatto (incomprensibile come tutti i fatti italiani) che ha generato fiumi di analisi e discorsi e parole e accuse e difese e libri e teatro e film…

Ma Daniele Timpano non è uno storico e non ha verità storiche da farci bere. Daniele Timpano non è un politico e non ci propina né morali né ideologie. Daniele Timpano non è nemmeno un giornalista d’inchiesta che svela misteri impensabili. Daniele, tra l’altro, nel 1978 aveva solo 4 anni e di tutti quei fatti – soprattutto di quelle atmosfere – non ricorda nulla. Sì, certo, si documenta, si documenta come un topo da biblioteca ma nessuno pensi che questo suo one-man show sia riconducibile al genere “teatro di narrazione”. In definitiva Timpano è un artista puro, merce rarissima a teatro, e il suo Aldo Morto è uno straordinario lavoro sulla forma narrativa, teatrale e non solo.

Più vecchio di Timpano, io quegli anni e quei fatti me li ricordo abbastanza. Non meno documentato di Timpano ho letto tesi e antitesi sull’argomento. Ecco perché ringrazio Timpano di non aver ceduto alla presunzione di “dirci la sua”, di ammalarsi di tuttologia come molti bravi odierni italiani; nessun sovrappiù di intelligenza sulla vicenda Moro ho avuto dalla visione di questo spettacolo e tuttavia mi è parsa netta e impietosa la pennellata del pittore Timpano nell’inchiodare sulla tela del palcoscenico le forme umane di quella storia, di quegli anni e degli anni a venire. Qui interviene la personale verità artistica dell’autore, una verità disillusa, forse nichilista, un mostruoso miscuglio di ironico distacco e pietosa compartecipazione. Emerge il ridicolo e a volte la disumanità dei personaggi narrati, eppure non ho percepito volontà di condanna, il Timpano giudice e moralista non si è manifestato. Ritratti come grotteschi fumetti,  i protagonisti di quella straziante vicenda italiana si muovono come automi privi di anima, sembrano danzare un macabro gioco di ruolo intorno al palo-totem Moro, e grazie a tale distacco ne cogli le odiose convenzioni, le formalità, le falsità con cui inscenano i loro rituali ipocriti, in qualche modo ne cogli la “necessità” (ananke) e quindi la tragedia. Come se fare a brandelli un evento storico, farne coriandoli e gettarli in aria a caso, affidarli al caso nella loro ricaduta a terra, rendesse il senso della Storia più della storia stessa.

Timpano sembra ripercorrere a tratti l’operazione cubista di sezionamento e ricreazione dell’immagine. Come in un quadro cubista lo sguardo frontale del pubblico abbraccia il soggetto da più angolazioni e la coerenza si perde da vicino e si riacquista da lontano. Ma ogni possibilità di partecipazione emotiva è negata, nonché è negato il tentativo stesso di giungere ad una sintesi in termini di verità storica o politica.  Si affida a salti temporali, improvvise irruzioni autobiografiche, scomposizione e disarticolazione delle convenzioni narrative, tributi estetizzanti ai piaceri del ritmo e della bella e ardita letteratura (il fantastico finale a mo’ di martirologio), calca sull’iperbole senza tradire la verosimiglianza, non è mai credibile in quel che dice, non vuole essere credibile, frulla idee, immagini, fatti, parole, rendendo testimonianza alla sensibilità artistica e comunicativa della nostra epoca. La contemporaneità della sua estetica toglie polvere e ragnatele al teatro italiano e gli dona vita come pochi in Italia sanno fare. 

Aldo Morto è uno spettacolo che ci dice più sulla nostra epoca di quanto dica dell’altra, ormai andata e irraggiungibile. Quella era l’epoca delle grandi narrazioni, la nostra si presenta sempre più come quella delle piccole confusioni. I fatti si dissolvono e si confondono, le verità sembrano imprendibili e cangianti, come farfalle che si fanno beffe del retino che le insegue e che le vorrebbe ingabbiare. La sfida tragica tra l’uomo e la verità sembrano porsi come il vero tema di questo spettacolo la cui visione lascia in retrogusto una rappresentazione dell’umano tangente le dimensioni del mostruoso.

Poi il pubblico esce e l’attore torna nella sua cella di 3 metri per 1, torna alla sua reclusione, accende la webcam e si mette in streaming, si dà in pasto alle comunità virtuali, facebook, twitter, you tube, blog vari. Reclusione e streaming, isolamento e trasparenza, scomparsa e perenne presenza, tutti i poli su cui gioca la nostra contemporaneità.

