Quando scompare una generazione

Buona parte di quelli della mia generazione – e intendo chi qualche anno più e qualche anno meno veleggia intorno alla boa dei 50 -, sta purtroppo vivendo sulla propria pelle un noto fenomeno che non desta alcuno stupore se non in chi, appunto, lo vive in prima persona. Parlo della progressiva scomparsa dei propri genitori. Al di là dell’ovvio doloroso sconvolgimento emozionale e sentimentale che il fatto provoca a chi lo esperisce, restano delle considerazioni (non meno dolorose) che ci coinvolgono proprio in quanto generazione anagrafica posta nel fluire sociale. Ho sempre pensato ai morti come agli “sconfitti della vita” e va da sé che tutti quanti passeremo per questa sconfitta, ma la sconfitta/scomparsa di una generazione intera pone un sovrappiù di tristezza, di pietas, nonché di responsabilità per chi resta.

Nel caso specifico, gli ottantenni di oggi sono nati intorno agli anni trenta, hanno vissuto nel pieno delle loro forze soprattutto il dopoguerra, la ricostruzione, il boom degli anni 50 e 60. Partendo da zero, e parlo di uno “zero” di cui non avevano particolari colpe, hanno vissuto al seguito di un solo e chiaro obiettivo, ricostruire e crescere (quasi un biblico “crescete e moltiplicatevi”). L’abbondanza, per chi è partito dal nulla, non poteva non essere un valore positivo alieno da qualsiasi senso di colpa e probabilmente il mito della “crescita” – che oggi, in fase di profonda recessione, assume le sinistre vesti di un fantasma – ci deriva proprio da loro. Ma la crescita illimitata è svanita e la ancora recente immagine di mio padre, nel suo orto, tra le sue piante, mi ha sempre fatto pensare in ultima analisi ad un rifiuto per un mondo ormai a lui estraneo e non so dire se oggi mi faccia più tenerezza e pietà quel loro ingenuo ottimismo o il mio/nostro disincantato pessimismo.

Più in generale, una generazione che scompare porta con sé uno sguardo sul mondo unico e irripetibile, di fatto non trasmissibile, un tesoro di pensiero, sensibilità, paradigmi, che va via irrimediabilmente. Nel pieno dell’epoca della riproducibilità delle cose questa affermazione può apparire sbagliata, ma penso che nulla è davvero riproducibile e quel che resta, anche la semplice memoria, anche il “far vivere in noi i nostri genitori”, è sempre un falso simulacro, nella migliore delle ipotesi un’approssimazione. La responsabilità di non dimenticare, di non dimenticarli, di portare in noi e verso gli altri il loro insegnamento, resta pressante, quasi schiacciante, ma viaggia insieme alla sensazione che quel poco di memoria che li tiene in vita non dica tutto di loro, o non dica proprio niente, come se in realtà quel loro mondo noi non l’avessimo davvero mai conosciuto.

Infine, la morte dei nostri padri è anche una nostra morte, perlomeno di come siamo stati finora. Se è vero che è nello sguardo dell’altro, di chi ci conosce, anzi di chi ci riconosce (e chi ci ha riconosciuto più di nostra madre e nostro padre?), che risiede il nostro io, la nostra principale costruzione del sé, ecco che la sparizione definitiva di quello sguardo ci rende nudi, informi… e liberi, neo-nati al mondo, liberi di ricostruirci come vogliamo, di essere genitori di noi stessi.

L’arte nell’orrore

E’ nell’immagine quel che resta di inesplicabile. Sono passati 10 anni, tutto è chiaro o abbastanza chiaro (non mi convincono le tesi cospirazioniste) ma ciò che resta di inesplicabile nell’11 settembre sta tutto nell’immagine, o nella serie di immagini, quelle ritratte nelle foto, trasmesse nei video. Qualunque formato sia, l’immagine, le immagini, quelle che non ci stanchiamo di guardare, nascondono l’inesplicabile, ciò di cui si ha difficoltà a parlare, ciò che non si riesce a mettere a fuoco, ciò che ancora ci ammalia, ci incanta, ci prospetta un mistero (appunto) inesplicabile. L’aereo che penetra come un bisturi nel corpo della torre sud. E poi quei due giganti crollare. Sembra emettano barriti di morte e poi giù, dall’alto in basso, piano su piano in un effetto valanga, con un’eruzione di macerie e polvere.

