
Nel ’95 ho “incontrato” Samuel Beckett. Amore a prima vista, una passione che ha segnato gran parte dei miei primi testi e che ancora oggi mi condiziona nel bene e nel male. Il mio “maestro” di teatro di allora, Piero Patino (fu il primo direttore artistico del Festival di Santarcangelo), di fronte alla mia nuova scoperta ridacchiava con sufficienza dicendomi cose tipo «Beckett è un grande ma la maggior parte degli autori che lo imita lo fraintende e lo tradisce; lo rendono noioso e credono che nel teatro dell’assurdo qualunque frase si scriva, o si dica in scena, vada bene, ma non è così». Già, non è così. Come è, allora?
A circa 60 anni dalla prima rappresentazione di Aspettando Godot (1953), e a 55 anni dalla prima rappresentazione di Finale di Partita (1957), è ancora abbastanza frequente assistere a compagnie che si cimentano con la lezione del Maestro, producendo drammaturgie che ne vorrebbero ricalcare l’immaginario e la poetica. Per quanto mi riguarda, come spettatore, il risultato mi lascia spesso perplesso, a volte più e a volte meno, e mi tornano in mente le parole di Patino: «credono che nel teatro dell’assurdo qualunque frase si scriva, o si dica in scena, vada bene».
Che il teatro di Beckett sia annoverabile all’interno di quel controverso genere universalmente definito Teatro dell’Assurdo è opinione diffusa e accettata a partire dal famoso saggio di Martin Esslin del 1961, ma ogni categoria storica è sempre in parte grossolana e chiunque si sia impegnato in una comparazione tra i due padri putativi del genere, Beckett, appunto, e Ionesco, avrà indubbiamente notato più la loro distanza che la vicinanza.
Semplificando, potrei dire che Beckett è fondamentalmente un tragico laddove Ionesco è commediografo. Potrei dire anche che Beckett è un filosofo, Ionesco un cronista. Che Beckett utilizza l’assurdo come metafora esistenziale, Ionesco svela l’assurdo della nostra quotidianità. Che Beckett violenta il mezzo teatrale in direzione della stasi (antiteatrale) mentre Ionesco cavalca a suo geniale modo i consueti cliché teatrali. In ultima analisi, potrei dire che Beckett è “pesante” e Ionesco “leggero”. Ed è proprio la pesantezza di Beckett il problema della sua (in)attualità e della sua continua riproposizione sotto le coperte della “nuova” ed emergente drammaturgia.
Quella pesantezza, che nell’era di Beckett era storicamente/intellettualmente innovativa e teatralmente/formalmente armonica, oggi si fa sentire in tutta la sua “gravità”, tant’è che le odierne imitazioni beckettiane risultano quasi sempre inattuali, ovvero vecchie, e non comunicative, ovvero noiose.
Perché vecchie? Perché 60 anni dopo possiamo dire che il crudo ritratto della condizione umana schizzato da Beckett – quella condizione depauperata (Aspettando Godot), disabile e intrappolata (Finale di Partita), marcescente (Giorni Felici e L’ultimo nastro di Krapp) -, è stato ampiamente digerito e non ci fa più riflettere, non ci sorprende, al massimo ci intristisce. Non è più un fosco vaticinio ma un’insopportabile realtà quotidiana. Beckett è ormai un classico e, come vale per tutti i classici, o va fatto riposare con rispetto o, se proprio lo si vuole riesumare, occorre saperlo depurare di ciò che non serve più per poi attualizzarlo con profonda riflessione. Tutto sommato nella drammaturgia contemporanea mondiale, già a partire da Pinter, Beckett è stato intelligentemente “diluito” e attualizzato in variegate forme; riproporlo oggi ancora in una soluzione “100%” mi sembra davvero anacronistico.
Perché noiose? Perché il problema delle drammaturgie contemporanee di matrice beckettiana è che dopo cinque o dieci minuti hanno detto tutto quel che c’è da dire. I restanti 50 o 60 o più minuti sono solamente ripetizione, noiosa ed inutile ripetizione. Ma la ripetizione o, meglio, la reiterazione, in Beckett non è limite bensì struttura, è in parte la forza stessa della sua opera. Si tratta di una reiterazione circolare e spiraliforme che affascina per la sua natura ipnotica. È sorretta da una rigorosa regia narrativa che conduce il personaggio e lo spettatore per progressivi gradini verso il baratro, verso quel buco nero della condizione umana che l’irlandese pone al centro della sua riflessione. Il teatro di Beckett è musicale mentre la sua attuale riproposizione è generalmente cacofonica. La stasi e l’attesa beckettiane, che sono profondamente narrative, vengono confuse con l’assenza e l’inutilità della narrazione; quei personaggi privi di un futuro che popolano gli scenari beckettiani divengono anti-personaggi indistinguibili e intercambiabili. Infine, quel linguaggio apparentemente anarchico e illogico che in Beckett non è mai una vaga e generica morte del linguaggio e/o della sua facoltà narrativa, semmai è morte della sua capacità redentiva, nei suoi seguaci contemporanei diviene troppe volte un agglomerato di parole in libertà dove piangere o ridere, pregare o dire oscenità, sono tutte valide alternative per un minestrone anti-narrativo che altro non è se non il prodotto di un clamoroso fraintendimento, in altre parole un credere che «…nel teatro dell’assurdo qualunque frase si scriva, o si dica in scena, vada bene».
Sono molto d’accordo, segnalo pero’ almeno tre dramaturgie vive che escono da questo triste coro: quelle di Claudio Morganti, di Scimone e Sframeli e di Alessandro Serra (Teatropersona)
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Caro Fabio, un bella riflessione.: leggera e profonda allo stesso tempo. Bravo. Piero Patino…lo ricordo, come no! Uncaro saluto da. Alfio Petrini
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Caro Fabio, ho letto con piacere e condivido completamente la tua analisi, accurata e profonda eppure godibilissima, insomma “pesante e leggera”, come i maestri di cui parli. E visto che hai fatto riferimento al bel saggio di Esslin, c’è una sua frase, quasi un aforisma, che amo citare ai miei studenti del corso di drammaturgia alla Sapienza: per leggere tra le righe, bisogna pure che le righe ci siano!
Un abbraccio
Letizia
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