Il senso di colpa della sinistra italiana

Enrico Berlinguer e Stefano Rodotà
Enrico Berlinguer e Stefano Rodotà

Tra le tante possibili riflessioni sugli eventi politici di questi giorni, una mi sembra meritare un approfondimento e riguarda la figura di Stefano Rodotà e il suo porsi come elemento di rottura all’interno della compagine di centrosinistra. Perché il PD è crollato (anche) su Rodotà? Perché il M5S si è unito, infervorato, rafforzato sul nome di Rodotà? Checché ne dicano molti, Rodotà non è una incomprensibile sorpresa, se non altro perché il suo nome come desiderato Presidente della Repubblica girava in rete già da un paio di mesi, e non per opera del M5S ma per iniziativa di singole persone o di associazioni legate ai diritti civili e alla questione dei “beni comuni”. Chi è Rodotà? Non parlo di curriculum ma di quel profilo pubblico percepito dalla gente, costruito su sensazioni, comportamenti, frammenti di notizie. Un anziano giurista, un intellettuale colto e raffinato, da sempre indipendente di sinistra, fuori dai giochi della “grande” politica, impegnato sui diritti civili, tra i promotori del referendum sull’acqua pubblica (l’unico referendum da tantissimi anni a superare il quorum di partecipazione), vicino all’esperienza romana del Teatro Valle Occupato. Un uomo dal volto onesto, buono e mite ma per nulla arrendevole, tutt’altro, fermo e orgoglioso delle sue idee. Un uomo che quando parla non usa il politichese ma sa farsi capire con semplicità. Quasi un Berlinguer, direi.

Teniamo in mente questa descrizione e ora pensiamo ai dirigenti PD, ai vari D’Alema, Bersani, Letta, Violante, Veltroni, Finocchiaro, Marini etc. Potremmo fermarci qui tanto è evidente e stridente il contrasto. A quella domanda, ripetuta come un mantra in questi giorni, “perché non Rodotà?”, i dirigenti PD risponderebbero candidamente “perché non è uno dei nostri”. E infatti! Rodotà è il volto di quella sinistra che molti di noi vorremmo, il volto di quella sinistra che non c’è e forse da vent’anni a questa parte non c’è mai stato, è il volto del padre defunto che turba la coscienza del figlio errante. È il morso del rimorso, di quel che avremmo dovuto essere e non siamo stati. È il senso di colpa della sinistra italiana, almeno di quella che discende dal PCI. Passione, impegno, idealismo, trasparenza, onestà, coerenza, tutte qualità che il PD ha fatto sprofondare nelle sabbie mobili della politica dei politicanti e che il volto di Rodotà (volto reale, ma in parte proiezione psicologica) incarna.

Una mia vecchia amica psicanalista mi ammoniva dicendo che dove c’è un senso di colpa c’è sempre una colpa. Bene, l’immagine del vecchio Rodotà che scende in piazza per difendere l’acqua pubblica o che incontra e aiuta gli occupanti del Valle riflette impietosamente, come un gioco di specchi contrapposti, la colpa della sinistra istituzionale italiana. E che questa immagine getti nel panico la dirigenza del PD e svegli la memoria compressa e assopita della sua base è terribilmente ovvio. Come dire che prima o poi i nodi vengono al pettine – il nodo di un partito nato dall’incontro tra culture diverse e anche antagoniste –  e che da adesso in poi “pettinare le bambole” non ci basterà più, dovremo semmai pettinare la nostra coscienza.

È ancora più interessante concentrarsi sul senso della candidatura Rodotà da parte del M5S, un movimento che finora si è spacciato per antipartitico, postideologico e fuori dagli schemi interpretativi tradizionale, e che invece con Rodotà e con la recente retorica grillina che ne ha spinto la candidatura si scopre sorprendentemente di sinistra, di “sinistra estrema” si potrebbe dire utilizzando una banale terminologia giornalistica. La scorribanda che negli ultimi giorni Grillo ha fatto dentro l’indifeso campo PD, è un vero e proprio attacco da sinistra, una sorta di shopping nell’hard discount dell’elettorato democratico sotto gli occhi ciechi della dirigenza di quel partito (che ancora non ha capito di aver perduto per sempre gran parte dei suoi elettori), e anche sotto gli occhi increduli di Vendola, che non a caso si è subito rimesso la maschera dell’antagonista, accodandosi alle istanza grilline. Insomma, sembra riproporsi un secolare regolamento di conti a sinistra tra massimalisti e moderati, idealisti e pragmatici, movimentisti e governativi e così via. Resta la tristezza nel constatare come queste due forze, che probabilmente qualcosa di profondo condividono ancora, dispongano insieme di un buon 70% del Parlamento italiano. Quante belle cose potrebbero fare se solo ragionassero… ma qui sto entrando nell’ambito della fantapolitica.

