NO MAN’S LAND (TERRA DI NESSUNO) – la primavera non verrà mai più

No Man’s Land, di Harold Pinter, scritto nel 1974, prima rappresentazione e pubblicazione nel 1975. 1^ ed. italiana 1979, Einaudi, trad. Cesare Garboli, Elio Nissim, Romolo Valli. 2^ ed. italiana 1996, Einaudi, trad. Alessandra Serra, Laura del Bono, Elio Nissim

SPOONER – No. Sei in terra di nessuno. Che non si muove, che non cambia, che non invecchia, ma che dura in eterno silenziosa e glaciale.

HIRST – A questo io bevo.

Beve… Poi lentamente cala il sipario. 

Probabilmente non esiste approfondimento critico di questo dramma che non si sia posto l’obbligo di rispondere alla seguente domanda: qual è, o cosa è, questa terra di nessuno di Harold Pinter “Che non si muove, che non cambia, che non invecchia, ma che dura in eterno silenziosa e glaciale” (“Which never moves, which never changes, which never grows older, but which remains forever icy and silent”)? È un obbligo a cui nemmeno io voglio sottrarmi, tutt’altro, e darò una lapidaria risposta che tuttavia, da sola, mi sembra in grado di gettare luce sull’enigmatico testo pinteriano più di quanto possano pagine e pagine di riflessione: la terra di nessuno di Pinter è la vita. Alla celebre, suddetta, battuta di Spooner risponde il suo contraltare Hirst: “A questo io bevo” (“I’ll drink to that!”) e con questo scambio il dramma si chiude. Hirst, quindi, beve alla vita, non brinda ma beve, come avviene di continuo in questo testo, tutti bevono, tracannano whisky come fosse acqua fresca. Ma se si “brinda” a qualcosa, alla vita ad esempio, festeggiandola, non si “beve” a qualcosa. Il bere (alcol ovviamente) veicola una dipendenza, una passività, una fuga, una sconfitta. Di fronte alla vita “icy and silent” di Spooner (e di Hirst, che anticipa nel primo atto la medesima battuta) la soluzione dei 4 personaggi di No Man’s Land non è di festeggiare, ovvero brindare, ma di bere. E qui devo aprire un inciso: i tre traduttori della prima versione italiana del testo – Cesare Garboli, Elio Nissim e Romolo Valli, traduzione del 1979 – scelgono il letterale “bere” per “drink”, e “I’ll drink to that!” diventa “A questo io bevo”. Alessandra Serra, Laura del Bono ed Elio Nissim che tradurranno per la versione del 1996, faranno un’altra scelta rendendo “I’ll drink to that!” con “A questo io brindo”. Quest’ultima soluzione mi pare una forzatura: Hirst non brinda; in nessun momento del testo, tantomeno nel finale, maturano le condizioni per brindare a qualcosa; non brinda ma beve fino allo stordimento come un disperato alcolista e il senso di “I’ll drink to that” si trova in un gioco di parole dove “drink” è sì letteralmente bere (in questo caso il bere dell’alcolista) ma è anche una dichiarazione di accordo con la precedente battuta di Spooner, un “ben detto!”, un “concordo con te e bevo”, un “sono d’accordo con la tua visione della vita ed è per questo che bevo”. Potremmo fermarci qui, ma non si deve mai far coincidere un testo teatrale con la sua ermeneutica allegorica, come sempre c’è molto di più.