Cosa ancora attrae in quelle immagini? La grandiosità di tutte le fasi dell’attentato, grandioso nel senso neutro di “grandezza” di tutti gli elementi in gioco, la grandezza dei boeing, quella dei grattacieli, l’alto numero delle persone uccise, l’ampiezza di quelle nubi dense di polvere e detriti. Ma anche l’impensabilità dell’attentato. Impensabile per una mente “normale”, pensabile per un genio del male. Ma poi ragioni e pensi che i geni del male non esistono, esistono le persone, e se allora ci sono state delle persone che hanno potuto concepire, organizzare, realizzare un tale crimine non puoi non pensare – ed è un pensiero che fa rabbrividire – che potenzialmente quella capacità impensabile e impossibile di fare del male appartiene a tutti, appartiene anche a me. E se ciò che viene fatto è “impensabile” perché è “impossibile” allora quando viene fatto è anche grandioso, e qui il termine abbandona i riferimenti quantitativi e matematici per tingersi di “vergognose” valutazioni estetiche. “Grandioso”, “spettacolare”, l’11 settembre è stato anche questo. Ed è in questa ammissione che si nasconde la vergogna, il senso di colpa.

C’è del comprensibile pudore nel ragionare sull’estetica di un atto che ha distrutto 3000 vite (e decine di migliaia nelle successive guerre) ma farlo, provare a farlo, provare a spiegare quell’inesplicabilità, non sminuisce in niente l’orrore e la gravità del fatto in sé. Gli stessi attentatori non possono non essere rimasti abbagliati dalla grandiosità di quel che avevano immaginato. La spettacolarità dell’11 settembre era un loro obiettivo, forse il principale perché simbolicamente (esteticamente) il più efficace, più dell’aleatorio numero di vittime che potevano ipotizzare. Guardare e riguardare quello schianto e quei crolli è come guardare affascinati la potenza di un vulcano in eruzione o l’invasività di uno tsunami, senza pensare alle migliaia di potenziali vittime di tali fenomeni. Ma lì è natura, solo natura, sua è la colpa. Qui c’è la mano dell’uomo che progetta e realizza e allora l’attentato, quel crudele e orribile attentato, rasenta pericolosamente i confini dell’arte. Karlheinz Stockhausen la definì “l’opera d’arte più grande mai esistita“. Una frase infelice, stupida ed offensiva in misura della sua inopportunità, ma non priva di senso e soprattutto non priva di coraggio, il coraggio di ammettere quanto siano labili e impalpabili nell’uomo i confini tra bellezza e orrore. Ed allora, credo, che è solo iniziando coraggiosamente ad ammettere l’esistenza di tale vacuità che possiamo, con etica, volontà e responsabilità, costruirli noi i confini netti, legare il bello al bene.

Il martirologio di Super Santos Silvio

Se fossi riuscito ad entrare, se avessi prenotato, se non avessero esaurito i biglietti, se, se, se, se i se si fossero realizzati ieri sera avrei assistito alla prima nazionale di ALDO MORTO, il nuovo spettacolo di Daniele Timpano. E stamattina mi sarei divertito a scriverne la recensione. Ma i se non si sono realizzati e quindi niente recensione. Però, già da molte settimane, ho letto in anteprima il testo, molto bello, molto coraggioso, molto maturo. In particolare il finale, dove Timpano si lancia in una fantasiosa, provocatoria, iperbolica, allucinata, sincopata, rapsodica narrazione del fallito martirio dello statista democristiano. Fallito, sì, perché Moro, da mite e ragionevole uomo politico, si trasforma nella fantasia di Timpano in Super Santos Aldo, un qualcosa a metà strada tra un santo altomedievale e un supereroe Marvel. I cattivi delle BR gli fanno di tutto, una tale quantità di cruente cattiverie che ne basterebbe un centesimo per uccidere qualunque normale essere umano ma lui no, lui si rialza sempre e torna a vivere. Lo incendiano, squartano, decapitano, affogano, cuociono, ma lui non muore, non muore mai. Infine i brigatisti “spossati ed esasperati”, lo liberano, lo lasciano vivere. Bello, efficace, ricco di arte, ricco di umanità, bravo Daniele.

Ma, come ho già detto, non ho visto lo spettacolo e dunque non ne parlerò oltre. Il fatto è che stamattina leggendo le prime pagine dei giornali, leggendo il nuovo aumento dello spread, leggendo delle dimissioni del consigliere tedesco della BCE che non vuole più aiuti (“gettati al vento”, secondo lui) della BCE all’Italia, leggendo della Marcegaglia che chiede al Governo di farsi da parte, e infine leggendo di Super Santos Silvio che afferma che non se ne andrà mai per il bene dell’Italia e che si inventa un impegno improrogabile per martedì prossimo a Bruxelles al fine di invocare il legittimo impedimento contro la richiesta di interrogatorio dei magistrati che seguono la vicenda Tarantini, leggendo questo minestrone psichedelico di brutte notizie, non ho potuto fare a meno di trasferire il martirologio del Moro di Timpano al Berlusconi vero.