Questa improvvisa connotazione “sinistra” del grillismo, però, rischia di intralciare la crescita e l’identità dello stesso M5S se dovesse configurarsi troppo marcata. Alla gran parte degli otto milioni di persone che hanno votato Grilo probabilmente non frega nulla dei regolamenti di conti tra compagni e fare spesa tra le fila della sinistra PD, perennemente in cerca di una casa stabile e accogliente, è azione relativamente semplice ma anche di limitate prospettive politiche: il sangue PD che il vampiro Grillo sta succhiando in questi giorni prima o poi finirà. Inizi piuttosto a guardare anche dall’altra parte, a cercare di svegliare i sensi di colpa dell’elettorato di destra, ad illuminare le contraddizioni della politica sociale ed economica berlusconiana. L’occhio di riguardo tirato fuori in campagna elettorale verso gli artigiani e i piccoli imprenditori, l’enfasi sull’insostenibilità dell’attuale pressione fiscale, la battaglia verso le grandi concentrazioni bancarie, sono certamente alcune chiavi per aprire la porta dell’elettorato PDL. In teoria dovrebbe esserci anche la legalità, ma quello è un valore che la destra storica italiana ha da almeno venti anni disconosciuto e regalato alla sinistra, che a sua volta ne ha fatto l’uso che sappiamo.

L’inettitudine

sotto Montecitorio qualcuno brucia una tessera PD
sotto Montecitorio qualcuno brucia una tessera PD

Premetto che non ho votato PD ma SEL, che della coalizione Bersani fa parte, e quindi mi sento in diritto di scrivere le seguenti  cose.

Iniziamo con una velocissima cronistoria degli ultimi 50 giorni. La coalizione di Bersani vince le elezioni perdendole, o le perde vincendole, fate voi. Sta di fatto che conquista maggioranza assoluta alla Camera e relativa al Senato: qualsiasi prospettiva di governo necessita della sua approvazione. Già dal giorno dopo Berlusconi offre la sua disponibilità a Bersani ma il nostro rifiuta, dice no, dice che non ci sono condizioni per un “governissimo”, dice che la nostra gente non lo capirebbe. “La nostra gente non lo capirebbe”, non so quante volte in queste ultime settimane ho sentito questa frase dai dirigenti del PD. Bersani, dice lui, lavora per un governo del cambiamento, ovvero si rivolge a Grillo – piuttosto maldestramente, direi, ma comunque cerca un accordo. Grillo gli si nega, arriva a sbeffeggiarlo, mentre dall’altra parte Berlusconi continua a corteggiarlo. Ma il nostro eroe, coerente con le sue idee, insiste con Grillo e così si va avanti fino a questi giorni, alle elezioni per il Quirinale. E qui c’è la prima sorpresa, c’è Grillo che – probabilmente ubriaco, come suggerisce ironicamente Travaglio – tende la mano a Bersani. Gli dice che se votate il nostro candidato allora si può parlare di governo. E chi è questo candidato? Casaleggio? Grillo stesso? Una sconosciuta precaria di Molfetta? No, è Stefano Rodotà, famoso e stimato giurista da sempre impegnato sul fronte dei diritti civili e, soprattutto, un uomo che in qualche modo appartiene alla stessa storia del PD, se non altro per essere stato il Presidente del PDS, partito embrione del futuro PD. È fatta, quindi, penso io. Invece no, perché con un colpo di scena alla Ionesco il Bersani cosa si inventa? Sceglie un candidato insieme a Berlusconi e gradito a Berlusconi.

Cos’è questo, uno scherzo stupido? Una patologia di ordine psichiatrico? Un improvviso manifestarsi della sindrome di Stoccolma? Qualcuno me lo spiega?

Come funzioni Bersani? Come funzioni PD? Per 50 giorni hai predicato questo fantomatico “cambiamento”, hai inseguito Grillo come un martire segue il martirio e ora che tutto ciò che hai cercato sembra materializzarsi tu ti accordi con la destra? Ignorando, tra l’altro, una figura come Rodotà che appartiene alla tua stessa storia politica? Ma io – risponde questo imponente stratega – ho cercato un nome condiviso. Condiviso? E come mai la condivisione di 2/3 del parlamento (PD+PDL+SC) vale più della condivisione di analoghi 2/3 del parlamento (PD+SEL+M5S)? Non è una questione di maggioranza matematica ma una chiara scelta politica.

Io c’ho creduto caro Bersani, ho creduto ad un PD che finalmente aprisse a sinistra, ho fatto il tifo per te, per il tuo tentativo, ho difeso le tue scelte discutendo e litigando con amici evidentemente più lungimiranti di me e ora mi sento preso in giro, io e milioni di italiani. E cosa devo credere? Devo credere “travagliescamente” che l’unica lettura di questi ultimi vent’anni di storia politica italiana sia riducibile ad un accordo sottobanco tra Berlusconi e i dirigenti PDS-DS-PD? Accordo sul genere vivi e lascia vivere?

Ho una lettura un po’ più diversificata dell’amalgama di Travaglio. Più che ai complotti penso all’inettitudine, ad un micidiale mix di cialtroneria, insipienza, meschini egoismi, convenienze, pigrizia e paura. Comunque sia non mi interessa più, ora voglio solo una cosa cari Bersani, Letta, Franceschini, D’Alema, Veltroni, Fassino, Violante, Bindi, Finocchiaro, Fioroni e scusate se mi sono dimenticato qualcuno, voglio che ve ne andiate via, voglio la vostra morte, politica intendo, per carità non mi fraintendete, lunga vita biologica ma immediata morte politica. Godetevi la vita, godetevi la vostra bella pensione, fate viaggi, liberateci per sempre della vostra triste presenza perché meritiamo di meglio.

p.s. mentre scrivo, dopo Marini hanno impallinato anche Prodi… avanti il prossimo.

