Inland Empire di David Lynch: il mistero, il ritorno, il rimorso

Inland Empire – Studio Canal – USA, Polonia, Francia – 2006 – 172′. Soggetto, sceneggiatura, regia, montaggio: David Lynch. Musica di Angelo Badalamenti. Con Laura Dern, Justin Theroux, Jeremy Irons, Harry Dean Stanton, Julia Ormond, Scott Coffey, Krzysztof Majchrzak, Peter J. Lucas, Karolina Gruszka

È il Lynch che ti aspetti, questo di Inland Empire. Lontano anni luce da quella “scappatella” che fu Una storia vera, rieccolo alle prese con se stesso e con tutte quelle tematiche, appunto, lynchiane che l’hanno reso nel corso della sua ormai lunga carriera un regista “di culto”. Di che culto si tratta? Cosa c’è nel suo cinema, così personale, così – mi si passi il termine – onanista, così provocante i nervi e la pazienza e la sensibilità e l’intelligenza del pubblico, cosa c’è di tanto affascinante da stregare regolarmente migliaia di cinefili in tutto il mondo? Perché si va al cinema ad assistere alla passerella dei fantasmi di David Lynch?

MISTERO – Ho citato Una storia vera, quanto di meno lynchiano ha realizzato il regista di Missoula, ma forse proprio in quel film del 1999 possiamo trovare la risposta: il mistero; come nessuno Lynch parla del mistero. Lì lo fece nella maniera più tradizionalmente narrativa, raccontando linearmente una “storia vera”, raccontandola attraverso una telecamera lontana dal soggetto, distaccata, che registra l’evento ma non dà giudizi né spiegazioni. Un vecchio che percorre centinaia di miglia guidando una motofalciatrice da giardino per andare a casa del fratello che non vede da decenni solo per poter stare almeno una sera con lui ad osservare le stelle. Non è un fatto misterioso, questo? Non è, ancora una volta, il soffermarsi sul mistero di come la vita, le nostre vite, quelle di ognuno di noi, quelle che ci appaiono retrospettivamente tanto lineari, consequenziali, libere, siano invece attraversate, intersecate, deviate, da vite altrui, ed in particolare dalle vite dei nostri doppioni – uomini e donne – che hanno qualcosa di noi, a volte qualcosa di incredibilmente nostro, che ci appartiene, o ci apparteneva, e che ritorna, lo si voglia o meno, ritorna a parlarci, a chiamarci, a turbarci? Il ritorno e il rimorso. Il cinema di Lynch, anche in Una storia vera, è quindi sempre la rappresentazione di un mistero, e precisamente il mistero di un io scomposto e proiettato negli altri, una nostra eco che esce da noi, viaggia attraverso gli altri, e torna a noi deformata, pronta a sconvolgere la nostra guida sicura nella vita.

INIZIAZIONE – L’antropologo Arnold van Gennep (1873 – 1957) è entrato nella manualistica dell’antropologia culturale per la sua celebre analisi del c.d. “riti di passaggio”. Van Gennep distinse in tali riti tre momenti: una prima fase di separazione dal contesto sociale di appartenenza; una fase liminare (o marginale), nella quale l’individuo è sospeso in una sorta di limbo avendo perso la condizione originale ma non avendo ancora raggiunto quella finale; la fase terminale di aggregazione, nella quale l’individuo è inserito in un gruppo con un nuovo status. La fase liminare risulta la più delicata, quella dove ogni riferimento vecchio è perduto e nessun riferimento nuovo è ancora stato costruito. Nella filmografia di Lynch mi sembra di poter distinguere un gruppo di film che narrano per grandi linee il processo di iniziazione ed un secondo gruppo che, dell’iniziazione, si soffermano esclusivamente sulla seconda fase, quella liminare. Nel primo gruppo abbiamo: Elephant man – una iniziazione fallita alla vita “normale”; Dune, Velluto blu, Cuore selvaggio – iniziazioni riuscite alla vita adulta; Una storia vera – iniziazione alla morte. Il secondo gruppo rappresenta lo sconvolgimento tipico della fase liminare, quel punto da cui non si può tornare indietro ma oltre cui ancora non si può andare, quel punto dove non sai più chi sei. È il gruppo del ritorno e del rimorso, della reiterazione, dei cerchi e delle spirali. È il gruppo dove la mente cancella e impera. È il gruppo di Eraserhead, Twin Peaks, Fire walk with me, Strade di fuoco, Mulholland Drive, Inland Empire, ovvero inconscio, confusione, inenarrabilità.

RITORNO E RIMORSO Inland Empire è un catalogo delle forme e dei temi cinematografici lynchiani (e anche degli attori e attrici di Lynch). Ma non c’è proprio “tutto” Lynch: Elephant man, Dune, Velluto blu, Cuore selvaggio, Una storia vera, rappresentano tutti, a loro modo, episodi a parte, divagazioni da quello che mi sembra essere il percorso centrale della cinematografia di Lynch, quello che mi piace chiamare della circolarità, della spirale, del ritorno e della reiterazione, del rimorso. Inland Empire è l’ultimo film di “questo” Lynch, il Lynch che nasce ingenuo e spontaneo – come un bambino – con Eraserhead, che inizia a giocare con Twin Peaks e Fire walk with me, che cresce, matura e ragiona con Strade di fuoco e Mulholland Drive. I sottotitoli delle versioni italiane danno credito a questa mia lettura: si parte da La mente che cancella (Eraserhead) e si finisce – o si torna a casa – con L’impero della mente (Inland Empire). Il cerchio è chiuso e dopo Inland Empire non ci potrà essere mai più qualcosa di “questo” Lynch. Dovrà parlarci, se vorrà ancora parlarci, con altri linguaggi. Magari tornando a raccontarci “storie vere”, e a raccontarcele facendoci credere – illudendoci e illudendosi – che la vita è lineare, che nella vita siamo liberi di scegliere, o addirittura di fuggire. Che possiamo ignorare i ritorni e i rimorsi.

MATRIOSKE, FRATTALI E DONNE – «A Hollywood le stelle creano i sogni e i sogni creano le stelle». È una battuta di William H. Macy tratta da Inland Empire, dalla fase iniziale del film, ed è probabilmente la migliore chiave di lettura (ammesso che Lynch possa essere “letto”) per addentrarsi nell’ennesimo delirio lynchiano. Stelle del cinema e sogni: Inland Empire è un discorso sul cinema e sulla vita, sulla vita come cinema. Non più la metafora vita-teatro ma vita-cinema, o vita-schermo, e quindi la lettura “esistenziale” abbandona l’idea della vita come rappresentazione di un ruolo per abbracciare la più post-moderna concezione della vita come simulacro e feticcio, registrabile, proiettabile, osservabile. Non c’è nessun piano narrativo in Inland Empire – dei tanti che compongono il film – che non sia film. Film nel film nel film: c’è sempre qualcuno seduto che osserva una vita proiettata attraverso uno schermo. Come un gioco di matrioske, ogni film è contenuto da un film più “grande” e alla fine esci dal cinema con il dubbio che qualcuno, dotato di perfido telecomando, stia “vedendo” te. Matrioske, quindi, ma ancor di più frattali: Inland Empire è un frattale cinematografico, ove ogni più piccolo frammento del film riproduce la struttura narrativa dell’insieme più grande. E, infine, è un film di donne e sulle donne. Tutte le donne di Lynch, del suo e del nostro immaginario: donne che hanno figli, donne che non possono avere figli, donne che amano i loro mariti, donne che tradiscono i loro mariti, donne puttane, donne che si innamorano, donne che vengono illuse dagli uomini, tradite dagli uomini, picchiate dagli uomini, donne che lottano e si difendono, donne “leggere”, che allietano la vita, che ridono e ballano. Mancano solo le sante e di questo gliene siamo grati.

PRESUNZIONE ED IRONIA – Non è sano narrare Lynch, non è giusto narrare Inland Empire. Non si può narrare attraverso una verbalizzazione che si avvale di logica e linearità ciò che è scomposto in forme illogiche e non lineari. Chi non ha mai avuto a che fare con Lynch non si avvicini a questo film, ne resterebbe scottato. Chi, invece, è già iniziato, troverà il Nostro in gran forma, lo vedrà giocare come mai con se stesso, con la sicurezza e la presunzione che appartiene solo a chi – a torto o a ragione – è convinto di essere un “grande”. Un Lynch talmente “maturo” da rasentare il “guasto”. L’equilibrio lynchiano tra narrazione e antinarrazione, tra logica cartesiana e logica onirica, viene qui a cadere a favore del secondo polo: tre ore di vero “delirio” lisergico con l’evidente risultato di assistere ad un prodotto più complesso e, inevitabilmente, meno chiaro e compatto di qualunque altro precedente – eccezion fatta per Eraserhead, di cui Inland Empire mi sembra in qualche modo il “pronipote”. Il limite principale del film sta in un sottofondo di lucido autocompiacimento che reitera quando non ce ne sarebbe bisogno, che autocita sino a stancare. Consapevole di questo, Lynch immette forti dosi di leggerezza ed ironia, si prende in giro, come nella scena finale quando estrae dal suo cappello da mago nientemeno che Nastassja Kinski (la “sorella del fantasma“): priva di una gamba la vediamo camminare (forse ha assistito alla proiezione del film) e affermare direttamente alla telecamera «bello!». Ma l’antidoto si rivela pericoloso quanto il veleno che dovrebbe combattere: prendersi in giro è sempre un modo per stare al centro della scena.

