Tarantino s-catenato

Locandina Django Unchained
Locandina Django Unchained

È comprensibile la perplessità – o addirittura il rifiuto – di certa critica o di tanti cinefili di fronte ai prodotti di Tarantino. Chiunque deleghi al cinema un (inconfessabile) ruolo di scienza umanistica che scandagli la complessità dell’essere umano, del suo stare nella Storia, del suo sognare l’eterno e risvegliarsi mortale, chiunque pensi che il cinema sia uno strumento di conoscenza e intellegibilità, un moderno maître à penser che faccia luce sull’umano e sul sociale e sul culturale… ecco, chiunque cerchi nel cinema una penetrante saggistica, possibilmente resa leggera nei tempi e nelle forme espositive, non potrà non guardare la filmografia tarantiniana con la sufficienza che si dà ad un banale sottoprodotto di cultura popolare, il cui ambito si esaurisce all’interno del concetto di intrattenimento.

Non sarò io a tentare di dimostrare il contrario. Posso, però, mettere meglio a fuoco proprio il concetto di “intrattenimento” e il suo derivato di “evasione”. Se evasione deve essere, allora si evade da uno stato che non ci piace, non ci soddisfa, si evade verso qualcosa che ora ci manca. La nostra è un’epoca dove abbiamo dovuto progressivamente perdere ogni fiducia nell’utopia di una costruzione razionale della società, che soddisfi ogni nostro bisogno, che ci curi e ci difenda. Che ci resta, dunque, se non il gesto individuale, quello eroico, quello che ci indica come salvarci, come uscirne? È un’antropologia scarnificata, ridotta all’osso, dove le sovrastrutture borghesi non hanno casa, dove i sentimenti in campo sono primordiali, difendere la propria vita, quella dei propri cari, oppure vendicarsi, uccidere il male che c’ha ferito, fare scorrere copioso il sangue del cattivo. Se c’è un “contenuto” che attira in Tarantino mi sembra sia questo. È, appunto, cultura “popolare”, dove l’accezione di popolare rimanda a massa, al panem et circenses dei romani. Tarantino ci dà i “giochi”.

Sì, ma lo fa con nessun intento politico (tantomeno pedagogico). Lo fa con l’amore insindacabile del collezionista verso i propri oggetti, il cinema di genere, i polizieschi, l’horror splatter, i western (possibilmente “spaghetti”), la cinematografia giapponese e coreana. Lo fa con quella misteriosa passione verso l’anacronistico e il modernariato, che in ultima analisi è amore per la Storia. Amore, non simbiosi, non nostalgia reazionaria. Le massicce dosi di ironia con cui impasta i suoi film bilanciano la mera e acritica passione, sottraendolo così da un’irrelata adesione a tempi e forme passate per portarlo verso un lucido distacco da storiografo. Come il suo Django, Tarantino si libera dalle catene della Storia, si s-catena (un-chained), e lo scatenarsi dei suoi eroi di celluloide è in proporzione anche il suo svincolarsi da loro. Il citazionismo di Tarantino, quindi, è una forma di storiografia del cinema, è il tracciato che narra per segni come eravamo e cosa siamo diventati, è lo sguardo della madre che riconosce nei tratti somatici del figlio l’appartenenza alla propria genia, il naso del nonno, la bocca del padre, e lo fa col sorriso sulle labbra, un po’ amore un po’ sbeffeggio.

Il suo cinema è un discorso interno al cinema. In questo senso è puramente formale. Una forma che si esplica in una (parziale) storia del cinema “cinematografizzata” ma anche, e soprattutto, in una consapevole cura estetica che trasforma un prodotto industriale usa e getta in un manufatto artistico. Tarantino è espressionista, carica i colori, le vicende, le passioni, le azioni, va in direzione del fumetto curando tuttavia dialoghi, riprese, fotografia, montaggio come solo un grande maestro sa fare. E in questo suo riformulare sottoprodotti dell’industria cinematografica di genere in direzione di un discorso estetico, e quindi innalzarli da prodotto industriale a prodotto artistico, sembra ripercorrere 60 anni dopo i sentieri della pop-art.

Il suo ultimo Django Unchained non aggiunge nulla a questo percorso, semmai lo ripete sino a rasentare il manierismo. Ed è questo il suo unico limite.