Italia Repubblica Presidenziale

Giorgio Napolitano negli anni '70
Giorgio Napolitano negli anni ’70

Certamente la politica italiana è la meno noiosa d’Europa, una vera  fucina di inimmaginabili novità ed esperimenti, e conseguenti stimoli alla riflessione. Ad esempio in questi giorni stavo progettando un approfondito articolo sulla fascinazione tutta italiana per i comici e, in particolare, per quella vera e propria delega che il popolo di sinistra, in questo ventennio berlusconiano (altro comico il Cavaliere, a suo modo), ha dato ai comici in fatto di lettura della realtà, analisi politica, proposte e prospettive. Argomento su cui sperò ritornerò, magari legandolo ad un interessante servizio proposto da Repubblica del 29 Marzo, tre pagine dedicate all’analfabetismo di ritorno causato dall’eccessivo uso della tecnologia e, ulteriore approfondimento, all’incapacità, anche per chi ha normali attitudini alla lettura, di comprendere una narrazione complessa. Ci si perde di fronte alla complessità, in pratica difettiamo di sintesi, qualità che invece non deve mancare mai al comico, e in generale all’artista. Tutti splendidi argomenti, poi sono arrivati i “10 saggi” di Napolitano.

Non mi sembra sia stato ancora messo bene in evidenza come l’Italia sia divenuta, a partire da Novembre 2011, e quindi circa da un anno e mezzo, una Repubblica Presidenziale. Dalla fine del IV Governo Berlusconi i principali partiti italiani hanno rinunciato alla guida del Paese, chi per manifesta incapacità e rischi di dissolvimento (PDL), chi per paura, miopia, fisiologica confusione (PD), e si sono cristallizzati in posizioni che vanno dall’attendismo allo slogan elettorale, da folli propositi di autosufficienza ad arroganti e irricevibili inviti alla collaborazione. E alla fine, come adolescenti spaventati e persi, hanno chiamato papà. Forse papà, ovvero Giorgio Napolitano, ne avrebbe fatto volentieri a meno; forse gli sarà sembrato strano e anche deprimente che a 87 anni gli si chiedesse di prendere la guida di 60 milioni di persone i cui rappresentanti politici non possono e non vogliono mettersi d’accordo; o forse si sarà sentito inorgoglito e galvanizzato dall’unanime riconoscimento alla sola importante qualità che un ottantasettenne come lui può avere, la saggezza. Volente o nolente quella guida l’ha presa e la sta esercitando con energica risolutezza.

Nel 2011 ci ha imposto il Governo Monti. “Imposto” può sembrare un termine eccessivo ma di fatto così è stato, d’altronde gli è stato detto chiaramente “fai tu qualcosa che noi non ne usciamo”. E lui qualcosa ha fatto, è stato suo dovere e diritto. Non voglio entrare in un giudizio di merito sul Governo Monti, mi limito ad osservare che fu a tutti gli effetti un commissariamento della democrazia parlamentare. Poi le elezioni e di nuovo un accorato “per favore pensaci tu”. Nonostante abbiamo il Parlamento più giovane della storia repubblicana, chi detta l’agenda, chi sbroglia la matassa, chi ci indica la via è ancora questo grande vecchio, amendoliano, migliorista, riformista, storico rappresentante dell’area di destra del PCI.

I “10 saggi” di Napolitano seguono la stessa prospettiva che fece nascere il Governo Monti: reciproca collaborazione PD-PDL (“inciucio”, per qualcuno), governabilità, stabilità, rassicurare, prendere tempo, rimandare gli scontri. La differenza è che tale scelta nel primo caso fu obbligata dall’inesistenza di una qualunque ipotesi di maggioranza parlamentare e dal “responsabile” rifiuto PD di andare alla elezioni (che, ovviamente, avrebbe stravinto), mentre oggi, con i “10 saggi”, con quei 10 saggi, mi appare più il volontario imporsi di una visione politica molto personale e anche poco sensibile a certe suggestioni emerse con evidenza dalle elezioni in poi. Formalmente, Napolitano prende alla lettera l’invito dei partiti a superare lo stallo e si crea un proprio governo attivo su due fondamentali questioni, istituzionale ed economica. Così abbiamo un Parlamento ancora fermo, un governo in carica ma dimissionario (e sconfitto alla elezioni) e un governo del Presidente fetale che tra qualche settimana verrà alla luce. Nei contenuti, la scelta di quei nomi indica una precisa volontà verso una “Grosse koalition”, e un disconoscimento definitivo di qualsiasi ipotesi di svolta a sinistra (tentativo Bersani). Napolitano scende in campo per facilitare il dialogo tra i partiti ma non tutti i partiti sono oggetto del suo tentativo, solo alcuni partiti e alcune “anime” di questi: la bocciatura di qualsiasi istanza proposta dal M5S e il disconoscimento del timido tentativo di Bersani di aprire a Grillo appare evidente. Altrettanto evidente appare il nuovo e ulteriore riconoscimento politico di Berlusconi quale interlocutore irrinunciabile, in questa fase, per qualsiasi governo. Ergo, Napolitano faciliterà il dialogo tra alcuni precisi partiti in direzione di alcune precise linee programmatiche. Il Presidente ha scelto quale deve essere il prossimo governo.