A.XX°N.N. – Per il resto, direi uno Strade perdute all’ennesima potenza. Tre i piani narrativi, le “storie” che attengono ad una coerente dimensione spazio-temporale – quattro, se si conta anche la metaforica, metacinematografica, metanarrativa stanza dei conigli (ripresa dal serial Rabbits che Lynch ha diretto per il proprio sito a pagamento). In primo luogo abbiamo Inland Empire, il “nostro” film, che per convenzione (come ogni film) narra una storia “vera”, una soggettiva su cui dovrebbe poggiare qualunque ulteriore costruzione. Di questa storia Laura Dern è la protagonista, una attrice di Hollywood di nome Nikki Grace che sta per girare un film insieme all’attore maschile Devon Berk (Justin Theroux). Il film nel film – intitolato Il buio cielo del domani – è il secondo piano narrativo, ma per lunghezza e presenza è di gran lunga il primo. Di questo film si viene a sapere essere un remake di un vecchio lungometraggio tedesco (intitolato 47 – siebenundvierzieg) mai terminato per la morte misteriosa dei due attori protagonisti. Il lungometraggio mai terminato è il terzo piano narrativo, reso con colori seppiati ed in lingua originale polacca, ed è a sua volta basato sul soggetto di una vecchia storia “vera” (o una leggenda) di origine polacca, storia che ha a che fare con polacchi e zingari e puttane e circhi. Le vicende si mischiano, si intrecciano e si richiamano sino al momento che – proprio quando in quel richiamarsi tra loro ti sembrava di aver trovato una timida chiave di lettura – si disconoscono l’una con l’altra. Ma le analogie permangono, stimolano un bisogno di razionalizzazione, mi spingono a tentare – pericolosamente (e confusamente) – una schematica narrazione:

SALDARE IL CONTO Il tema comune è una tragica storia d’amore, un tradimento che un uomo e una donna consumano ai danni dei loro rispettivi partner. La donna che tradisce è sempre il fulcro delle varie narrazioni: il partner tradito la picchierà a sangue e le ucciderà l’amante; inoltre sarà minacciata di morte dalla moglie dell’amante (Julia Ormond). Il tutto viene vissuto in una mente, quella di Nikki (Laura Dern) che nell’interpretare il ruolo di Susan che tradisce il marito (Peter J. Lucas) per Billy (Justin Theroux), finisce per confondere i piani del “reale” e tradire il suo “vero” marito con Devon Berk, l’attore che interpreta Billy. Ma questo è probabilmente già accaduto nel film tedesco-polacco in cui i due attori protagonisti sono stati misteriosamente assassinati. Tale continua attualizzazione sul piano della “realtà” (primo piano narrativo) di una vicenda “non reale” (un soggetto cinematografico) è l’inspiegabile sortilegio – il mistero – che plasma le quasi tre ore di Inland Empire. È la vicenda “matrice” che fa da soggetto, la storia polacca, che sembra permeare – stregare – ogni tentativo di riproduzione filmica dell’atto. Qualcosa di quella vicenda è irrisolto, inquieto, chiede giustizia. «Il cavallo torna alla sorgente»; «Un conto deve essere saldato»: sono battute ricorrenti nel film che indicano ancora l’immagine del cerchio, del ritorno, il concetto di una necessità che – anche attraverso il tempo – le cose debbano tornare, chiudersi, ma chiudersi nel senso di appianarsi, chiudersi in maniera “giusta”, armonica, etica direi. In sospeso, dalla vicenda polacca, c’è un amore tragicamente annientato col sangue (di lui), amore che ora esige la riscossione del debito, cerca “giustizia”. Ed ecco quindi il Lynch “poeta” di Inland Empire, cantore di un amore epico e cavalleresco (già presente in Cuore selvaggio), un amore che sfida la morte e soprattutto sfida il tempo, un amore troncato violentemente e che ora affida allo scorrere del tempo le speranze di un ritorno, una rinascita, un “lieto fine”. Ma il tempo lo sfidano anche il “male” e la vendetta: come già in Strade perdute, anche qui c’è un “burattinaio” che tira i fili, una manifestazione ambigua ed inquietante del “cerchio del destino” che attraversa indisturbato i piani temporali. In Strade perdute fu lo splendido Robert Blake (l’uomo in nero), in Inland Empire appare nella veste di Crumpy, il polacco (un grande Krzysztof Majchrzak) chiamato anche “il fantasma”, personificazione maschile della vendetta, l’ansia di vendetta per il tradimento d’amore subito, un’ansia che trapassa il tempo, che «cerca un ingresso»: nella vicenda polacca Crumpy era l’ex della alter ego di Susan (Karolina Gruszka), era colui che roso dalla gelosia le uccideva il suo nuovo amore. Al termine del film, Nikki-Susan ucciderà Crumpy il polacco e in questo modo chiuderà il cerchio, riscuoterà il debito, ristabilirà un ordine. Ma non basta, e qui la retorica di Lynch crea un lieto fine onirico e maestoso: Susan dona (tramite un bacio) alla sua “antica” alter ego il proprio marito – Peter J. Lucas -, che è il “proprio marito” nel secondo piano narrativo, il film nel film, ma è anche lo stesso attore che nella vicenda polacca interpretava il ruolo dell’amante che veniva ucciso da Crumpy; le dona il marito e le dona un figlio: giustizia è fatta e il lieto fine hollywoodiano è rispettato.

IL PIÙ POETICO – Tornano le tecniche dell’inquietudine tipiche di Lynch: i piani-sequenza in ambienti quasi privi di luce, i primissimi piani di visi deformati, ora allungati, ora sfocati, sempre afferenti all’incubo, il vibrare improvviso e inquieto di un qualunque punto luce, generalmente luce bianca, che comunica l’imminente ingresso di un’altra dimensione, di un diverso spazio-tempo, gli improvvisi e allucinati flashback, l’uso spettrale dei suoni. Tecniche, tutto sommato, che nell’era degli effetti speciali appaiono quasi primitive, eppur sempre efficaci. Resta poi l’estetica fotografica e pittorica lynchiana, quella onirica e psichedelica che dà vita ad immagini di una bellezza e di una pulizia formale tali da confrontarsi direttamente con quelle del cinema di Kubrick (Shining mi sembra un buon termine di confronto; tra l’altro in Inland Empire c’è la stanza 47 che cita la stanza 237 dell’Overlook Hotel). E infine un discorso, quello di Lynch, che per quanto personale, impalpabile, incomprensibile, sfuggente ed inenarrabile sia, sa prenderci nella pancia e nella testa, sa entrarci nel corpo e scavare, lentamente, sino a costruirsi una nicchia in cui vive e da cui, come ogni mistero irrisolto, ritorna su. Mi sbilancio: il più bel film di Lynch, o almeno il più poetico.

Il paradosso di Lynch – Percorsi del tempo in Strade Perdute di David Lynch

La riduzione esegetica dei film di Lynch – o almeno della maggior parte di questi – a una chiara, razionale e lineare struttura, è operazione non semplicemente complessa ma probabilmente sbagliata: l’appeal della cinematografia lynchiana risiede nel suo essere mai del tutto chiara e spiegabile, nel suo seguire modelli narrativi tradizionali che improvvisamente vengono traditi, nell’inserire sempre un qualcosa affinché quel “tutto” che sembrava tornare alla fine non torna affatto. Anche il seguente tentativo di descrizione dei modelli temporali utilizzati dal cineasta di Missoula in Strade Perdute (Lost Highway, 1997), è un esercizio spero interessante ma che non può aggiungere molto all’interpretazione di un prodotto cinematografico impermeabile all’ostensione, soprattutto se quell’ostensione vuole quadrare il cerchio, vuole mettere ciascun pezzo del puzzle al suo posto. Questa operazione parte, quindi, con la consapevolezza di poter restare fine a se stessa, senza tuttavia escludere a priori guadagni di intelligibilità.

Premessa sul “tempo”.  La tradizione di studi antropologici e storico-religiosi ha individuato e descritto due fondamentali concezioni culturali del tempo comuni a tutte le società conosciute: lineare e ciclico. La concezione lineare è legata alla consequenzialità, all’idea che il passato è causa del presente, ma soprattutto è legata ad una idea di libertà e responsabilità dell’uomo – in una parola: la Storia – che porta il tempo ad essere una sorta di contenitore, in continua crescita, dell’operato dell’uomo. Cioè, la percezione del tempo passato e di quello (ipotetico) futuro non può prescindere dal fare umano. È la Storia a fare il tempo ed è l’agire umano, libero e responsabile, a fare la Storia. L’idea del tempo come divenire storico caratterizza l’avvento delle c.d. civiltà superiori, a partire dall’Egitto dei faraoni e, quindi, dall’istituzione della regalità (sono le “liste di re” a misurare il tempo). Il concetto temporale di ciclicità si oppone – gettandovi in tal modo ulteriore luce – a quello di linearità. Se il fare umano contraddistingue quest’ultimo, è la priorità degli eventi naturali a dare forma al primo. Nulla dell’azione umana può aspirare ad avere la medesima capacità fondante dell’azione naturale, ed in particolare dell’alternarsi ciclico delle stagioni. Non si nega la consequenzialità, il principio di causa ed effetto, ma tutto passa in secondo piano rispetto al vero motore del divenire: il ripetersi delle stagioni, ed il loro alternarsi. Se nella concezione lineare l’uomo è motore (sempre più unico) della dinamica causa/effetto, e la Storia altro non è che un accumularsi progressivo di atti umani, nella concezione ciclica l’agire dell’uomo è di fatto ininfluente nei confronti del variare delle cose, variazione invece soggetta principalmente al ritorno delle stagioni e a tutto quanto in ambito produttivo (e quindi sociale e culturale) queste impongono. L’unica forma di riscatto umano e culturale di fronte alla schiacciante presenza della natura passa per la coppia mito/rito. Nel mito il “dato naturale” si fa “culturale” attraverso il demandare la ciclicità stagionale ad un piano extraumano: è il ritorno dell’eroe mitico, riattualizzato nel relativo rito, che assicura annualmente il ripetersi delle stagioni. In tal modo, attraverso la coppia mito/rito, l’impotenza dell’uomo di fronte all’imponenza della ciclicità stagionale trova un termine di mediazione: sintetizzando, la natura agisce non di per sé ma tramite la dimensione extraumana – “divina”, si potrebbe dire, anche se impropriamente -; quest’ultima può essere in qualche modo controllata e/o riportata sul piano umano tramite mitopoiesi e ritualità. In definitiva, all’azione storica del tempo lineare si può contrapporre l’azione mitica del tempo ciclico: l’azione storica esalta se stessa, ovvero l’idea di poter agire liberamente e costruire progressivamente una successione di eventi; l’azione mitica annulla l’idea stessa di libera azione umana.

