Putrefazione (racconti del venerdì #5)

“Io non ho fatto proprio nulla”, disse. Erano appena tornati dalle vacanze, le valigie da disfare ancora nell’ingresso, e già la stava accusando di qualcosa. Entrati in casa il fetore li aveva investiti. Lui si era precipitato in cucina. La porta del frigorifero era socchiusa, il tanfo insopportabile. “Ci avrei giurato”, disse lui. “Chi ti dice che la colpa è mia”. Lui tirò fuori dal frigo un involto di carne, lei vide muoversi qualcosa attraverso la carta oleata e cominciò a urlare. Lui non ci badò, si liberò dell’involto gettandolo nel secchio. Lei se ne stava ferma a guardare, come chi si aspetta la fine del mondo. Le tremavano le mani. Lui represse a fatica un conato di vomito, spalancò la finestra poi, d’istinto, la prese per mano. “Andiamocene di qui”, disse. Nello scendere le scale, però, mollò la presa e affrettò il passo, tanto che lei dovette quasi correre per stargli dietro. Salita in macchina le venne da piangere. Vergognandosene, come si fosse ritrovata a urlare in mezzo a una strada, si abbandonò al pianto, piena di una rassegnazione dolcissima verso ogni cosa morta in fondo alla pattumiera, che aveva visto muoversi come fosse ancora viva, ma passata a una forma diversa e terribile oltre la vita. “Non è questione di farla tanto lunga”, disse lui. Faceva caldo, lei cercò nella borsa un fazzoletto, per tirare su con il naso e lasciar passare lo spavento. Lui non tentò di consolarla. C’era voluto del tempo perché accadesse, giorni e giorni mentre loro erano in vacanza. Li avevano trascorsi al mare, giacendo immobili all’ombra, alla larga dal sole, sotto l’ombrellone. C’era voluta una dimenticanza protratta nel tempo perché accadesse, la porta del frigo era rimasta aperta, c’era poco da fare. Di chi era la colpa? Non aveva importanza.

Racconto di Emanuela Cocco (http://www.franzbiberkoff.it/)

Incipit (racconti del venerdì #4)

Sono apparsa, la prima cosa che ho percepito è stato il ringhiare del cane. Poi l’ho visto, davanti a me, a circa un metro. Era un mastino e ce l’aveva con me. Ma non mi sono spaventata, tutt’altro, gli ho sorriso, l’ho chiamato per nome: «Smith, ehi Smith, bello, che stai facendo?». Poi ho sentito la voce in lontananza: «Buck, lascia stare la signorina.». E Buck/Smith ha smesso di ringhiare, ha scodinzolato, si è voltato ed è corso via verso il padrone, un uomo con la barba. La signorina ero io. Smith, che cavolo di nome per un cane. Perché l’ho chiamato Smith, come se lo conoscessi, come se avessi avuto anche io un mastino, magari sin da bambina, magari il mio migliore amico, perché? Non lo so. Sono molte le cose che non so. Eppure, da quando sono apparsa risolvere tutti questi perché mi interessa relativamente. Quello che in questi due giorni ho tentato incessantemente di fare è stato afferrare la sensazione, fissarla in testa, renderla narrabile. Non che se ci riuscissi trarrei maggior chiarezza riguardo al mio stato. No, non è questo. Ma in quel lasso di tempo successivo alla mia apparizione – due, tre, cinque minuti, non so –, in quei minuti seguenti al mio aprire gli occhi, io lo so, ho provato una cosa che non proverò mai più, che forse nessun uomo ha mai provato, forse un bambino, chissà? Forse un bambino appena uscito dall’utero materno, o un bambino che ha appena aperto gli occhi e sente la luce, e vede le cose, forse lui, se avesse già raziocinio, se avesse quella capacità di stupirsi per gli eventi assurdi che solo gli adulti hanno. Forse lui. Ho visto il mondo per la prima volta ma già lo conoscevo e allora le cose che vedevo, me stessa, sì, anche me stessa, tutto è stato come l’improvvisa inaspettata conferma di un qualcosa in cui avevo da sempre creduto, la conferma di un lungo e faticoso atto di fede. Le cose esistono, io esisto, tutto è stato nuovo e conosciuto nello stesso tempo. Stupore e consapevolezza e anche soddisfazione, tutto questo insieme e niente di tutto questo. Ho visto le mie gambe semicoperte da una leggera gonnellina viola, il legno della panchina dove ero seduta, la luce calda sulla pelle, l’uomo con la barba e il suo cane Buck, il prato verde, ho visto tutte queste cose come fossero la stupefacente conferma di un’esistenza sognata da sempre e mai vista, un’epifania del mondo. Poi ho compreso la mia individualità, coesistenza di appartenenza e indipendenza, e lo stupore mi è salito come un’onda repentina, mi ha sommerso. Ho di nuovo chiuso gli occhi, forse per secondi, forse per minuti. Quando li ho riaperti quell’estasi si era dissolta e tutto era divenuto ovvio, tutto tranne me. Mi sono alzata dalla panchina, ho preso la mia borsa nera – era mia, ne ero certa anche se non l’avevo mai vista –, mi sono avviata verso la mia storia.