I 10 saggi di Napolitano sono come il Congresso di Vienna o la controriforma cattolica: atti di restaurazione. Berlusconi ringrazia;  Grillo – che della proposta Bersani aveva paura – pure. I 10 saggi sono anche una coltellata alla sinistra PD e spingono questo partito verso una possibile e definitiva spaccatura. La prossima collaborazione con Berlusconi sarà l’occasione per il manifestarsi di una frattura insanabile tra una vecchia guardia governativa, pronta a cedere a Renzi lo scettro del comando, e una variegata costellazione di personaggi, giovani turchi e vecchi leader, emotivamente compressi tra la rabbia per l’ennesima umiliazione e i sensi di colpa per quegli argomenti grillini, brucianti ricordi di una passata gioventù movimentista, che avrebbero voluto far propri ma che la paterna e saggia autorità di papà Giorgio gli ha negato.

Cosa dicono le 5 stelle?

Piazza San Giovanni durante il comizio di chiusura della campagna elettorale di Grillo
Piazza San Giovanni durante il comizio di chiusura della campagna elettorale di Grillo

Ma quante novità in questi primi mesi del 2013. Ci aspettano un Parlamento nuovo, un Presidente della Repubblica nuovo… e mettiamoci anche un nuovo Papa (che purtroppo da noi conta molto). Ancora una volta tutto cambia affinché nulla cambi? Non lo possiamo sapere per ora. Sappiamo però che il Parlamento è sconvolto dall’arrivo dei marziani delle 5 Stelle.

Non so voi, ma personalmente quando una grande novità esplode così clamorosamente mi resta dentro la delusione per non averne fatto parte, non averla capita in tempo, assorbita, contribuito a diffonderla. Io non c’ero. E per chi come me considera il concetto di “sinistra” da sempre intercambiabile con quello di “progresso”, sinistra come utopia, come altro mondo possibile, quell’io non c’ero pesa e brucia, ha retrogusti di sconfitta, di fregatura, di vecchiaia (“sei vecchio e non hai capito il mondo che cambia”). Ancora una volta abbiamo perso tempo a litigare tra pragmatici e idealisti, tra moderati e radicali, ognuno a valutare (e sminuire) il pedigree di sinistra altrui, e non ci siamo accorti che qualcosa ci stava scavalcando. Sì, ma cosa?

Un variegato mix, in parte talmente innovativo che il linguaggio arranca nel tentativo di afferrarlo nella sua organicità e di tracciarne chiari confini. Ci rinuncio anche io, è materia di cui discuteranno gli storici tra vent’anni. Ciò che invece un contemporaneo può fare è sezionarlo nelle principali caratteristiche, quelle che oggi emergono visibili. Purtroppo è la descrizione di chi si trova di fronte un mostro mai visto, un fenomeno mai esperito, un ragionamento quindi inevitabilmente confuso che rischia di dare troppo importanza ad aspetti solo superficiali, o che rischia di fraintenderne o ignorarne altri, utilizzando strumenti analitici e descrittivi vecchi e inadeguati. Ma proviamoci lo stesso.

GENERAZIONALE – È questo un dato di fatto incontrovertibile. L’età media degli eletti del M5S è di 37 anni. Va anche detto che si abbassa clamorosamente l’età media di quasi tutti i gruppi parlamentari, 45 quella della Lega, 48 quella del Centro Sinistra. Il concetto di rottamazione che ci accompagna da diversi anni, e che fu posto per primo proprio da Grillo, ha trovato quindi la sua applicazione. Finalmente! La generazione dei TQ, quella segnata da ogni sorta di incertezza e precariato, si prende la scena che gli compete e l’Italia gerontocratica accusa il colpo. Non è cosa da poco. Un Parlamento tanto giovane è imprevedibile, ed capace di qualsiasi cosa, nel bene e nel male. Finalmente un po’ di vento tra le ragnatele di questa Italia mummificata.