Prima di tentare una rappresentazione intuitiva e visiva di queste due concezioni, occorre precisare il sistema di riferimento. Cioè, il punto di vista che individua una modalità lineare e vi contrappone una modalità ciclica è il nostro, quello di uomini moderni, occidentali, che leggono gli avvenimenti tramite modelli che si rifanno alla Storia e alla scienza. Guardiamo il nostro passato e ipotizziamo un nostro futuro e ambedue, il passato ed il futuro, ci appaiono come momenti differenziati tra loro (e tra loro e la nostra posizione del presente) principalmente in base alla quantità di avvenimenti, eventi, azioni umane che li hanno alimentati. Sappiamo che nel nostro passato l’uomo non aveva ancora fatto tutto quello che è stato fatto sino ad oggi, e che il valore del nostro futuro sarà determinato dalla quantità e qualità delle cose che faremo. Il sistema di riferimento non legge il tempo come neutro scorrere astronomico degli astri ma lo umanizza, ne fa un tempo vissuto, agito. Il nostro sistema di riferimento legge noi stessi quali esseri partecipi – e cause – di un procedere del tempo lineare, progressivo, accumulante. La linea retta, ininterrotta, protesa verso l’alto con una freccia sulla sommità è la figura bidimensionale che meglio rappresenta la nostra concezione lineare del tempo. Lo stesso sistema di riferimento, poi, analizza quelle società c.d. primitive (o fredde, per dirla con Lévi-Strauss) dove il rapporto tra tempo oggettivo (astronomico) e tempo agito, è prossimo all’infinito. Privo di accadimenti degni di restare nella memoria, il tempo di tali società (reali o spesso frutto dell’immaginario etnografico) ci appare scorrere senza lasciare segno, gira intorno a se stesso seguendo la ciclicità stagionale. Un anello chiuso è la figura bidimensionale che meglio ci visualizza una modalità temporale ciclica, o al più – per dare una maggiore soddisfazione visiva all’idea dello scorrere oggettivo del tempo, o per accordare a questi popoli una minima percentuale di partecipazione alla Storia – un lento sommarsi progressivo di anelli che si uniscono in una struttura spiraliforme che si innalza disegnando la superficie – tridimensionale, stavolta – di un immaginario cilindro. La ciclicità è data dalla circolarità delle spirali, e ad una spirale segue sempre una nuova spirale in un continuum potenzialmente infinito.

Lost Highway.  Il “nodo temporale” di Lost Highway sta in quella frase – «Dick Laurent è morto» – che noi spettatori udiamo con il protagonista Fred all’inizio del film dietro alla porta chiusa (Fred risponde al citofono e ascolta la frase misteriosa), e poi udiamo di nuovo alla fine del film pronunciata dallo stesso Fred all’esterno della porta chiusa (rivolta tramite citofono verso l’interno): ci si immagina allora che Fred pronunci da fuori casa la frase allo stesso Fred che la ascolta dentro casa. Ma aldilà del problema dell’ubiquità (chi è abituato a Lynch non se lo pone), il punto dolente è che tra l’inizio del film (Fred ascolta la frase) e la sua fine (Fred pronuncia la frase) il nostro protagonista ne ha passati di avvenimenti (e ne è passato di tempo): allora come può la fine della storia di Fred essere anche il suo incipit? È questa porta chiusa, che è la stessa porta della stessa casa (vista da dentro all’inizio e da fuori alla fine), ad indurci ad una sorta di corto circuito del nostro a-priori temporale. Se quella porta non fosse stata la stessa, se quindi non avessimo visto coincidere fine ed inizio della storia, avremmo potuto immaginarci un – altrettanto “intricante” – passaggio di testimone in una immaginaria staffetta della follia: Fred porge ad un chiunque altrui la frase con cui ha avuto inizio la sua delirante avventura. Ma la porta era la stessa, la casa era la stessa, la storia è la stessa: sintetizzando, il passato di Fred è figlio del suo futuro (che a sua volta è, ovviamente, figlio del proprio passato). E questo nodo ci porta ad una struttura temporale certamente non lineare bensì ciclica, e di una ciclicità probabilmente ancora più radicale di come l’abbiamo immaginata poco sopra. Questa, come si diceva, non esclude la libertà dell’azione umana, semmai ne fissa ferrei ed invalicabili limiti: ogni mutamento od evoluzione sociale deve essere ricondotto e sterilizzato all’interno di un meccanismo temporale che, ciclicamente, rimette “tutto al suo posto”, così come fu stabilito nel tempo del mito. Ma se quindi vi è una rinuncia all’idea di un agire umano che sia totalmente indipendente e non influenzato dal ritorno del tempo, occorre precisare che il ritorno non chiude mai totalmente in se stesso l’anello temporale e, comunque, la chiusura si situa più sul piano della società che su quello dell’individuo. Invece, nel caso delle vicende di Fred non si può pensare ad altro che ad un anello radicalmente chiuso dove l’inizio e la fine non esistono, o almeno possono essere adottati solo convenzionalmente. La passività di Fred di fronte al chiudersi dell’anello appare totale: Fred è sballottato da eventi che lo sovrastano e sui quali non è in grado di esercitare alcun controllo. Immaginando allora la vita di Fred, dalla sua nascita al momento in cui iniziano le vicende narrate dal film, si può pensare ad una linea retta che improvvisamente cortocircuita in un anello chiuso causando la “fine del tempo” (e della libertà individuale); nell’intersezione tra la retta e l’anello è situata la porta della casa di Fred.

Robert Blake

Se un “normale” anello dà ragione della struttura temporale altrettanto non può accadere riguardo la struttura narrativa. Ciò perché (chi conosce la trama del film lo sa bene) in un dato momento il sassofonista Fred (Bill Pullman) svanisce lasciando al suo posto l’ignaro meccanico Pete (Balthazar Getty), che a sua volta, più avanti, ricambierà la “cortesia” passando di nuovo il testimone a Fred. Per una buona parte del film, seguiremo quindi la vita di Pete dimenticando quella di Fred. Il passaggio tra Fred e Pete non si situa solo sul neutro piano narrativo: pur essendo le loro vite indipendenti l’una dall’altra (i due non si conoscono, né appartengono a medesimi ambienti), troppi sono nel film gli indizi che rimandano ad una complementarità o ad una sorta di contiguità: fisicamente uguali le loro donne Renée ed Alice (anche perché interpretate dalla stessa attrice, Patricia Arquette), fisicamente uguali i loro rivali Dick Laurent e Mr. Eddy (stesso attore, Robert Loggia, ma probabilmente si tratta dello stesso personaggio seppur assume nel film due differenti nomi), e comune alle due storie è il personaggio misterioso (lo splendido Robert Blake) che sembra muovere il tutto seguendo pedissequamente un suo (a noi ignoto) piano. Le due vicende suggeriscono l’una la soluzione dell’altra ma, come premettevo sopra, il film sembra resistere ad ogni tentativo di riduzione alla ragione. E se proprio non si vuole retrocedere di fronte al conatus di razionalità che tutti ci muove, suggerisco la lettura di un buon lavoro di Fabrizio Colamartino, “Le strade perdute dell’inconscio”: in questo articolo l’interpretazione del film segue paradigmi freudiani e psicanalitici, e caratteri e ruoli dei principali personaggi vengono descritti proprio attraverso il loro essere ciascuno inversione e soluzione delle dinamiche psicologiche dei propri doppioni speculari.

Anello di Moebius

Uno dei modelli proposti per l’esegesi della struttura narrativa di Strade perdute è il famoso anello di Moebius: «questo thriller allucinato come un incubo parla dell’incapacità di un uomo di mantenere il controllo sulla propria vita. Lo fa attraverso una struttura narrativa paragonabile a quella di una fuga (musicale) oppure all’anello di Moebius che si avvolge su se stesso senza che sia possibile distinguere la parte esterna da quella interna, una struttura in cui è scardinato addirittura il fondamento di ogni narrazione, l’identità del protagonista» [Il Morandini, Zanichelli].
Per chi non lo conosca, l’anello studiato dal matematico August Ferdinand Möbius (1790-1860) altro non è che «un classico esempio di superficie non orientata. Le superfici ordinarie, intese come le superfici che nella vita quotidiana siamo abituati ad osservare, hanno sempre due lati, per cui è sempre possibile percorrere idealmente uno dei due lati senza mai raggiungere il secondo, salvo attraversando una possibile linea di demarcazione costituita da uno spigolo (si pensi ad un cilindro cavo, ad esempio). Quindi è possibile stabilire convenzionalmente un lato “superiore” o “inferiore”, oppure “interno” o “esterno”. Nel caso del nastro di Möbius, invece, tale principio viene a mancare: esiste un solo lato e un solo bordo. La sua superficie risulta essere infinitamente percorribile. […] Un nastro di Möbius può essere facilmente realizzato partendo da una striscia rettangolare ed unendone i lati corti dopo aver impresso ad uno di essi mezzo giro di torsione. A questo punto se si percorre il nastro con una matita, partendo da un punto casuale, si noterà che la traccia si snoda sull’intera superficie del nastro che è quindi unica» [Wikipedia – http://it.wikipedia.org/wiki/Anello_di_Moebius]

Quindi, pensiamo alla figura tridimensionale di un anello, dotato perciò di una superficie esterna e di una interna, superfici non comunicanti se non attraverso un’ulteriore superficie (si immagini una sezione rettangolare) o uno spigolo (sezione triangolare), e poniamo convenzionalmente che una delle due superfici – quella esterna – rappresenti le vicende di Fred mentre l’altra – quella interna – le vicende di Pete. Poniamo anche la convenzione che la visibilità data dal film coincida solo con la superficie esterna (visibile proprio in quanto esterna). Un normale anello ci darebbe allora visibilità solo delle vicende di Fred. Un anello di Moebius invece porterebbe in un dato momento la superficie interna ad esternarsi e quindi ad essere visibile per poi, in un secondo momento, tornare all’invisibilità data dal divenire di nuovo interna. Immaginiamo che Fred e Pete partano insieme percorrendo il primo la superficie esterna (visibile tramite film) ed il secondo quella interna (invisibile): in un dato punto l’interna diviene esterna e viceversa e quindi il film visualizza Pete e manda in oblio Fred; al “giro” successivo nello stesso punto la situazione cambia di nuovo e torniamo a seguire Fred ed a perdere le tracce di Pete. L’analogia con la narrazione è abbastanza soddisfatta con l’eccezione che nel nastro di Moebius il punto di cambio tra superfici è sempre lo stesso mentre nel film ve ne sono due distinti: il primo in carcere, quando Fred lascia il posto a Pete; il secondo nel deserto, quando Pete svanisce e torna Fred.

