

Salò rappresenta cinematograficamente il “male”, e lo fa dandogli la veste storica del fascismo repubblichino. Il fascismo è l’immagine chi si accompagna al concetto di “male” per farne un significante riconoscibile. Il punto da indagare è se la scelta pasoliniana di adottare il fascismo come forma storica – incarnazione – del “male”, sia mirata a una condanna assoluta del fascismo oppure sia semplicemente dettata dalla necessità di “vestire” storicamente e socialmente il “male”, ovvero farlo apparire nella Storia attraverso l’uso di un qualunque momento storico dell’umanità.
In realtà il “male” in Salò trascende il fascismo e l’esperienza storica repubblichina. Il “male” in Salò non è in alcun modo un documento storico e soprattutto è avulso dalla Storia perché se nella Storia si manifesta – di qualunque momento si tratti – della Storia si disinteressa: non ha finalità teleologiche, non risponde a un disegno di conquista dell’umanità in un contesto manicheo di lotta tra tenebre e luce. Il “male” di Salò, il “male” pasoliniano, è autoreferenziale, vive di se stesso, è interessato solo a se stesso. È come un buco nero, un vortice che attrae tutto a sé e nulla rilascia. La pianista che si getta nel vuoto di fronte alla scena finale delle torture collettive è emblematica in questo senso: il suo movimento è verso il luogo delle torture, non è a fuggire da esso. La pianista si lancia verso il “male” e vi si annulla perché dopo averlo visto all’opera non può darsi alla fuga, perché non potrebbe più vivere gestendo quella parte di “male” che ormai è in lei, è entrato attraverso i suoi occhi, alberga nella sua memoria. Il “male” in quella forma così assoluta non lo si può gestire, divora. Altrettanto vale per le figure dei quattro “signori”. Questi, più che essere uomini che consapevolmente scelgono da dare “male”, sono strumenti inconsapevoli di qualcosa che li trascende: dal “male” sono agiti e posseduti. Nel film non hanno alcuna vestigia di umanità, sembrano semmai demoni che non godono semplicemente per il male che arrecano ma godono perché essi sono il “male” che si manifesta e che vive colpendo chiunque, a partire da se stessi. Non hanno nessun interesse verso le loro vittime, non sono mossi da odio personale o politico verso loro, semplicemente hanno bisogno di vittime perché il “male” non può manifestarsi senza queste, e se stessi sono vittime felici delle proprie depravazioni inenarrabili. Al “male” interessa esclusivamente l’atto maligno, ed è questo un atto che vive il suo limite proprio nella Storia: «noi vorremmo uccidervi per l’eternità» dice ad un certo punto uno dei quattro carnefici. Il “male” tende quindi ad eternarsi, a divenire principio fuori dal tempo.
C’è una sorta di forza centripeta che muove la struttura del film e che, come in un gorgo, aumenta di intensità proporzionalmente al suo procedere verso l’atto finale che tutto ingoia. All’inizio c’è la Storia ma è solo un pretesto: si parte da immagini riconducibili al fascismo e alla guerra, i rastrellamenti, Salò, Marzabotto, e si finisce con un’apoteosi maligna che è fuori da qualunque riferimento storico, è l’inferno. Il Pasolini di Salò non è storico né sociologo, è semmai un uomo in preda ad una visione a carattere apocalittico. Ma, come San Giovanni, Pasolini è un artista, non un passivo “megafono di Dio”. La sua è un’estasi che controlla razionalmente e che riporta in scena con la precisione di un orologiaio. Lavora su tempi dilatati e silenti, unisce inquadrature rigidamente simmetriche a un movimento spiraliforme che tende a chiudersi in sé, a svanire nell’implosione. A tratti sembra richiamarsi a Kubrick, a quella sua tragica certezza sull’unione indissolubile tra il manifestarsi della razionalità e del “male”. Ma poi l’estasi riprende il sopravvento e dalle geometrie di Kubrick si passa al caos di Bosh e del suo Giudizio universale riecheggiante nelle torture finali. Ma impressiona la glacialità delle ultime scene: un silenzio indifferente che mette i brividi e che ancor più di Bosh mi rammenta l’ineluttabile pessimismo della Flagellazione di Piero della Francesca.
