Sono apparsa, la prima cosa che ho percepito è stato il ringhiare del cane. Poi l’ho visto, davanti a me, a circa un metro. Era un mastino e ce l’aveva con me. Ma non mi sono spaventata, tutt’altro, gli ho sorriso, l’ho chiamato per nome: «Smith, ehi Smith, bello, che stai facendo?». Poi ho sentito la voce in lontananza: «Buck, lascia stare la signorina.». E Buck/Smith ha smesso di ringhiare, ha scodinzolato, si è voltato ed è corso via verso il padrone, un uomo con la barba. La signorina ero io. Smith, che cavolo di nome per un cane. Perché l’ho chiamato Smith, come se lo conoscessi, come se avessi avuto anche io un mastino, magari sin da bambina, magari il mio migliore amico, perché? Non lo so. Sono molte le cose che non so. Eppure, da quando sono apparsa risolvere tutti questi perché mi interessa relativamente. Quello che in questi due giorni ho tentato incessantemente di fare è stato afferrare la sensazione, fissarla in testa, renderla narrabile. Non che se ci riuscissi trarrei maggior chiarezza riguardo al mio stato. No, non è questo. Ma in quel lasso di tempo successivo alla mia apparizione – due, tre, cinque minuti, non so –, in quei minuti seguenti al mio aprire gli occhi, io lo so, ho provato una cosa che non proverò mai più, che forse nessun uomo ha mai provato, forse un bambino, chissà? Forse un bambino appena uscito dall’utero materno, o un bambino che ha appena aperto gli occhi e sente la luce, e vede le cose, forse lui, se avesse già raziocinio, se avesse quella capacità di stupirsi per gli eventi assurdi che solo gli adulti hanno. Forse lui. Ho visto il mondo per la prima volta ma già lo conoscevo e allora le cose che vedevo, me stessa, sì, anche me stessa, tutto è stato come l’improvvisa inaspettata conferma di un qualcosa in cui avevo da sempre creduto, la conferma di un lungo e faticoso atto di fede. Le cose esistono, io esisto, tutto è stato nuovo e conosciuto nello stesso tempo. Stupore e consapevolezza e anche soddisfazione, tutto questo insieme e niente di tutto questo. Ho visto le mie gambe semicoperte da una leggera gonnellina viola, il legno della panchina dove ero seduta, la luce calda sulla pelle, l’uomo con la barba e il suo cane Buck, il prato verde, ho visto tutte queste cose come fossero la stupefacente conferma di un’esistenza sognata da sempre e mai vista, un’epifania del mondo. Poi ho compreso la mia individualità, coesistenza di appartenenza e indipendenza, e lo stupore mi è salito come un’onda repentina, mi ha sommerso. Ho di nuovo chiuso gli occhi, forse per secondi, forse per minuti. Quando li ho riaperti quell’estasi si era dissolta e tutto era divenuto ovvio, tutto tranne me. Mi sono alzata dalla panchina, ho preso la mia borsa nera – era mia, ne ero certa anche se non l’avevo mai vista –, mi sono avviata verso la mia storia.
[l’Incipit di una possibile storia, gettato nella rete, è un po’ come il messaggio di un naufrago, dentro una bottiglia, galleggia nel mare cercando un lettore…]