ANTIPOLITICO – È l’aspetto che attira gli epiteti di populismo e demagogia. Ma dobbiamo andare al di là dell’ingiuria. Certamente alcuni slogan sono triti e ritriti, degni di una discussione al bar dello sport: “andate tutti a casa”, “sono tutti uguali”, “sono tutti parassiti” etc. Si tratta di una umoralità che fa sempre presa, soprattutto in tempi di crisi. Ma c’è dell’altro. Si mette in discussione l’efficacia della democrazia rappresentativa, ovvero della delega. È una critica che finora non produce vere e proprie alternative ma intanto si inizia a porla. Quello che mi pare essere messa sotto processo è soprattutto la lentezza della politica, la sua proverbiale incapacità a decidere nei tempi (brevi) che il mondo contemporaneo richiede. Nonché la sua altrettanto proverbiale incapacità nel saper legiferare con chiarezza. Si pone l’accento sulla distanza che passa tra il buon senso della gente comune e le decisioni del Palazzo che spesso contraddicono quel senso comune. Meno enfatizzata, ma non assente, mi sembra la questione morale, con l’annesso impeto giustizialista (populismo, questo, più caro alla sinistra tradizionale).

POST IDEOLOGICO – Nel senso del rifiuto di rigidi schematismi destra-sinistra, e soprattutto delle conseguenze partitocratiche di tali schematismi: il necessario inchino a cordate, gruppi, conventicole, le logiche tutte italiane dell’appartenenza tribale e della raccomandazione. Non porsi il problema se si è di destra o di sinistra significa non perdere tempo in questioni che non vengono ritenute utili a nulla. Poi possiamo scartabellare l’intero programma dei grillini e scoprire la presenza di tante questioni di evidente derivazione no-global, e parlo del no-global anti liberista del primo decennio dei 2000, ma il punto resta la ferma volontà di non lasciarsi intrappolare dagli obbligati percorsi mentali di un modo di ragionare che non si ritiene più valido e più produttivo, un po’ come se qualcuno ci chiedesse se siamo guelfi o ghibellini. L’ideologia, magari inconsapevolmente, c’è sempre, ma viene privata della suo carattere statutario, viene smembrata, disarticolata, ricontestualizzata. Una sorta di bricolage ideologico.

FIGLIO DELLA RETE – È questo il punto più oscuro, che va al di là dell’ovvia familiarità con i mezzi che la rete mette a disposizione, e che chiama in causa il leader nascosto del Movimento, Casaleggio. C’è la diffusa sensazione (giustissima) che la rete rappresenti e permetta un cambio di paradigma epocale, una nuova alfabetizzazione con influenze dirette sull’organizzazione sociale ed economica mondiale, e forse anche sull’antropologia. Orwell che scrive La Città del Sole. L’enfasi è sulla velocità della rete e mi pare di intravedere una tensione futurologica andare a braccetto con un impeto futurista (e conosciamo il reciproco amore tra futurismo e fascismo). Staremo a vedere. Certo che nulla appare più distante dal quotidiano vissuto in rete delle lente, barocche e snervanti alchimie dell’apparato politico italiano. L’immagine grillina dei morti che camminano è in questo senso molto efficace.

Ed ora che accade? Tutti a interrogarsi su cosa farà ora Grillo, a decriptare ogni possibile sfumatura nei post del suo blog. Ci si dimentica che Grillo non è in Parlamento. Lì, in compenso, ci sono 163 eletti del M5S (109 deputati più 54 senatori) che equivalgono al 17% degli eletti nelle due camere. È ipotizzabile che queste 163 persone si rivelino essere niente più che burattini nella mani del gran burattinaio? Anzi, dei due grandi burattinai, Grillo e Casaleggio? In realtà la compattezza che dimostrerà questo gruppo è per ora un mistero ignoto a tutti, a Grillo stesso. In Parlamento non hai vincolo di mandato, sei parlamentare con la prospettiva di poterlo restare per 5 anni, e i richiami della “casa madre” giungono smorzati e flebili, soprattutto se questa è un non-partito che al massimo ti può espellere dal suo blog. Insomma, pochi luoghi esaltano l’individualismo quanto lo fa il Parlamento e l’idea che i post quotidiani di Grillo  – iperbolici e umorali come abbiamo imparato essere – funzionino sui deputati del m5S come i fondi della Pravda operavano sui membri del PCUS mi sembra improbabile. A ognuno le sue funzioni naturali: Grillo è il distruttore, è la testa d’ariete che ha sfondato le porte del castello, che vi ha fatto entrare 163 giovani sconosciuti; ma in Parlamento ci si sta per costruire, altrimenti non serve a nulla restarci. Il Grillo costruttore finora non si è visto, è un’attitudine che poco gli si adatta, e credo che questo sia chiaro anche a lui. Inoltre, costruire in Parlamento significa agire in modi che sono tutto opposti alla foga iconoclasta grillina, significa mediare, darsi scadenze più lunghe, agire di tattica, a volte abbracciare il nemico. Qualcosa del genere successe venti anni fa a Bossi, che non era meno di Grillo in capacità di distruzione. E Bossi, a differenza di Grillo, in Parlamento ci stava. La presa che Grillo continuerà ad avere sui suoi deputati e senatori è il vero quesito politico dell’imminente futuro.