Ci si può anche leggere – ed è stato spesso fatto – un’allegoria sul potere. I quattro “signori”, l’Eccellenza, il Presidente, il Monsignore, il Duca, rappresentano poteri sociali e politici, quello giudiziario, quello economico, quello religioso e quello dell’aristocrazia. Salò diviene quindi l’immagine di una degenerazione del potere – ma la cosa mi appare semplicistica – o più probabilmente la lucida constatazione che il “potere” è, come il “male”, fine a se stesso («la sola vera anarchia è quella del potere» afferma il Duca): il potere non è niente più che un insaziabile appetito. Non esiste conseguentemente rapporto sociale che non sia rapporto di potere e che – questo sì è molto pasoliniano – non risponda alla logica della complicità tra vittima e carnefice. Ricordo bene di aver letto in un passo di Petrolio una frase che pressappoco diceva: «non c’è disegno di carnefice che non sia suggerito dallo sguardo della vittima». Se poniamo attenzione al fatto che Petrolio e Salò risalgono all’incirca agli stessi anni – tra il ’73 e il ’75 il romanzo, mentre il film data 1975 – probabilmente sveliamo una chiave di lettura interna – intima e inconscia – all’autore stesso. Ancora Petrolio: «il Possesso è un Male, anche per definizione, è il Male: quindi l’essere posseduti è ciò che è più lontano dal Male, o meglio, è l’unica esperienza possibile del Bene…» [appunto 65, p. 319]. Salò, quindi, sembra risolversi intorno a un dualismo tra la carne che mangia (possiede) e la carne che viene mangiata (viene posseduta). Omosessualità, sodomia, il “male” del carnefice che possiede e il “bene” della vittima che si fa possedere… temi che girano intorno alle ultime opere di Pasolini, fantasmi che sembrano non dargli pace, ancora “buchi neri” che attraggono ma non svelano nulla. I fantasmi tormentano Pasolini, come suggerisce anche il suo amico Alberto Arbasino in una intervista sul quotidiano “La Repubblica” del 21 ottobre 2005: a una domanda riguardo la sua opinione su Salò, tra le altre cose Arbasino parla di un film angosciante, ma «l’angoscia che quel film mi trasmetteva non era tanto per le immagini che vedevo, quanto perché un amico si era arrovellato su quei fantasmi». E quali erano i fantasmi su cui si arrovellava il Poeta? L’esistenza del male? Le torture? Le violenze? Le ingiustizie? Più probabilmente, parafrasando il film di Jonathan Demme, si trattava de “l’innocenza del silenzio”, il silenzio rassegnato delle vittime, non di chi possiede ma di chi viene posseduto. Il suo silenzio.
Nonostante ciò, l’esegesi del film ha sempre trascurato la poetica pasoliniana – intima, e quindi incomprensibile – per una lettura ideologica semplice e a tutti comprensibile. Inquadrare Salò nella “visione antropologica” pasoliniana, quella per intenderci degli Scritti corsari, non è difficile né errato, in un certo senso direi che è scontato. Che Salò rappresenti il vertice estremo della degenerazione del potere può essere suggerito anche dal modo di porsi e del sesso e della violenza: non c’è alcuna sorta di piacere, non c’è motivazione contingente, c’è solo fame e voracità, metafore dell’avidità del potere che si ciba dei corpi altrui, o anche metafora dell’avidità consumista.
Ma i “falli” smisurati e le sodomizzazioni che sovrabbondano in Salò come in Petrolio sfuggono alle interpretazioni politiche e sociologiche. Eppure Pasolini è stato anche questo, un esteta dell’atto sodomitico. Ed è in questa estetica ossessivamente riprodotta che risiedono i suoi fantasmi, che emerge confuso il senso del “bene” e del “male”. Dice Blangis (il Duca): «Il gesto sodomitico è il più assoluto per quanto contiene di mortale per la specie umana; il più ambiguo, per quanto accetta, allo scopo di trasgredirle, le norme sociali; è infine il più scandaloso, perché pur essendo il simulacro dell’atto generativo, ne è la totale derisione». Ecco un esempio di come l’uomo cerca “cultura” all’interno dei propri istinti naturali.
La mia impressione su Salò – come su Petrolio – è che queste opere nascondino un tentativo di mettere a fuoco quei fantasmi. Sembra come se Pasolini giri intorno ai propri “buchi neri” nel cercare di conoscerli a fondo, dargli ordine, risolverli. Ma non ci riesce, e l’intelligibilità delle due opere diviene necessariamente parziale ed insoddisfacente. D’altronde un’opera d’arte non è un rebus: va ascoltata, non “decifrata”. L’idea di Salò come film metafora sul potere ha una sua verità ma Salò è sempre qualcosa di più perché è Pasolini a essere qualcosa di più. Non sono mai stato attratto dall’idea che esista una razionalità assoluta, estranea alla dimensione intimamente umana di chi la pratica; le grandi teorie sociali portano sempre il marchio dell’individualità e dell’intimità e di chi le crea e di chi le sposa. Allora il Pasolini sociologo (e l’artista Pasolini) non può essere disgiunto dall’uomo Pasolini e dalla sua “vita interiore”.