L’anello di Moebius non sembra dare lo stesso soddisfacente risultato se posto in relazione alla struttura temporale dei due protagonisti, Fred e Pete. L’artificio di questa figura è che attraverso quel mezzo giro di torsione di cui ci parlava la citazione da Wikipedia, le due superfici che in un normale anello sono separate e non comunicanti divengono una sola continua superficie. Basta percorrerla idealmente a partire da un determinato punto che si comprende come sia in realtà un’unità continua e circolare. Relazionandola al concetto di tempo, e assumendo l’assioma per cui una qualunque linea temporale può riguardare un solo personaggio, ne uscirebbe il paradosso che Fred e Pete vivono in prima persona la stessa successione di avvenimenti. Se l’anello di Moebius è un’unica superficie, anche immaginando che Fred e Pete partano in due differenti punti, uno interno ed invisibile e l’altro esterno e visibile, resta che prima o poi dovranno ambedue percorrere tutti i punti della superficie. Ciò non accade nella realtà (perché il mio tempo è solo mio), né accade nel film. Quando Pete si sostituisce a Fred si trova nella sua vita (non in quella di Fred) e si relaziona con i suoi conoscenti (non con quelli di Fred): le due vite sono separate, pur con eccezioni e particolarità di cui parlerò più avanti.

Una buona soluzione si può ottenere con un modello che complica l’anello di Moebius nel seguente modo:


Si può facilmente notare come stavolta le due superfici siano completamente distinte e non comunicanti tra loro. Il che equivale a dire che Fred e Pete hanno ciascuno il proprio percorso temporale. Ma se qualunque genere di anello si adatta al tempo circolare di Fred, lo stesso non vale per Pete: ciò che di lui ci mostra il film suggerisce linearità e progressione; la porta invalicabile che in Fred modifica il principio di causa/effetto verso una reiterazione infinita del tipo causa/effetto/causa, in Pete non c’è. L’anello si adatta a Fred ma non può soddisfare il fluire del tempo in Pete. Il nuovo anello, invece, soddisfa ampiamente la struttura narrativa, ed anche meglio del precedente: nella continuità di visibilità della superficie esterna (quella di Fred) si pongono due distinte interruzioni (carcere e deserto) attraverso le quali è la superficie interna (quella di Pete) a farsi provvisoriamente esterna, e quindi visibile nel film.

Le dinamiche temporali che intrecciano le vite dei due protagonisti trovano una migliore rappresentazione tornando ad una formalizzazione bidimensionale. Iniziamo con Fred. Il collasso temporale localizzabile convenzionalmente nell’evento della porta non può certamente comprendersi tramite il semplice ausilio di una linea temporale continua e protesa in avanti: occorre aggiungere un anello:

Assumo le seguenti convenzioni:
T-1 rappresenta la storia vissuta di Fred un attimo prima dell’evento della porta;
TXA è l’evento della porta (Fred ascolta la frase);
TXP è l’evento della porta (Fred pronuncia la frase);
TXA e TXP coincidono temporalmente, sono lo stesso evento TX;
TX1 rappresenta il portato di avvenimenti di Fred successivi a TXA;
TX2 rappresenta il portato di avvenimenti di Fred quasi alla chiusura dell’anello temporale, quindi dopo l’intromissione degli eventi riguardanti Pete;
T+1 rappresenta Fred dopo TXP (ultime inquadrature del film, in cui Fred fugge con la sua auto).

I paradossi principali sono due. Il primo è che si può immaginare la compresenza temporale di Fred in due distinti momenti: TX1 e T+1. In pratica avremo due Fred che si divaricano in due differenti linee spazio-temporali. Il secondo, già visto, è che TX2 è contemporaneamente effetto e causa di TX1 (e viceversa). Inoltre, se si seguono le frecce, si intuisce come il portato d’avvenimenti in TX2 sia totalmente responsabile di quanto avviene in T+1 ed in gran parte responsabile di quanto in TX1. T-1, ovvero la vita lineare di Fred vista un attimo prima del corto circuito della porta, si limita a “penetrare” in TX1 e a perdere progressivamente “peso” nei successivi TX2 e T+1. In quest’ultimo, poi, si può dire che T-1 sia del tutto ininfluente, praticamente inesistente, ovvero che il Fred che nelle sequenze finali del film fugge via chissà verso dove, è un Fred che ben poco o nulla si porta appresso della propria vita lineare, quella precedente all’evento della porta.

Si può ora inserire il divenire temporale di Pete. Pur restando nella rappresentazione bidimensionale utilizzerò l’idea (tridimensionale) di una spirale che avanza vista dall’alto, immagine più adeguata a dar conto di una progressione del tempo che si dispiega nello spazio.

Le novità rispetto alla precedente figura sta nella presenza della curva temporale di Pete (curva rossa) che “impatta” quella di Fred in C (carcere) e successivamente in D (deserto). Nell’impatto la curva di Pete occulta il percorso di Fred (visualizzato con tratto punteggiato) e ad esso si sostituisce. Si può immaginare che il doppio impatto porti la curva temporale di Fred a non riuscire a seguire più quello che avrebbe dovuto essere il suo “normale” percorso spiraliforme (linea blu tratteggiata) ma a ricadere progressivamente su se stessa sino alla chiusura dell’anello in TX.

Bene, mi rendo conto di essere entrato in un campo che per essere percorso con cognizione avrebbe necessità di nozioni scientifiche (fisiche e matematiche soprattutto) di cui non dispongo assolutamente. Probabilmente un fisico saprebbe illuminarci a riguardo, sarebbe cioè in grado di dirci se effettivamente i paradossi lynchiani raccontati in Lost Highway possono avere una possibile esistenza in qualche remota regione dello spazio-tempo, nel macroscopico o nel microscopico, in presenza comunque di peculiari ed inusuali condizioni fisiche. Per quanto mi riguarda ho solamente sfidato me stesso cercando di razionalizzare un “irrazionale” troppo stimolante per essere risolto con le categorie del surreale o dell’onirico, e tentando quindi di fare emergere la presenza di una struttura formale nascosta dietro la semplice “stranezza” narrativa di Lynch; e non è nemmeno necessario supporre che il Regista ne abbia avuto coscienza. Chiudo esaminando un’ultima figura che accorda narrazione e tempo (un “tempo della narrazione”) visualizzando anche l’interazione di Fred e Pete con altri personaggi del film.

Curva blu di Fred e curva rossa di Pete restano invariate. All’esterno della curva blu appaiono dislocati i personaggi della vicenda di Fred: D. sta per Dick Laurent, R. sta per Renée. All’interno della curva rossa ci sono i personaggi della storia di Pete: E. sta per Mr. Eddy e Al. sta per Alice. Tra i paradossi della successione temporale, oltre a quelli già visti, si nota Renée in vita – è nell’hotel con Dick Laurent – dopo che Fred l’ha da tempo uccisa (nella figura i cerchietti rossi indicano la morte del personaggio). Ma questo è un paradosso solo se si assume il punto di vista di Fred, altrimenti è possibile pensare al rapporto nell’hotel tra Renée e Dick come un momento precedente alle vicende tra Fred e Renée e quindi alla morte di lei. In questo caso la linearità temporale di Renée sarebbe, per così dire, ineccepibile.
Nell’area racchiusa tra le due curve troviamo i personaggi comuni ad ambedue le narrazioni: il regista porno Andy (An.) e l’uomo misterioso vestito di nero, che ho indicato con X. Tra i personaggi comuni ho escluso la coppia Dick Laurent/Mr. Eddy. Sono o non sono lo stesso personaggio? Il film è completamente ambiguo su questo tema e personalmente mi piace pensarli distinti. Riguardo l’uomo misterioso, l’uomo in nero, l’uomo della tecnologia (ha sempre oggetti tecnologici tra le mani: cellulari, telecamere, telefoni, televisori portatili e, alla fine, una pistola), credo che, al pari dei personaggi della “Red Room” di Fire walks with me, non vada considerato assolutamente in termini umani: è fuori dal tempo e dallo spazio, vaga per le differenti dimensioni limitandosi ad entrare ed uscire secondo i suoi piani. E ciò non può non riflettersi anche nel momento in cui si affrontano coerenze ed incoerenze della narrazione: Mr. X è dentro e fuori dal testo, è probabilmente Lynch stesso che si diverte a scombinare il tranquillo scorrere del tempo delle sue creature. Infine c’è Andy, personaggio minore eppure unico chiaro momento comune tra le due differenti vicende. Si può osservare (curva nera) come almeno lui, nel suo lambire la vita di Fred e quella di Pete, rispetti se non altro la minima sequenza logica che ci si aspetta da un essere umano immerso nel tempo: quella di morire dopo aver vissuto, e non viceversa.

(articolo precedentemente pubblicato dalla “defunta” rivista web Amnesia Vivace n.18, giugno 2006)

Il “male” e il fascismo nell’ultimo Pasolini (Salò e Petrolio)

finzione (fotogramma da Salò)
finzione (fotogramma da Salò)

realtà (foto delle torture nella prigione di Abu Ghraib)
realtà (foto delle torture nella prigione di Abu Ghraib)

 

 

 

 

 

 

 

 

Salò rappresenta cinematograficamente il “male”, e lo fa dandogli la veste storica del fascismo repubblichino. Il fascismo è l’immagine chi si accompagna al concetto di “male” per farne un significante riconoscibile. Il punto da indagare è se la scelta pasoliniana di adottare il fascismo come forma storica – incarnazione – del “male”, sia mirata a una condanna assoluta del fascismo oppure sia semplicemente dettata dalla necessità di “vestire” storicamente e socialmente il “male”, ovvero farlo apparire nella Storia attraverso l’uso di un qualunque momento storico dell’umanità.