Una stanza nella villa di Hirst, una variante del salotto borghese dove più di un mobilio basilare cattura lo sguardo l’esposizione di libri e alcolici. Hirst e Spooner sono in scena e parlano delle qualità che formano il “vero uomo”: forza, intelligenza, perspicacia. Noi non sappiamo nulla di loro e, a quanto pare, anch’essi sono ignari delle rispettive vite, non si conoscono, si sono incontrati casualmente la sera stessa in un parco, entrambi intenti a praticare voyeurismo; poi Hirst ha invitato Spooner a casa sua e ora approcciano una conoscenza più approfondita. Il secondo atto smentirà il primo proponendo Hirst e Spooner come amici di vecchia data, due intellettuali che rivaleggiavano per la carriera e per le donne. Hirst sembrerebbe essere un letterato, un saggista, un poeta; Spooner si rivela garzone di birreria e anch’esso poeta. Poi entrano Foster e Briggs, altre incognite in gioco. Il primo dice di essere figlio di Hirst ma poi si qualifica come suo segretario e infine come suo allievo poeta. Briggs è altrettanto misterioso, si muove con il piglio da padrone di casa ma assolve a funzioni riconducibili al “maior domus”. In definitiva ogni pagina smentisce la precedente e contraddice la successiva, qualunque ricerca di coerenza narrativa in questo testo è tempo perso; i personaggi esistono solo in base a ciò che dichiarano in quello specifico istante, e nell’istante successivo pur restando sempre gli stessi sono cambiati, hanno un’altra storia, altre esperienze, altre relazioni. 

Spooner, Hirst, Foster, Brigs, quattro personaggi maschili, due sessantenni e due più giovani (trent’anni Foster e quaranta Briggs), vecchi contro giovani come nelle commedie classiche, eppure questa differenza generazionale non sembra produrre alcun fluire del tempo (“Which never moves, which never changes, which never grows older”). Nulla accade, nulla è accaduto, i quattro personaggi quasi mai entrano veramente in relazione tra loro, si aggirano, semmai, come morti viventi romeriani all’interno di una realtà grottesca, “silenziosa e glaciale”, svelata dalla quarta parete della scatola scenica che li illumina e li offre, a noi lettori/spettatori, non come fuochi di una narrazione strutturata su eventi, accadimenti, meccanismi di causa-effetto, bensì come deboli fantasmi che stancamente e con poca convinzione reiterano brandelli di identità degne al più di un gioco infantile (una sorta di “facciamo finta che…”). Il realismo di Pinter, quel contesto che all’inizio, come sempre nei suoi drammi, appare solido e riconoscibile, viene tradito man mano che i dialoghi procedono svelando le deformità dei personaggi. Spooner in particolare, centro ideale del dramma, anche in termini di composizione del quadro scenico, esorbitante e verboso nel linguaggio, suggerisce una medesima, flaccida, eccedenza corporea, una forma monolitica che erutta parole con musicale monotonia. 

SPOONER – Sono un amico ostinato delle arti, specialmente della poesia, e una guida per la gioventù.  La mia casa è aperta a tutti.  Ci vengono giovani poeti. Mi leggono i loro versi. Offro loro il caffè e i miei commenti senza chiedere il conto. Sono ammesse le donne, ce n’è qualcuna che è anche un poeta. Altre non lo sono. Anche alcuni degli uomini non lo sono. Molti degli uomini non lo sono. […]

Con Terra di Nessuno, con Spooner su tutti, Pinter riprende temi cari a Ionesco: l’indipendenza del linguaggio che si fa oggetto sociale, abito da indossare nelle varie situazioni, e poi il parlare che sovrasta e dissolve il parlatore, il dialogo che non comunica. In alcuni drammi di Ionesco (La Cantatrice Calva in particolare) quel che va in scena è la frattura tra linguaggio e umanità: il primo ha vita a sé e usa la seconda come proprio habitat, fino a configurare l’ipotesi di un’ontologia del linguaggio. In Pinter l’operazione differisce parzialmente: il linguaggio non ha la forza impetuosa che mostra in Ionesco, non maschera il vuoto tramite una parvenza di vitalità e dialettica, non socializza. Spooner soprattutto, ma anche Hirst e, in misura minore, Briggs e Foster, eruttano parole che non vanno da nessuna parte, non compiono il tragitto tra emettitore e ricevente ma ricadono addosso al primo dei due poli come magma liquido e infuocato e questa verbalità che gli cola addosso svela, parzialmente e instabilmente, quasi per contrasto, per impermeabilità direi, anzi per solidificazione e stratificazione, il suo profilo altrimenti invisibile. Abbiamo quindi una deriva solipsistica del linguaggio e al tempo stesso un’iperstimolazione verbale e perciò eccedenza del significato che da veicolo di senso e riconoscimento transita nei territori del non sense. Nel testo di Pinter il non sense è inquietante, definisce il personaggio per negazione, per ciò che non è (operazione, in un certo senso, non estranea alla letteratura mistica). È un linguaggio ambiguo e depistante, spiazzante, non dice “questi sono dei buffoni ingenui e/o spersonalizzati” (come avviene in Ionesco), dice semmai “questi non sono nulla di quel che affermano, o di quel che credi”, e l’inquietudine nasce anche dall’impossibilità di definirli, di uscire dal dubbio per giungere alla certezza.