Torniamo a Petrolio, vero scrigno dell’interiorità pasoliniana (dalla quarta di copertina dell’edizione Einaudi: «…un libro […] che è una specie di ‘summa’ di tutte le mie esperienze, di tutte le mie memorie»). L’appunto 67 intitolato Il fascino del fascismo pone con evidenza equivalenze e contrapposizioni illuminanti. Si parte dall’enunciazione di una sorta di motore esistenziale dell’umanità: il “sentimento del passato”, il tentativo (tragico perché inesorabilmente fallace) di ricostruire, ripercorrere, immaginare, interpretare la vita dei padri e il loro passato. La continuità del passato invade tutta la vita presente: «La stabilizzazione del Presente, le Istituzioni e il Potere che le difende, si fondano su questo sentimento del Passato, come mistero da rivivere: se noi non ci illudessimo di rifare le stesse esperienze esistenziali dei padri, saremmo presi da un’angoscia intollerabile, perderemmo il senso di noi […]. Il Fascismo esprime in modo primitivo e elementare tutto questo: perciò dà il primo posto alla filosofia irrazionale e all’azione […]. Il Fascismo è l’ideologia dei potenti, la rivoluzione comunista è l’ideologia degli impotenti. […] I potenti sono anche carnefici, gli impotenti sono anche vittime» [p. 263, miei i corsivi].
E poche righe dopo: «Nel potente non c’è ambiguità; e così in coloro che decidono di obbedire al potente […]. Le vittime sono invece profondamente ambigue: la loro decisione di rifiutare il potere che hanno a portata di mano, per crearne un altro in un domani incerto, improbabile, spesso idealizzato e utopistico, non può non insospettire. Si può condannare il potente […] e si possono condannare i giovani che […] decidono di stare con i potenti […] in tutto questo non c’è niente che insospettisca […]. Anzi, è difficile pensare come mai a qualcuno possa venire in mente di fare la scelta contraria…» [pp. 263-264].
Concludo il “saccheggio” a Petrolio con l’appunto 126 intitolato Manifestazione fascista (seguito). Ora è Carlo Valletti (il protagonista dell’incompiuto romanzo) che riflette osservando al centro di Torino lo svolgersi di un corteo fascista: la decadenza antropologica che dà forma allo sguardo del Pasolini sociologo non risparmia nemmeno i nuovi fascisti: «Le persone che passavano davanti a Carlo erano dei miseri cittadini ormai presi nell’orbita dell’angoscia del benessere. […] Facevano pena, e niente è meno afrodisiaco della pena […]. Erano dei piccoli borghesi senza destino, messi ai margini della storia del mondo, nel momento stesso in cui venivano omologati a tutti gli altri» [p.503]. E poche righe dopo: «I veri fascisti erano ora in realtà gli antifascisti al potere. Il potente era Carlo…».
In definitiva, mi sembra che Petrolio chiarisca Salò in questi termini antitetici:
- da un lato abbiamo male = potere = fascismo = carnefice = possedere sessualmente
- e dall’altro abbiamo bene = impotenza = comunismo = vittima = essere posseduti sessualmente
Insomma, è l’essenza stessa del potere – qualunque potere – ad essere fascista, e tale potere è sempre ontologicamente “male”.
Mi sembra una chiave di lettura utile per orientarsi meglio nel labirinto pasoliniano ma, come ho detto prima, lungi da me l’idea di “decifrare” Pasolini e le sue opere in termini di rebus. La struttura oppositiva delineata si limita a dare indicazioni, coordinate generali, tuttavia in nessun modo può essere esaustiva né della poetica dell’Autore, né di Salò, né di Petrolio. Salò stesso, a ben pensare, la contraddice: i fascisti carnefici non si dedicano solo al “possedere” (sessualmente) ma a loro volta si fanno possedere con gioia. Forse la contraddizione rientra se si pensa che il farsi possedere dei quattro “signori” non è una passiva e silenziosa accettazione di una prevaricazione altrui bensì volontaria scelta. Probabilmente in questo caso non conta più la distinzione tra atto passivo e attivo, conta l’opzione intenzionale per il gesto sodomitico che – ripeto la citazione del Duca Blangis già prodotta sopra – «…è il più assoluto per quanto contiene di mortale per la specie umana; il più ambiguo, per quanto accetta, allo scopo di trasgredirle, le norme sociali; è infine il più scandaloso, perché pur essendo il simulacro dell’atto generativo, ne è la totale derisione». La sodomia quindi è “male” perché deride la vita e la mortifica mentre l’accettare in silenzio, da vittima rassegnata, la prepotenza della possessione è, per Pasolini, il “bene”, e si tratta di un “bene” a forte connotazione politica e rivoluzionaria. Ma il “male”, nell’Italia dei primi anni ’70, ha trionfato inesorabilmente sul “bene” dell’utopia comunista e Pasolini ne prende nota nell’osservare l’umanità che vive nelle nuove periferie: «…quella gente non opponeva più la sua cultura a quella dei padroni, quella gente non conosceva più la santità della rassegnazione, quella gente non conosceva più la silenziosa volontà della rivoluzione» [Petrolio, appunto 124, p. 497, corsivi dell’Autore].
L’omologazione televisiva cambiava la gente e faceva morire le grandi utopie rivoluzionarie: quella fascista, “virile ed ascetica” (vedi appunto 126, p. 503), e quella comunista, forte nella misura della sua rassegnazione e del suo silenzio. Ma se il fascismo moriva come utopia rivoluzionaria, esso permaneva ineliminabile nell’esistenza maligna del Potere.
(articolo già pubblicato in una prima versione in Amnesia Vivace n° 16, dicembre 2005)