Mind in a coma

Immagine della locandina di Girlfrien in a coma
Immagine della locandina di Girlfriend in a coma

Allora, Bill Emmott, ex direttore dell’Economist, storico settimanale inglese alfiere del liberismo economico, decide di fare un film documentario sulla decadenza morale dell’Italia. Lo intitola Girlfriend in a coma e ne propone al MAXXI di Roma la proiezione per il giorno 13 febbraio 2013. La proiezione viene annullata dal neo direttore del MAXXI Giovanna Melandri che adduce motivazioni di opportunità legate al regime di par condicio elettorale, e giù critiche da ogni parte e accuse di censura, soprattutto da settori dell’estrema sinistra felici di poter attaccare qualunque esponente del PD (quale è la Melandri) gliene dia motivazioni.

Non mi risulta che né Emmott né l’Economist siano di cultura socialista e/o progressista, quindi non capisco l’improvviso amore per le loro posizioni da parte dei compagni duri e puri di casa nostra. Ora anche l’iperliberismo anglosassone va bene alla causa?
Non capisco perché un museo di arte contemporanea debba ospitare la proiezione di un film di chiara natura politico propagandista. Né capisco perché questa par condicio che, ci piaccia o no, è legge dello Stato, debba valere per qualcuno sì e per altri no.
Non ho visto questo documentario ma mi risulta che nel suo manicheismo espositivo (l’Italia buona contrapposta a quella cattiva) dia largo spazio ad interviste a Mario Monti e a Sergio Marchionne quali esempi positivi che (secondo Emmott) lasciano sperare nell’uscita dal coma del Paese.
Insomma, sono fisiologicamente contro ad ogni censura e quindi per quanto mi riguarda la Melandri ha sbagliato e se fosse per me… proiettatelo pure dove e quanto vi pare, ma mi fa schifo l’opportunistica indignazione sbandierata da alcuni benpensanti italiani per raggranellare qualche voto in più.
Vorrei infine dire ad Emmott che la decadenza morale dell’Italia nessuno la conosce meglio di noi italiani. La conosciamo talmente bene che la cultura autolesionistica del piagnisteo è diventata un pilastro del carattere nazionale e sarebbe ora che ce ne liberassimo. Vorrei anche ricordare ad Emmott che la decadenza italiana è solo uno dei tanti aspetti della ben più generale decadenza dell’Europa e dell’Occidente, decadenza che riguarda anche la sua Inghilterra, o che addirittura nella sua Inghilterra nasce e si sviluppa. Vada nella City londinese a cercare le origini della decadenza.
Ma un bel documentario sui danni che il colonialismo inglese ha causato in tutto il mondo come lo vedrebbe Sir Emmott?

Ah, dimenticavo, nei prossimi giorni l’Espresso renderà disponibile in download dal suo sito il film. Ovviamente a pagamento, perché anche la bella indignazione è uno stato emotivo non per tutte le tasche.

Addio a Roma. Recensione al libro di Sandra Petrignani

Addio a Roma, di Sandra Petrignani, Neri Pozza Edizioni. La donna ritratta in copertina è Palma Bucarelli
Addio a Roma, di Sandra Petrignani, Neri Pozza Edizioni. La donna ritratta in copertina è Palma Bucarelli

Addio a Roma, un saluto che oggi mi appare augurio luminoso, appena sopra l’orizzonte illuminato d’alba, a caratteri cubitali. Ma poi è solo un titolo di un libro. Uno slogan, una promessa per il futuro, una cronaca di quel che è stato, un titolo di un libro, un distacco, un’inizio e quindi  una fine, o un fine, una pubblicità. Tutti quei pittori per i quali sporcare la tela bianca è darle vita, fiorirla di colori, e poi gli scrittori tristi, sempre incatenati alle convenienze del senso. Roma nei ’50, nei ’60, nei primi ’70, stesso letame di oggi, ma più fertile, genitore di fiori, merda d’artista. Più sampietrini, meno asfalto, più nobiltà nera, nessuna Smart, ugualmente ministeriale, clericale, mafiosetta, genuinamente puritana mentre oggi è ipocritamente libertaria. In quei trent’anni nasce la Roma che oggi è ormai senile, o forse già morta, già cadavere privo d’odore. Una Roma ancora giovane, forte, vitale e ottimista, una Roma che – chissà perché? – me la raffiguro con la faccia sbruffona di Renato Salvatori in canottiera e con i bicipiti bene in mostra. In quella Roma accade che un breve e singolare rinascimento, tutto sommato ancora poco indagato, si innesta in un tessuto sociale post bellico, un melting pot tutto italiano che dello Stivale amplifica vizi e virtù. I vizi si sono tramandati sino ad oggi, fortificati direi. Le virtù scomparse nel deserto odierno. «Coraggio, il meglio è passato» dice il geniale Flaiano, e allora resta lo stupore sul come e perché questo paesone di estrema provincia sia stato per una manciata d’anni il classico ombelico del mondo.