In realtà il “male” in Salò trascende il fascismo e l’esperienza storica repubblichina. Il “male” in Salò non è in alcun modo un documento storico e soprattutto è avulso dalla Storia perché se nella Storia si manifesta – di qualunque momento si tratti – della Storia si disinteressa: non ha finalità teleologiche, non risponde a un disegno di conquista dell’umanità in un contesto manicheo di lotta tra tenebre e luce. Il “male” di Salò, il “male” pasoliniano, è autoreferenziale, vive di se stesso, è interessato solo a se stesso. È come un buco nero, un vortice che attrae tutto a sé e nulla rilascia. La pianista che si getta nel vuoto di fronte alla scena finale delle torture collettive è emblematica in questo senso: il suo movimento è verso il luogo delle torture, non è a fuggire da esso. La pianista si lancia verso il “male” e vi si annulla perché dopo averlo visto all’opera non può darsi alla fuga, perché non potrebbe più vivere gestendo quella parte di “male” che ormai è in lei, è entrato attraverso i suoi occhi, alberga nella sua memoria. Il “male” in quella forma così assoluta non lo si può gestire, divora. Altrettanto vale per le figure dei quattro “signori”. Questi, più che essere uomini che consapevolmente scelgono da dare “male”, sono strumenti inconsapevoli di qualcosa che li trascende: dal “male” sono agiti e posseduti. Nel film non hanno alcuna vestigia di umanità, sembrano semmai demoni che non godono semplicemente per il male che arrecano ma godono perché essi sono il “male” che si manifesta e che vive colpendo chiunque, a partire da se stessi. Non hanno nessun interesse verso le loro vittime, non sono mossi da odio personale o politico verso loro, semplicemente hanno bisogno di vittime perché il “male” non può manifestarsi senza queste, e se stessi sono vittime felici delle proprie depravazioni inenarrabili. Al “male” interessa esclusivamente l’atto maligno, ed è questo un atto che vive il suo limite proprio nella Storia: «noi vorremmo uccidervi per l’eternità» dice ad un certo punto uno dei quattro carnefici. Il “male” tende quindi ad eternarsi, a divenire principio fuori dal tempo.

C’è una sorta di forza centripeta che muove la struttura del film e che, come in un gorgo, aumenta di intensità proporzionalmente al suo procedere verso l’atto finale che tutto ingoia. All’inizio c’è la Storia ma è solo un pretesto: si parte da immagini riconducibili al fascismo e alla guerra, i rastrellamenti, Salò, Marzabotto, e si finisce con un’apoteosi maligna che è fuori da qualunque riferimento storico, è l’inferno. Il Pasolini di Salò non è storico né sociologo, è semmai un uomo in preda ad una visione a carattere apocalittico. Ma, come San Giovanni, Pasolini è un artista, non un passivo “megafono di Dio”. La sua è un’estasi che controlla razionalmente e che riporta in scena con la precisione di un orologiaio. Lavora su tempi dilatati e silenti, unisce inquadrature rigidamente simmetriche a un movimento spiraliforme che tende a chiudersi in sé, a svanire nell’implosione. A tratti sembra richiamarsi a Kubrick, a quella sua tragica certezza sull’unione indissolubile tra il manifestarsi della razionalità e del “male”. Ma poi l’estasi riprende il sopravvento e dalle geometrie di Kubrick si passa al caos di Bosh e del suo Giudizio universale riecheggiante nelle torture finali. Ma impressiona la glacialità delle ultime scene: un silenzio indifferente che mette i brividi e che ancor più di Bosh mi rammenta l’ineluttabile pessimismo della Flagellazione di Piero della Francesca.

Ci si può anche leggere – ed è stato spesso fatto – un’allegoria sul potere. I quattro “signori”, l’Eccellenza, il Presidente, il Monsignore, il Duca, rappresentano poteri sociali e politici, quello giudiziario, quello economico, quello religioso e quello dell’aristocrazia. Salò diviene quindi l’immagine di una degenerazione del potere – ma la cosa mi appare semplicistica – o più probabilmente la lucida constatazione che il “potere” è, come il “male”, fine a se stesso («la sola vera anarchia è quella del potere» afferma il Duca): il potere non è niente più che un insaziabile appetito. Non esiste conseguentemente rapporto sociale che non sia rapporto di potere e che – questo sì è molto pasoliniano – non risponda alla logica della complicità tra vittima e carnefice. Ricordo bene di aver letto in un passo di Petrolio una frase che pressappoco diceva: «non c’è disegno di carnefice che non sia suggerito dallo sguardo della vittima». Se poniamo attenzione al fatto che Petrolio e Salò risalgono all’incirca agli stessi anni – tra il ’73 e il ’75 il romanzo, mentre il film data 1975 – probabilmente sveliamo una chiave di lettura interna – intima e inconscia – all’autore stesso. Ancora Petrolio: «il Possesso è un Male, anche per definizione, è il Male: quindi l’essere posseduti è ciò che è più lontano dal Male, o meglio, è l’unica esperienza possibile del Bene…» [appunto 65, p. 319]. Salò, quindi, sembra risolversi intorno a un dualismo tra la carne che mangia (possiede) e la carne che viene mangiata (viene posseduta). Omosessualità, sodomia, il “male” del carnefice che possiede e il “bene” della vittima che si fa possedere… temi che girano intorno alle ultime opere di Pasolini, fantasmi che sembrano non dargli pace, ancora “buchi neri” che attraggono ma non svelano nulla. I fantasmi tormentano Pasolini, come suggerisce anche il suo amico Alberto Arbasino in una intervista sul quotidiano “La Repubblica” del 21 ottobre 2005: a una domanda riguardo la sua opinione su Salò, tra le altre cose Arbasino parla di un film angosciante, ma «l’angoscia che quel film mi trasmetteva non era tanto per le immagini che vedevo, quanto perché un amico si era arrovellato su quei fantasmi». E quali erano i fantasmi su cui si arrovellava il Poeta? L’esistenza del male? Le torture? Le violenze? Le ingiustizie? Più probabilmente, parafrasando il film di Jonathan Demme, si trattava de “l’innocenza del silenzio”, il silenzio rassegnato delle vittime, non di chi possiede ma di chi viene posseduto. Il suo silenzio.

Nonostante ciò, l’esegesi del film ha sempre trascurato la poetica pasoliniana – intima, e quindi incomprensibile – per una lettura ideologica semplice e a tutti comprensibile. Inquadrare Salò nella “visione antropologica” pasoliniana, quella per intenderci degli Scritti corsari, non è difficile né errato, in un certo senso direi che è scontato. Che Salò rappresenti il vertice estremo della degenerazione del potere può essere suggerito anche dal modo di porsi e del sesso e della violenza: non c’è alcuna sorta di piacere, non c’è motivazione contingente, c’è solo fame e voracità, metafore dell’avidità del potere che si ciba dei corpi altrui, o anche metafora dell’avidità consumista.
Ma i “falli” smisurati e le sodomizzazioni che sovrabbondano in Salò come in Petrolio sfuggono alle interpretazioni politiche e sociologiche. Eppure Pasolini è stato anche questo, un esteta dell’atto sodomitico. Ed è in questa estetica ossessivamente riprodotta che risiedono i suoi fantasmi, che emerge confuso il senso del “bene” e del “male”. Dice Blangis (il Duca): «Il gesto sodomitico è il più assoluto per quanto contiene di mortale per la specie umana; il più ambiguo, per quanto accetta, allo scopo di trasgredirle, le norme sociali; è infine il più scandaloso, perché pur essendo il simulacro dell’atto generativo, ne è la totale derisione». Ecco un esempio di come l’uomo cerca “cultura” all’interno dei propri istinti naturali.
La mia impressione su Salò – come su Petrolio – è che queste opere nascondino un tentativo di mettere a fuoco quei fantasmi. Sembra come se Pasolini giri intorno ai propri “buchi neri” nel cercare di conoscerli a fondo, dargli ordine, risolverli. Ma non ci riesce, e l’intelligibilità delle due opere diviene necessariamente parziale ed insoddisfacente. D’altronde un’opera d’arte non è un rebus: va ascoltata, non “decifrata”. L’idea di Salò come film metafora sul potere ha una sua verità ma Salò è sempre qualcosa di più perché è Pasolini a essere qualcosa di più. Non sono mai stato attratto dall’idea che esista una razionalità assoluta, estranea alla dimensione intimamente umana di chi la pratica; le grandi teorie sociali portano sempre il marchio dell’individualità e dell’intimità e di chi le crea e di chi le sposa. Allora il Pasolini sociologo (e l’artista Pasolini) non può essere disgiunto dall’uomo Pasolini e dalla sua “vita interiore”.

Torniamo a Petrolio, vero scrigno dell’interiorità pasoliniana (dalla quarta di copertina dell’edizione Einaudi: «…un libro […] che è una specie di ‘summa’ di tutte le mie esperienze, di tutte le mie memorie»). L’appunto 67 intitolato Il fascino del fascismo pone con evidenza equivalenze e contrapposizioni illuminanti. Si parte dall’enunciazione di una sorta di motore esistenziale dell’umanità: il “sentimento del passato”, il tentativo (tragico perché inesorabilmente fallace) di ricostruire, ripercorrere, immaginare, interpretare la vita dei padri e il loro passato. La continuità del passato invade tutta la vita presente: «La stabilizzazione del Presente, le Istituzioni e il Potere che le difende, si fondano su questo sentimento del Passato, come mistero da rivivere: se noi non ci illudessimo di rifare le stesse esperienze esistenziali dei padri, saremmo presi da un’angoscia intollerabile, perderemmo il senso di noi […]. Il Fascismo esprime in modo primitivo e elementare tutto questo: perciò dà il primo posto alla filosofia irrazionale e all’azione […]. Il Fascismo è l’ideologia dei potenti, la rivoluzione comunista è l’ideologia degli impotenti. […] I potenti sono anche carnefici, gli impotenti sono anche vittime» [p. 263, miei i corsivi].