Da diciassette anni a questa parte il nostro Presidente ne ha subite talmente tante che in un paese normale (brutta frase, se non sbaglio dalemiana, che tuttavia conserva la sua efficacia) ne sarebbero bastate un centesimo per farlo dimettere, schiacciato dalla vergogna, o dalla rabbia popolare. In un paese normale oppure in un uomo normale. Ma l’Italia non è un paese normale e il Presidente non è un uomo normale. Lui sembra stia per cedere eppure si rialza sempre. “Ci siamo, è finito”, e invece no, lui si rialza sempre. “Sta per morire”, no, ancora no, si rialza. Un po’ come il Peter Sellers della prima scena di Hollywood Party lui, il Presidente, continua a suonare la sua tromba, tra un rantolo e un altro, come un intercalare all’interno di una estenuante lunga infinita agonia.

Lui ha incarnato il più grande conflitto di interessi della storia delle democrazie occidentali, eppure è sempre lì. Ha subito processi per frode finanziaria, evasione fiscale, corruzione, ma è sempre lì. Ha avuto comprovate frequentazioni mafiose, ma resta lì. Si è esibito dinnanzi al mondo intero in un becero, volgare e ridicolo campionario di corna, cucù, barzellette, ma sempre lì sta. E gli scandali sessuali, escort, veline, squallidi procacciatori di prostitute… niente da fare, non si muove, resta lì, saldo e orgoglioso. Infine la crisi finanziaria, il fallimento dell’Italia, il nostro lavoro, i nostri soldi, la nostra vita. Servirà questo suicidio silente di un intero paese per mandarlo via o sopravviverà anche a questo? Ci sopravviverà a tutti? Resterà come l’unica rovina in piedi di un paese cancellato dallo tsunami economico e culturale?

Non so, non so più… dopo 17 anni perdo lucidità. Cos’ha di particolare quest’uomo per continuare a stare ancora al centro di tutto? Cosa abbiamo di particolare noi italiani che glielo permettiamo? Forse dovremmo fare come i brigatisti dell’Aldo Morto di Daniele Timpano, spossati ed esasperati dirgli “basta Presidente, noi non ce la facciamo più, ha vinto lei, faccia di noi tutto quel che vuole”.

Il respiro del postmoderno dentro la bara

Non mi convince tutto questo can can che da varie parti sentenzia la fine del c.d. postmoderno. Intanto perché non credo questa sia materia di filosofi o intellettuali di vario genere, semmai degli storici, che infatti non si pronunciano sapendo benissimo che non si dispone della giusta distanza (appunto) storica per individuare i confini temporali del movimento. Lyotard non ha “inventato” il postmoderno, che esisteva già di per sé ed era noto, semmai gli ha dato un nome convincente e immediatamente condiviso (non che questo, comunque, sia poca cosa). Questa corsa all’elogio funebre mi sembra nascondere più una volontà di liberarsi dalla tirannia dell’attuale paradigma (o anti-paradigma, visto che si parla di post-moderno), che una valutazione oggettiva della realtà.
Poi, direi, liberarsi dal postmoderno per tornare alle sicurezze dei vari realismi, oggettivismi, positivismi, è un po’ come staccare dalla propria casa l’allaccio elettrico per tornare alle lampade a gas. La storia non è bidirezionale.

Lo scrittore Edward Docx su La Repubblica del 3 settembre individua quelli che a suo parere sono i caratteri salienti del paradigma: la convivenza sullo stesso piano di tutte le interpretazioni, sino al concetto dello svanire dei fatti sostituiti dalle interpretazioni stesse; la predeterminazione (o predestinazione?) storico-socioculturale dell’individuo; il gioco e l’ironia dissacrante; la mescolanza multidisciplinare. Aggiungerei il diffondersi, a vari livelli, di una sensibilità interpretativa debitrice del relativismo; in filosofia, il “pensiero debole” e l’idea che tutto sia “testo”; nelle arti,  l’abbattimento dei confini disciplinari e stilistici; nella scienza, una maggiore “umiltà” e l’idea che la scienza stessa sia non evolutiva o progressiva ma una continua falsificazione di modelli interpretativi passati. Possiamo far finta che tutto questo non sia accaduto? Possiamo alzare le spalle e tornare ai rassicuranti dogmi positivi? E ciò proprio di fronte alle sfide che il multiculturalismo ci lancia ogni giorno?

Io direi di no, direi che il caos postmoderno è una bella ed inevitabile conquista dell’Occidente che dobbiamo difendere e far crescere. Tra l’altro, il senso di confusione, la mancanza di un solido appiglio, tutti effetti di cui si accusa il postmoderno, non li ho mai avvertiti: sto tanto bene nel vortice delle interpretazioni.