“Anche”, scrivevo, non “solo”: Pinter sa sollecitare ulteriori inquietudini disseminando elementi istintuali tra tutti i personaggi, una carica di violenza e di potenziale sopraffazione, un abbrutimento generalizzato, una mancanza di dignità che sfocia nel servilismo. Sullo sfondo una struttura oppositiva – spesso presente nei suoi drammi – tra cultura (sbandierata) e natura (istinto che emerge). Molti dialoghi si presentano come corda tesa tra questi due poli, mezzo per tener viva una tensione che però non esplode mai. Il linguaggio schizofrenico evidenzia la doppiezza, multiformità, ambiguità, mutabilità pericolosa dell’uomo e delle relazioni che costruisce. La natura emerge sulla patina di cultura. L’uomo, qualunque cosa affermi, non è quel che mostra. Viene da chiedersi quanto ci sia di autobiografico, o comunque frutto di esperienze dirette, in questa narrazione degli ambienti culturali, quanto la coppia Hirst/Spooner – intellettuale di successo il primo, artista fallito il secondo – sia sineddoche affidabile. Certamente in questo testo Pinter lascia galoppare la propria fantasia sui campi sterminati degli ambienti letterari e artistici che ben conosce, le dinamiche e le relazioni che in quegli ambiti prendono vita, i rapporti di potere, le umiliazioni, i servilismi, i deliri egotici. Il ritratto pinteriano del mondo intellettuale, quello dei poeti in particolare, è parodistico e grottesco ma al tempo stesso impietoso.

foto di scena estratta da “IL DRAMMA – mensile dello spettacolo”, n.3 marzo 1978

È il 1974, i principali capolavori dell’assurdo sono stati scritti e pubblicati, il genere non fa più scandalo, è stato digerito e assimilato e nessuno si chiede più chi o cosa simbolizzi Godot. No Man’s Land rappresenta probabilmente il “boato” finale che chiude un lungo spettacolo pirotecnico, il colpo di coda di un’estetica che, a sua volta, è il colpo di coda delle avanguardie storiche, davvero una lunga coda che dal primo Novecento si incunea nel secondo attraversando i disastri bellici da cui prende in eredità disillusione, nichilismo, amarezza. L’assurdo è avanguardia fattasi vecchia, è priva di spensierato vigore, di voglia di vivere. Harold Pinter chiude il genere con un dramma che, come avviene con i bambini, ruba somiglianze da entrambi i genitori: è un nuovo Fin de Partie dove però i quattro prigionieri del solito spazio chiuso, Hirst/Hamm, Spooner/Clov, Brigs/Nagg, Foster/Nell, rinunciano anche alla resa dei conti, e troppo stanchi per battaglie e giochi di potere lasciano spazio a un teatro borghese senza passato né futuro, inscenato al più da presenze fantasmatiche; ma è anche un testo che chiama in causa Ionesco per chiudere definitivamente ogni progetto sulle capacità socializzanti del linguaggio, che in No Man’s Land ha prospettive al più onanistiche.

Fantasmi quindi, ma fantasmi che fanno sorridere. “Non c’è niente di più comico dell’infelicità“, fa dire Beckett a Nell in Finale di Partita, e Pinter non si tira indietro nell’applicare la lezione di uno dei suoi due maestri: la natura farsesca del dramma emerge con ogni evidenza nei tratti comici dei tanti scambi tra Spooner e Hirst nel primo quanto nel secondo atto.