E poche righe dopo: «Nel potente non c’è ambiguità; e così in coloro che decidono di obbedire al potente […]. Le vittime sono invece profondamente ambigue: la loro decisione di rifiutare il potere che hanno a portata di mano, per crearne un altro in un domani incerto, improbabile, spesso idealizzato e utopistico, non può non insospettire. Si può condannare il potente […] e si possono condannare i giovani che […] decidono di stare con i potenti […] in tutto questo non c’è niente che insospettisca […]. Anzi, è difficile pensare come mai a qualcuno possa venire in mente di fare la scelta contraria…» [pp. 263-264].

Concludo il “saccheggio” a Petrolio con l’appunto 126 intitolato Manifestazione fascista (seguito). Ora è Carlo Valletti (il protagonista dell’incompiuto romanzo) che riflette osservando al centro di Torino lo svolgersi di un corteo fascista: la decadenza antropologica che dà forma allo sguardo del Pasolini sociologo non risparmia nemmeno i nuovi fascisti: «Le persone che passavano davanti a Carlo erano dei miseri cittadini ormai presi nell’orbita dell’angoscia del benessere. […] Facevano pena, e niente è meno afrodisiaco della pena […]. Erano dei piccoli borghesi senza destino, messi ai margini della storia del mondo, nel momento stesso in cui venivano omologati a tutti gli altri» [p.503]. E poche righe dopo: «I veri fascisti erano ora in realtà gli antifascisti al potere. Il potente era Carlo…».

In definitiva, mi sembra che Petrolio chiarisca Salò in questi termini antitetici:

  • da un lato abbiamo male = potere = fascismo = carnefice = possedere sessualmente
  • e dall’altro abbiamo bene = impotenza = comunismo = vittima = essere posseduti sessualmente

Insomma, è l’essenza stessa del potere – qualunque potere – ad essere fascista, e tale potere è sempre ontologicamente “male”.
Mi sembra una chiave di lettura utile per orientarsi meglio nel labirinto pasoliniano ma, come ho detto prima, lungi da me l’idea di “decifrare” Pasolini e le sue opere in termini di rebus. La struttura oppositiva delineata si limita a dare indicazioni, coordinate generali, tuttavia in nessun modo può essere esaustiva né della poetica dell’Autore, né di Salò, né di Petrolio. Salò stesso, a ben pensare, la contraddice: i fascisti carnefici non si dedicano solo al “possedere” (sessualmente) ma a loro volta si fanno possedere con gioia. Forse la contraddizione rientra se si pensa che il farsi possedere dei quattro “signori” non è una passiva e silenziosa accettazione di una prevaricazione altrui bensì volontaria scelta. Probabilmente in questo caso non conta più la distinzione tra atto passivo e attivo, conta l’opzione intenzionale per il gesto sodomitico che – ripeto la citazione del Duca Blangis già prodotta sopra – «…è il più assoluto per quanto contiene di mortale per la specie umana; il più ambiguo, per quanto accetta, allo scopo di trasgredirle, le norme sociali; è infine il più scandaloso, perché pur essendo il simulacro dell’atto generativo, ne è la totale derisione». La sodomia quindi è “male” perché deride la vita e la mortifica mentre l’accettare in silenzio, da vittima rassegnata, la prepotenza della possessione è, per Pasolini, il “bene”, e si tratta di un “bene” a forte connotazione politica e rivoluzionaria. Ma il “male”, nell’Italia dei primi anni ’70, ha trionfato inesorabilmente sul “bene” dell’utopia comunista e Pasolini ne prende nota nell’osservare l’umanità che vive nelle nuove periferie: «…quella gente non opponeva più la sua cultura a quella dei padroni, quella gente non conosceva più la santità della rassegnazione, quella gente non conosceva più la silenziosa volontà della rivoluzione» [Petrolio, appunto 124, p. 497, corsivi dell’Autore].

L’omologazione televisiva cambiava la gente e faceva morire le grandi utopie rivoluzionarie: quella fascista, “virile ed ascetica” (vedi appunto 126, p. 503), e quella comunista, forte nella misura della sua rassegnazione e del suo silenzio. Ma se il fascismo moriva come utopia rivoluzionaria, esso permaneva ineliminabile nell’esistenza maligna del Potere.

(articolo già pubblicato in una prima versione in Amnesia Vivace n° 16, dicembre 2005)

intervista su Salò a Pasolini

link a XXX PASOLINI spettacolo teatrale

L’inganno della Scrittura Creativa

Snoopy scrittore (Peanuts, Schulz)
Snoopy scrittore (Peanuts, Schulz)

Il concetto di Scrittura Creativa non l’ho mai amato molto. Ovvio che la scrittura lo sia, così come lo è qualsiasi altra espressione artistica, ma la comunicazione ultimamente inflazionata di questo concetto dà volontariamente spazio a vistosi fraintendimenti: creativa come libera, creativa come ludica, creativa come rilassante; creativa, insomma, come lo è uno spazio di alterità rispetto a un mondo ingabbiato e stressato tra norme, doveri e regole. Non è mai così, qualunque scrittore si accorge che lo spazio di creatività nel proprio lavoro è ridotto a un impulso iniziale (che a ben guardare è anch’esso figlio più della necessità che della libertà), e che l’opera che sta creando, dopo solo poche pagine, assume una personalità e una progettualità talmente inflessibili e tiranne da annullare la volontà del creatore stravolgendola nell’asservimento completo. Allora nulla diventa più doveroso e metodico della tua scrittura e scopri che non ha più – né ha mai avuto – la funzione di divertirti o rilassarti ma solo quella di servire lei, la tua opera, che non è più tua, non è mai stata tua, ma si appartiene, appartiene a se stessa, e vuole essere soddisfatta. Ogni termine che userai, ogni locuzione, ogni verbo saranno studiati e soppesati per lei, perché possa nascere e svilupparsi senza tradire la propria personalità, il suo (e tuo) progetto interiore. Ed essendo sempre lungo il parto di un’opera, settimane su settimane, mesi, forse anni, arriva il giorno in cui ti accorgi che sei cambiato da quando avevi concepito quel progetto, sei un altro, la tua sensibilità e i tuoi desideri sono mutati, e quest’altro che ora sei divenuto vorresti esprimerlo nella tua scrittura ma non puoi, non ancora, almeno non con quell’opera che ancora non ha visto la luce. Devi rimanerle fedele, sempre, comunque, perché lei ha la priorità su di te. C’è tanta genitorialità in questo mestiere, altro che creatività.

Aldo Morto, tragedia di Daniele Timpano

Daniele Timpano
Daniele Timpano

«Va be’. Niente di importante», Aldo Moro è stato ammazzato 35 anni fa. 1978. «Cose che capitavano negli anni settanta». Un’altra epoca. Un altro mondo. Niente di importante… oggi. Allora era tutto in bianco e nero, le 16 sfumature di grigio percepibili avvolgevano i palazzi della politica, come una densa nebbia. Forse si sparava per questo,  per illuminare quella cappa di mistero e foschia che era la politica italiana, per squarciare quel velo di nebbia oltre al quale distinguevi appena vaghe idee di personaggi vecchi e ingobbiti, liturgie secolari ripetersi con l’incedere stanco di un pachiderma, inconfessabili vergogne nazionali negate fino alla morte. La morte, appunto, di Aldo e di tanti altri. Allora, in un’Italia benestante si rincorrevano le incognite della rivoluzione, oggi in un’Italia povera si rincorrono le sicurezze della restaurazione. Un’altra epoca, un altro mondo.

C’è qualcosa di irreale nella politica di questi anni che celebra il martirio di Moro. In quelle facce fintamente addolorate, in quelle corone di fiori bugiardi deposte con residui di energia costantemente più deboli, in tutta quell’ipocrisia istituzionale comprendi la tirannia della forma. Tiranna è la forma perché urla più di ogni contenuto. Tiranna è la forma nella sua disgustosa assertività. Rivoluzionario è colui che rompe la forma e apre spazi di possibilità. L’autore-regista-attore Daniele Timpano ha scritto un monologo intitolato Aldo Morto e l’ha portato in scena in diverse serate sparse per l’Italia. Poi il 16 marzo del 2013 è entrato in una sala del Teatro dell’Orologio di Roma e da lì uscirà l’8 maggio prossimo. 54 giorni di repliche e 54 giorni di autoreclusione in una celletta di 3 metri per 1 ricavata nella stessa sala, alle spalle del fondale. Se è vecchia e noiosa la cerimonia istituzionale in ricordo di Moro che possibilità ha lo spettacolo di Timpano di non replicare la medesima vecchia noia? Una noia profana, contrapposta a quella sacra delle istituzioni ma pur sempre noia. Noia di cose di un’altra epoca, di un altro mondo. Noia perché ci è venuto a noia quel fatto (incomprensibile come tutti i fatti italiani) che ha generato fiumi di analisi e discorsi e parole e accuse e difese e libri e teatro e film…

Ma Daniele Timpano non è uno storico e non ha verità storiche da farci bere. Daniele Timpano non è un politico e non ci propina né morali né ideologie. Daniele Timpano non è nemmeno un giornalista d’inchiesta che svela misteri impensabili. Daniele, tra l’altro, nel 1978 aveva solo 4 anni e di tutti quei fatti – soprattutto di quelle atmosfere – non ricorda nulla. Sì, certo, si documenta, si documenta come un topo da biblioteca ma nessuno pensi che questo suo one-man show sia riconducibile al genere “teatro di narrazione”. In definitiva Timpano è un artista puro, merce rarissima a teatro, e il suo Aldo Morto è uno straordinario lavoro sulla forma narrativa, teatrale e non solo.