Il libro si apre nell’anno 1952, sul set di Vacanze Romane, e si chiude nel 1975 con l’assassinio di Pasolini. Dalla finzione di allegre vacanze alla realtà dell’omicidio di un poeta, che ancor più di tanti altri eventi degli anni di piombo chiude il sogno italiano di una densa, profonda, matura democrazia. In quasi cinque lustri Roma ispira, ospita e nutre il meglio della cultura e dell’arte italiana e internazionale, ed è probabile che non ne riceva nulla di sostanziale in cambio, altrimenti non si spiegherebbe la successiva decadenza. Se c’è una immagine che mi rimane dalla lettura di questo impressionante gotha intellettuale che sciama tra Fontana di Trevi e Piazza del Popolo, tra Trinità dei Monti e Trastevere, è quella delle cavallette, nonché l’idea che una città – anche una città eterna – non ha di fronte alla comunità artistica un ruolo differente da quello che riveste il locale del momento, quello trendy, quello che fa tendenza: quando la moda cambia si cambia locale, e le cavallette se ne vanno, nell’indifferenza – questa sì eterna – delle rovine imperiali e delle chiese barocche. Ma forse questo è nello specifico DNA dell’Urbe, come suggerisce una citazione di Corrado Alvaro: «Ci si lega a questa città per nulla affettuosa, per nulla cordiale, che è di tutti e di nessuno, che ci tiene ospiti anche se ci stiamo tutta la vita e resta sempre quella città indifferente cui approdammo impauriti nella prima giovinezza. Nessun aspetto di essa è familiare e intanto la vita italiana vi si trapianta con tutti i suoi caratteri.» [pg. 99-100].

Per il resto un testo interessante, leggero e godibile, forse con troppi nomi e personaggi per lasciarti davvero incollato alle pagine, né storico-critico in senso stretto né romanzato (per quanto in parte lo sia), cronachistico direi, dove l’enorme quantità di informazioni è gestita con uno sguardo dall’alto, che distingue i vari gruppi più delle persone, alternato ad improvvise e dettagliate zoommate nella quotidianità di alcuni singoli, Palma Bucarelli (storica direttrice della GNAM), la coppia Moravia-Morante, la successiva coppia Moravia-Maraini, e poi Calvino, Pasolini, Fellini, Flaiano, Cristina Campo e Elémire Zolla, Goffredo Parise e Giosetta Fioroni, Natalia Ginzburg, Renato Guttuso, Carlo Levi, Alberto Arbasino,  Luchino Visconti, Giorgio Bassani, Adriano Olivetti. Una quotidianità che è aneddotica e a volte diventa a tutti gli effetti gossip, ma gossip benevolo e divertito, quello che si usa verso i propri beniamini, privo di accanimento, inopportunità, mancanza di rispetto. Interessanti anche le pagine sulla nascita di eventi e movimenti artistici, intellettuali o di costume ormai entrati nel mito, le origini del Premio Strega, il Gruppo Origine (Burri tra gli altri), la Dolce Vita, la scuola di Piazza del Popolo (Schifano, Festa, Angeli, Fioroni), la nascita dell’Espresso (Benedetti e Scalfari), la fondazione dell’AIPA (Associazione Italiana di Psicologia Analitica), il Gruppo ’63 (Eco e Arbasino), la prima sperimentazione teatrale.

Maggior simpatia va ai pittori, più pazzi, più tormentati, più squattrinati di tutti, vere rock star ante litteram. Sono probabilmente loro, con le loro storie di «ricchezza, di frustrazioni, invidie, depressioni e di improvvisi successi; ma poi il finale è un nuovo ribaltamento, autodistruzione, malattie incurabili, suicidi, incidenti.» [pg. 26], sono loro a recuperare la narrazione verso una realtà triste, a volte tragica (colpiscono le figure di Francesco Lo Savio, di Piero Manzoni, di Pino Pascali), ma almeno riconoscibile, una realtà la cui assenza avrebbe lasciato un retrogusto di finzione al tutto, un “sei bravo, hai talento, quindi ottieni successo e una vita felice” troppo favolistico per risultare credibile. Troppo favolistico o semplicemente testimonianza di un’epoca unica e irripetibile, distante anni luce dalla nostra? Questo libro non lo chiarisce a fondo, non ci dice molto sulle difficoltà per emergere, sui problemi economici, sulle lusinghe del potere e del successo, sulle inevitabili invidie, rivalità, delusioni, sconfitte, amarezze, su un sistema che t’umilia e ti sfrutta, su una quotidianità che ti distrae. Ci mostra questi grandi intellettuali, scrittori soprattutto, discutere d’arte e di letteratura, litigare d’arte e di letteratura, vivere e morire completamente immersi nell’arte e nella letteratura. Un’adesione quasi monacale alla propria vocazione che leggendo pensi non possa essere vera, e se invece fu vera allora mi provoca tanta invidia, e tanta pena per i nostri anni. L’immagine dell’ingegner Gadda morente nel suo letto con i suoi amici che lo vegliavano a turno leggendogli «l’amatissimo I Promessi Sposi» [pg. 316] è impressionante.

Poi il libro finisce, lo chiudi, vai a fare una passeggiata al centro, ti guardi intorno e ti chiedi «ma davvero è successo tutto qua?».