SPOONER – Una volta frugai con gli occhi nel volto di mia madre. Non vidi altro che pura e semplice malevolenza. Sono fortunato di essere ancora vivo. Lei vorrà sapere che cosa avevo fatto per suscitare tanto odio in mia madre. 

HIRST – Si era pisciato addosso. 

SPOONER – Proprio così. Quanti anni pensa che avessi allora?

HIRST – Ventotto. 

SPOONER – Proprio così. 

Tuttavia l’umorismo (involontario, nelle intenzioni dei personaggi) emerge sì qua e là ma non prende mai il sopravvento. Al pubblico appare in ogni caso una parvenza di serietà e di intellettualismo che però, già a uno sguardo un poco meno distratto, si svela nella sua ingannevolezza, un po’ come avviene nelle immagini prodotte dalla Intelligenza Artificiale dove tutto a prima vista appare familiare (un mobile, un vestito, un qualunque oggetto di uso quotidiano) ma a una osservazione più attenta ogni elemento risulta sconosciuto, non conforme alle aspettative. Come anticipavo sopra, l’operazione di Pinter passa sempre, o spesso, attraverso un realismo che fa da cornice a una dilatazione e deformazione dei tratti e dei comportamenti umani, il che tradisce proprio quella premessa di realismo che si rivela essere illusoria. L’opera di Francis Bacon (che non a caso appare con un suo soggetto sulla copertina dell’edizione Einaudi 1979) è un buon riferimento pittorico per comprendere la deformazione dei personaggi pinteriani (Spooner su tutti).

SPOONER – Che meraviglia.  Continui. Continui a dirmi ancora delle piccole eccentriche perversioni di quella vita e di quel tempo. Mi inquadri, con tutta l’autorità e lucidità di cui può disporre, la struttura socio-economica-politica dell’ambiente in cui lei ha raggiunto l’età della ragione.  Mi dica di più. 

Dove risiede, quindi, in ultima analisi, la grandezza e soprattutto l’originalità di questo classico? Quale lezione ci lascia o, meglio, in qualità di ultimo esemplare di una “stirpe” di opere, ci ribadisce? Credo che No Man’s Land sia solo in parte, una parte evidente ma non più che epidermica, la tematizzazione drammatica di una visione della vita pervasa da un nichilismo senza speranza – argomento, questo, che non sarebbe certo una novità nella longeva produzione dell’assurdo. Credo, invece, che questo testo sia sostanzialmente un discorso interno al teatro, in particolare un discorso sul testo teatrale, un’eredità che possiamo sintetizzare in questo assunto: non esistono personaggi preesistenti alle loro parole o, formulazione più radicale, non esistono personaggi ma solo le loro parole. 

HIRST – Cambiamo argomento. (Pausa) Una volta per tutte. (Pausa) Che cosa ho detto?

FOSTER – Ha detto di cambiare argomento una volta per tutte. 

HIRST – Ma che cosa vuol dire?

FOSTER – Vuol dire che una volta cambiato l’argomento, lei non lo cambierà mai più. 

HIRST – Mai più?

FOSTER – Mai più. 

HIRST – Mai più?

FOSTER – Lei ha detto una volta per tutte. 

HIRST – Ma che cosa vuol dire? Che – cosa – vuol – dire?

FOSTER – Vuol dire per sempre. Vuol dire che l’argomento è cambiato una volta per tutte, per l’ultima volta, e per sempre.  Se, per esempio, l’argomento è “l’inverno”, sarà inverno per sempre. 

HIRST – L’argomento è l’inverno?

FOSTER – Ora l’argomento è l’inverno.  E resterà quindi inverno per sempre. 

BRIGGS – Una volta per tutte. 

FOSTER – E durerà per sempre. Se a entrare in argomento è l’inverno, per esempio, la primavera non verrà mai più. 

articolo già pubbicato nel blog TERRA DI NESSUNO – CRITICA DELLA DRAMMATURGIA