Più vecchio di Timpano, io quegli anni e quei fatti me li ricordo abbastanza. Non meno documentato di Timpano ho letto tesi e antitesi sull’argomento. Ecco perché ringrazio Timpano di non aver ceduto alla presunzione di “dirci la sua”, di ammalarsi di tuttologia come molti bravi odierni italiani; nessun sovrappiù di intelligenza sulla vicenda Moro ho avuto dalla visione di questo spettacolo e tuttavia mi è parsa netta e impietosa la pennellata del pittore Timpano nell’inchiodare sulla tela del palcoscenico le forme umane di quella storia, di quegli anni e degli anni a venire. Qui interviene la personale verità artistica dell’autore, una verità disillusa, forse nichilista, un mostruoso miscuglio di ironico distacco e pietosa compartecipazione. Emerge il ridicolo e a volte la disumanità dei personaggi narrati, eppure non ho percepito volontà di condanna, il Timpano giudice e moralista non si è manifestato. Ritratti come grotteschi fumetti,  i protagonisti di quella straziante vicenda italiana si muovono come automi privi di anima, sembrano danzare un macabro gioco di ruolo intorno al palo-totem Moro, e grazie a tale distacco ne cogli le odiose convenzioni, le formalità, le falsità con cui inscenano i loro rituali ipocriti, in qualche modo ne cogli la “necessità” (ananke) e quindi la tragedia. Come se fare a brandelli un evento storico, farne coriandoli e gettarli in aria a caso, affidarli al caso nella loro ricaduta a terra, rendesse il senso della Storia più della storia stessa.

Timpano sembra ripercorrere a tratti l’operazione cubista di sezionamento e ricreazione dell’immagine. Come in un quadro cubista lo sguardo frontale del pubblico abbraccia il soggetto da più angolazioni e la coerenza si perde da vicino e si riacquista da lontano. Ma ogni possibilità di partecipazione emotiva è negata, nonché è negato il tentativo stesso di giungere ad una sintesi in termini di verità storica o politica.  Si affida a salti temporali, improvvise irruzioni autobiografiche, scomposizione e disarticolazione delle convenzioni narrative, tributi estetizzanti ai piaceri del ritmo e della bella e ardita letteratura (il fantastico finale a mo’ di martirologio), calca sull’iperbole senza tradire la verosimiglianza, non è mai credibile in quel che dice, non vuole essere credibile, frulla idee, immagini, fatti, parole, rendendo testimonianza alla sensibilità artistica e comunicativa della nostra epoca. La contemporaneità della sua estetica toglie polvere e ragnatele al teatro italiano e gli dona vita come pochi in Italia sanno fare. 

Aldo Morto è uno spettacolo che ci dice più sulla nostra epoca di quanto dica dell’altra, ormai andata e irraggiungibile. Quella era l’epoca delle grandi narrazioni, la nostra si presenta sempre più come quella delle piccole confusioni. I fatti si dissolvono e si confondono, le verità sembrano imprendibili e cangianti, come farfalle che si fanno beffe del retino che le insegue e che le vorrebbe ingabbiare. La sfida tragica tra l’uomo e la verità sembrano porsi come il vero tema di questo spettacolo la cui visione lascia in retrogusto una rappresentazione dell’umano tangente le dimensioni del mostruoso.

Poi il pubblico esce e l’attore torna nella sua cella di 3 metri per 1, torna alla sua reclusione, accende la webcam e si mette in streaming, si dà in pasto alle comunità virtuali, facebook, twitter, you tube, blog vari. Reclusione e streaming, isolamento e trasparenza, scomparsa e perenne presenza, tutti i poli su cui gioca la nostra contemporaneità.

Addio a Roma. Recensione al libro di Sandra Petrignani

Addio a Roma, di Sandra Petrignani, Neri Pozza Edizioni. La donna ritratta in copertina è Palma Bucarelli
Addio a Roma, di Sandra Petrignani, Neri Pozza Edizioni. La donna ritratta in copertina è Palma Bucarelli

Addio a Roma, un saluto che oggi mi appare augurio luminoso, appena sopra l’orizzonte illuminato d’alba, a caratteri cubitali. Ma poi è solo un titolo di un libro. Uno slogan, una promessa per il futuro, una cronaca di quel che è stato, un titolo di un libro, un distacco, un’inizio e quindi  una fine, o un fine, una pubblicità. Tutti quei pittori per i quali sporcare la tela bianca è darle vita, fiorirla di colori, e poi gli scrittori tristi, sempre incatenati alle convenienze del senso. Roma nei ’50, nei ’60, nei primi ’70, stesso letame di oggi, ma più fertile, genitore di fiori, merda d’artista. Più sampietrini, meno asfalto, più nobiltà nera, nessuna Smart, ugualmente ministeriale, clericale, mafiosetta, genuinamente puritana mentre oggi è ipocritamente libertaria. In quei trent’anni nasce la Roma che oggi è ormai senile, o forse già morta, già cadavere privo d’odore. Una Roma ancora giovane, forte, vitale e ottimista, una Roma che – chissà perché? – me la raffiguro con la faccia sbruffona di Renato Salvatori in canottiera e con i bicipiti bene in mostra. In quella Roma accade che un breve e singolare rinascimento, tutto sommato ancora poco indagato, si innesta in un tessuto sociale post bellico, un melting pot tutto italiano che dello Stivale amplifica vizi e virtù. I vizi si sono tramandati sino ad oggi, fortificati direi. Le virtù scomparse nel deserto odierno. «Coraggio, il meglio è passato» dice il geniale Flaiano, e allora resta lo stupore sul come e perché questo paesone di estrema provincia sia stato per una manciata d’anni il classico ombelico del mondo.

Il libro si apre nell’anno 1952, sul set di Vacanze Romane, e si chiude nel 1975 con l’assassinio di Pasolini. Dalla finzione di allegre vacanze alla realtà dell’omicidio di un poeta, che ancor più di tanti altri eventi degli anni di piombo chiude il sogno italiano di una densa, profonda, matura democrazia. In quasi cinque lustri Roma ispira, ospita e nutre il meglio della cultura e dell’arte italiana e internazionale, ed è probabile che non ne riceva nulla di sostanziale in cambio, altrimenti non si spiegherebbe la successiva decadenza. Se c’è una immagine che mi rimane dalla lettura di questo impressionante gotha intellettuale che sciama tra Fontana di Trevi e Piazza del Popolo, tra Trinità dei Monti e Trastevere, è quella delle cavallette, nonché l’idea che una città – anche una città eterna – non ha di fronte alla comunità artistica un ruolo differente da quello che riveste il locale del momento, quello trendy, quello che fa tendenza: quando la moda cambia si cambia locale, e le cavallette se ne vanno, nell’indifferenza – questa sì eterna – delle rovine imperiali e delle chiese barocche. Ma forse questo è nello specifico DNA dell’Urbe, come suggerisce una citazione di Corrado Alvaro: «Ci si lega a questa città per nulla affettuosa, per nulla cordiale, che è di tutti e di nessuno, che ci tiene ospiti anche se ci stiamo tutta la vita e resta sempre quella città indifferente cui approdammo impauriti nella prima giovinezza. Nessun aspetto di essa è familiare e intanto la vita italiana vi si trapianta con tutti i suoi caratteri.» [pg. 99-100].

Per il resto un testo interessante, leggero e godibile, forse con troppi nomi e personaggi per lasciarti davvero incollato alle pagine, né storico-critico in senso stretto né romanzato (per quanto in parte lo sia), cronachistico direi, dove l’enorme quantità di informazioni è gestita con uno sguardo dall’alto, che distingue i vari gruppi più delle persone, alternato ad improvvise e dettagliate zoommate nella quotidianità di alcuni singoli, Palma Bucarelli (storica direttrice della GNAM), la coppia Moravia-Morante, la successiva coppia Moravia-Maraini, e poi Calvino, Pasolini, Fellini, Flaiano, Cristina Campo e Elémire Zolla, Goffredo Parise e Giosetta Fioroni, Natalia Ginzburg, Renato Guttuso, Carlo Levi, Alberto Arbasino,  Luchino Visconti, Giorgio Bassani, Adriano Olivetti. Una quotidianità che è aneddotica e a volte diventa a tutti gli effetti gossip, ma gossip benevolo e divertito, quello che si usa verso i propri beniamini, privo di accanimento, inopportunità, mancanza di rispetto. Interessanti anche le pagine sulla nascita di eventi e movimenti artistici, intellettuali o di costume ormai entrati nel mito, le origini del Premio Strega, il Gruppo Origine (Burri tra gli altri), la Dolce Vita, la scuola di Piazza del Popolo (Schifano, Festa, Angeli, Fioroni), la nascita dell’Espresso (Benedetti e Scalfari), la fondazione dell’AIPA (Associazione Italiana di Psicologia Analitica), il Gruppo ’63 (Eco e Arbasino), la prima sperimentazione teatrale.

Maggior simpatia va ai pittori, più pazzi, più tormentati, più squattrinati di tutti, vere rock star ante litteram. Sono probabilmente loro, con le loro storie di «ricchezza, di frustrazioni, invidie, depressioni e di improvvisi successi; ma poi il finale è un nuovo ribaltamento, autodistruzione, malattie incurabili, suicidi, incidenti.» [pg. 26], sono loro a recuperare la narrazione verso una realtà triste, a volte tragica (colpiscono le figure di Francesco Lo Savio, di Piero Manzoni, di Pino Pascali), ma almeno riconoscibile, una realtà la cui assenza avrebbe lasciato un retrogusto di finzione al tutto, un “sei bravo, hai talento, quindi ottieni successo e una vita felice” troppo favolistico per risultare credibile. Troppo favolistico o semplicemente testimonianza di un’epoca unica e irripetibile, distante anni luce dalla nostra? Questo libro non lo chiarisce a fondo, non ci dice molto sulle difficoltà per emergere, sui problemi economici, sulle lusinghe del potere e del successo, sulle inevitabili invidie, rivalità, delusioni, sconfitte, amarezze, su un sistema che t’umilia e ti sfrutta, su una quotidianità che ti distrae. Ci mostra questi grandi intellettuali, scrittori soprattutto, discutere d’arte e di letteratura, litigare d’arte e di letteratura, vivere e morire completamente immersi nell’arte e nella letteratura. Un’adesione quasi monacale alla propria vocazione che leggendo pensi non possa essere vera, e se invece fu vera allora mi provoca tanta invidia, e tanta pena per i nostri anni. L’immagine dell’ingegner Gadda morente nel suo letto con i suoi amici che lo vegliavano a turno leggendogli «l’amatissimo I Promessi Sposi» [pg. 316] è impressionante.

Poi il libro finisce, lo chiudi, vai a fare una passeggiata al centro, ti guardi intorno e ti chiedi «ma davvero è successo tutto qua?».

Tarantino s-catenato

Locandina Django Unchained
Locandina Django Unchained

È comprensibile la perplessità – o addirittura il rifiuto – di certa critica o di tanti cinefili di fronte ai prodotti di Tarantino. Chiunque deleghi al cinema un (inconfessabile) ruolo di scienza umanistica che scandagli la complessità dell’essere umano, del suo stare nella Storia, del suo sognare l’eterno e risvegliarsi mortale, chiunque pensi che il cinema sia uno strumento di conoscenza e intellegibilità, un moderno maître à penser che faccia luce sull’umano e sul sociale e sul culturale… ecco, chiunque cerchi nel cinema una penetrante saggistica, possibilmente resa leggera nei tempi e nelle forme espositive, non potrà non guardare la filmografia tarantiniana con la sufficienza che si dà ad un banale sottoprodotto di cultura popolare, il cui ambito si esaurisce all’interno del concetto di intrattenimento.

Non sarò io a tentare di dimostrare il contrario. Posso, però, mettere meglio a fuoco proprio il concetto di “intrattenimento” e il suo derivato di “evasione”. Se evasione deve essere, allora si evade da uno stato che non ci piace, non ci soddisfa, si evade verso qualcosa che ora ci manca. La nostra è un’epoca dove abbiamo dovuto progressivamente perdere ogni fiducia nell’utopia di una costruzione razionale della società, che soddisfi ogni nostro bisogno, che ci curi e ci difenda. Che ci resta, dunque, se non il gesto individuale, quello eroico, quello che ci indica come salvarci, come uscirne? È un’antropologia scarnificata, ridotta all’osso, dove le sovrastrutture borghesi non hanno casa, dove i sentimenti in campo sono primordiali, difendere la propria vita, quella dei propri cari, oppure vendicarsi, uccidere il male che c’ha ferito, fare scorrere copioso il sangue del cattivo. Se c’è un “contenuto” che attira in Tarantino mi sembra sia questo. È, appunto, cultura “popolare”, dove l’accezione di popolare rimanda a massa, al panem et circenses dei romani. Tarantino ci dà i “giochi”.

Sì, ma lo fa con nessun intento politico (tantomeno pedagogico). Lo fa con l’amore insindacabile del collezionista verso i propri oggetti, il cinema di genere, i polizieschi, l’horror splatter, i western (possibilmente “spaghetti”), la cinematografia giapponese e coreana. Lo fa con quella misteriosa passione verso l’anacronistico e il modernariato, che in ultima analisi è amore per la Storia. Amore, non simbiosi, non nostalgia reazionaria. Le massicce dosi di ironia con cui impasta i suoi film bilanciano la mera e acritica passione, sottraendolo così da un’irrelata adesione a tempi e forme passate per portarlo verso un lucido distacco da storiografo. Come il suo Django, Tarantino si libera dalle catene della Storia, si s-catena (un-chained), e lo scatenarsi dei suoi eroi di celluloide è in proporzione anche il suo svincolarsi da loro. Il citazionismo di Tarantino, quindi, è una forma di storiografia del cinema, è il tracciato che narra per segni come eravamo e cosa siamo diventati, è lo sguardo della madre che riconosce nei tratti somatici del figlio l’appartenenza alla propria genia, il naso del nonno, la bocca del padre, e lo fa col sorriso sulle labbra, un po’ amore un po’ sbeffeggio.

Il suo cinema è un discorso interno al cinema. In questo senso è puramente formale. Una forma che si esplica in una (parziale) storia del cinema “cinematografizzata” ma anche, e soprattutto, in una consapevole cura estetica che trasforma un prodotto industriale usa e getta in un manufatto artistico. Tarantino è espressionista, carica i colori, le vicende, le passioni, le azioni, va in direzione del fumetto curando tuttavia dialoghi, riprese, fotografia, montaggio come solo un grande maestro sa fare. E in questo suo riformulare sottoprodotti dell’industria cinematografica di genere in direzione di un discorso estetico, e quindi innalzarli da prodotto industriale a prodotto artistico, sembra ripercorrere 60 anni dopo i sentieri della pop-art.

Il suo ultimo Django Unchained non aggiunge nulla a questo percorso, semmai lo ripete sino a rasentare il manierismo. Ed è questo il suo unico limite.

Quel che resta di Beckett

un giovanissimo Samuel Beckett

Nel ’95 ho “incontrato” Samuel Beckett. Amore a prima vista, una passione che ha segnato gran parte dei miei primi testi e che ancora oggi mi condiziona nel bene e nel male. Il mio “maestro” di teatro di allora, Piero Patino (fu il primo direttore artistico del Festival di Santarcangelo), di fronte alla mia nuova scoperta ridacchiava con sufficienza dicendomi cose tipo «Beckett è un grande ma la maggior parte degli autori che lo imita lo fraintende e lo tradisce; lo rendono noioso e credono che nel teatro dell’assurdo qualunque frase si scriva, o si dica in scena, vada bene, ma non è così». Già, non è così. Come è, allora?

A circa 60 anni dalla prima rappresentazione di Aspettando Godot (1953), e a 55 anni dalla prima rappresentazione di Finale di Partita (1957), è ancora abbastanza frequente assistere a compagnie che si cimentano con la lezione del Maestro, producendo drammaturgie che ne vorrebbero ricalcare l’immaginario e la poetica. Per quanto mi riguarda, come spettatore, il risultato mi lascia spesso perplesso, a volte più e a volte meno, e mi tornano in mente le parole di Patino: «credono che nel teatro dell’assurdo qualunque frase si scriva, o si dica in scena, vada bene».

Che il teatro di Beckett sia annoverabile all’interno di quel controverso genere universalmente definito Teatro dell’Assurdo è opinione diffusa e accettata a partire dal famoso saggio di Martin Esslin del 1961, ma ogni categoria storica è sempre in parte grossolana e chiunque si sia impegnato in una comparazione tra i due padri putativi del genere, Beckett, appunto, e Ionesco, avrà indubbiamente notato più la loro distanza che la vicinanza.
Semplificando, potrei dire che Beckett è fondamentalmente un tragico laddove Ionesco è commediografo. Potrei dire anche che Beckett è un filosofo, Ionesco un cronista. Che Beckett utilizza l’assurdo come metafora esistenziale, Ionesco svela l’assurdo della nostra quotidianità. Che Beckett violenta il mezzo teatrale in direzione della stasi (antiteatrale) mentre Ionesco cavalca a suo geniale modo i consueti cliché teatrali. In ultima analisi, potrei dire che Beckett è “pesante” e Ionesco “leggero”. Ed è proprio la pesantezza di Beckett il problema della sua (in)attualità e della sua continua riproposizione sotto le coperte della “nuova” ed emergente drammaturgia.
Quella pesantezza, che nell’era di Beckett era storicamente/intellettualmente innovativa e teatralmente/formalmente armonica, oggi si fa sentire in tutta la sua “gravità”, tant’è che le odierne imitazioni beckettiane risultano quasi sempre inattuali, ovvero vecchie, e non comunicative, ovvero noiose.

Perché vecchie? Perché 60 anni dopo possiamo dire che il crudo ritratto della condizione umana schizzato da Beckett – quella condizione depauperata (Aspettando Godot), disabile e intrappolata (Finale di Partita), marcescente (Giorni Felici e L’ultimo nastro di Krapp) -, è stato ampiamente digerito e non ci fa più riflettere, non ci sorprende, al massimo ci intristisce. Non è più un fosco vaticinio ma un’insopportabile realtà quotidiana. Beckett è ormai un classico e, come vale per tutti i classici, o va fatto riposare con rispetto o, se proprio lo si vuole riesumare, occorre saperlo depurare di ciò che non serve più per poi attualizzarlo con profonda riflessione. Tutto sommato nella drammaturgia contemporanea mondiale, già a partire da Pinter, Beckett è stato intelligentemente “diluito” e attualizzato in variegate forme; riproporlo oggi ancora in una soluzione “100%” mi sembra davvero anacronistico.

Perché noiose? Perché il problema delle drammaturgie contemporanee di matrice beckettiana è che dopo cinque o dieci minuti hanno detto tutto quel che c’è da dire. I restanti 50 o 60 o più minuti sono solamente ripetizione, noiosa ed inutile ripetizione. Ma la ripetizione o, meglio, la reiterazione, in Beckett non è limite bensì struttura, è in parte la forza stessa della sua opera. Si tratta di una reiterazione circolare e spiraliforme che affascina per la sua natura ipnotica. È sorretta da una rigorosa regia narrativa che conduce il personaggio e lo spettatore per progressivi gradini verso il baratro, verso quel buco nero della condizione umana che l’irlandese pone al centro della sua riflessione. Il teatro di Beckett è musicale mentre la sua attuale riproposizione è generalmente cacofonica. La stasi e l’attesa beckettiane, che sono profondamente narrative, vengono confuse con l’assenza e l’inutilità della narrazione; quei personaggi privi di un futuro che popolano gli scenari beckettiani divengono anti-personaggi indistinguibili e intercambiabili. Infine, quel linguaggio apparentemente anarchico e illogico che in Beckett non è mai una vaga e generica morte del linguaggio e/o della sua facoltà narrativa, semmai è morte della sua capacità redentiva, nei suoi seguaci contemporanei diviene troppe volte un agglomerato di parole in libertà dove piangere o ridere, pregare o dire oscenità, sono tutte valide alternative per un minestrone anti-narrativo che altro non è se non il prodotto di un clamoroso fraintendimento, in altre parole un credere che «…nel teatro dell’assurdo qualunque frase si scriva, o si dica in scena, vada bene».