[l’Incipit di una possibile storia, gettato nella rete, è un po’ come il messaggio di un naufrago, dentro una bottiglia, galleggia nel mare cercando un lettore…]

Il mondo in una pozza (racconti del venerdì #3)

Kwai Talunij era il più grande cacciatore del popolo degli alowij, i fieri figli di Kwootaar. In quel tempo gli ewetij avevano da poco iniziato l’esplorazione della terra degli alowij. Gli alowij temevano gli ewetij ma Kwai Talunij no: egli, piuttosto, ne era incuriosito e quando ne incontrava uno lo osservava di nascosto. Soprattutto restava affascinato da alcuni oggetti lucenti che gli ewetij tenevano tra le mani e che a volte avvicinavano alla bocca o alle orecchie. Una mattina, seguendo le tracce di un grande kwootij, Kwai Talunij entrò in una radura e restò impietrito nel trovarsi di fronte un ewetij che si dimenava all’interno di una pozza di fanghi molli. L’ewetij, imprigionato tra i fanghi, guardava fisso un oggetto lucente tra le sue mani e urlava “noncècampogesùnoncècampo”. Quando l’ewetij si accorse di Kwai Talunij gli gridò: “aiutoaiuto… stosprofondando… salvamitipregosalvami”.

Kwa eto saturij” rispose sicuro Kwai Talunij. Ma l’ewetij non capiva e si disperava, e più si disperava e più sprofondava. “Kwa eto saturij? Cosa vuol dire kwa eto saturij? Perché non mi aiuta?”. “Salvamisalvami” pregava l’ewetij, “kwa eto sarurij” rispondeva l’alowij. Con il fango ormai sopra alla cintola, l’ewetij fece un ultimo sovrumano sforzo per liberarsi: urlò, lanciò via l’oggetto lucente che aveva tra le mani e con un colpo di reni tentò di sollevare almeno una gamba, ma lo sforzo gli fu fatale e il cuore gli scoppiò. In quella minuscola infinita frazione di tempo in cui la vita gli svaniva, vide l’oggetto lucente ricadere ai piedi di Kwai Talunij. Ne sentì il tonfo, irreale, mischiarsi all’eco di quelle oscure parole, “kwa eto saturij”. Poi sentì le sue gambe toccare il duro suolo e il suo corpo smettere di sprofondare. Ma era troppo tardi: stava morendo. In quella minuscola infinita frazione l’ewetij rammentò – cosa assai strana prima di morire – una frase che non aveva mai compreso sino in fondo: “i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”. Quanto era piccolo il suo mondo in quel momento, piccolo come quella pozza di fango. Ah, se avesse compreso quell’idioma arcano, se non si fosse avventurato in quel territorio sconosciuto senza prima imparane il linguaggio. Se solo non fosse stato tanto superficiale avrebbe potuto comunicare con Kwai Talunij e avrebbe potuto capire il senso di quella frase, “kwa eto saturij”, che nella lingua alowij significa “calmati, è profonda solo un metro”.

La strana storia di Mark Kaplan (racconti del venerdì #2)

Alle 16.45 del 15 luglio 2004 il ciccione Jerry guarda soddisfatto il bambino biondo che gli sta davanti. Il ciccione Jerry ha occhi piccoli e una faccia tonda e gonfia, perennemente sporca di cioccolata. Il bambino biondo è solo biondo e non ha un nome… strano ma vero: non si chiama in alcun modo. Il bambino biondo ha nella mano destra due piccoli dadi che fa girare e rigirare velocemente nel palmo; tra poco li lancerà.
Contemporaneamente, alle 23.45 del 16 febbraio 1965 l’ex sottotenente di vascello Mark Kaplan attende che il croupier faccia rollare il tamburo della 6 colpi. Intorno a lui le grida degli scommettitori sfrecciano tra il fumo della sala. Mark non sente né grida né fumo: i suoi occhi sono solo per il tamburo che ora sta girando. Sono 10 turni che il grilletto va a vuoto e Mark sa per esperienza che il prossimo turno sarà il decisivo. 1000 i soldoni che lo aspettano, oppure una discarica abitata da topi e cani randagi.
A Seattle il sole fa brillare i due game boy oggetto della contesa. A Saigon c’è la solita notte umida. A Seattle il ciccione Jerry è tranquillo: il primo dado si è fermato sul 6, il secondo sul 5. Forte del suo 11 sa che il game boy del bambino biondo non gli sfuggirà (eppure quel bambino non gli piace, non ha un nome, come è possibile?) A Saigon Mark non ha attenzione per il suo avversario: per lui non deve esistere, non può permettersi alcuna umanità. A Seattle il ciccione Jerry ride mentre i dadi iniziano a saltare sul palmo del suo avversario. A Saigon il tamburo si è fermato ma le urla del pubblico no. Ora il ciccione Jerry vede il bambino biondo alzarsi deciso sulle ginocchia e lanciare in aria quei due piccoli benedetti schifosi dadi. Intanto a Saigon Mark afferra perentorio la 6 colpi dalle mani del croupier. Se la sbatte sulla tempia destra, prende fiato ed inizia ad urlare. È un urlo lungo, dilatato, progressivo. È una “A” che aumenta di intensità e di spessore e si moltiplica e si fonde con tutte le “A” di tutti gli scommettitori che aspettano solo il grilletto scattare.
A Seattle i 2 dadi toccano terra e rimbalzano e toccano di nuovo terra e di nuovo rimbalzano e toccano ancora terra e infine si fermano. Il sole illumina 2, e solo 2, facce.  A Saigon il grilletto è scattato. 4 tipi di particelle fisiche muovono velocemente su di Mark; nell’ordine: verso gli occhi i fotoni della fiammata portano luce e calore; verso la tempia i duri legami atomici che formano la pallottola; verso le orecchie le onde sonore generate dallo sparo; verso il naso le molecole della polvere da sparo bruciata. La luce è la prima, la pallottola è la seconda, suono e odore giungono fuori tempo massimo, troppo tardi per essere percepiti. Il ciccione Jerry non crede ai suoi occhi: sono due 6 quelli che il sole illumina. Anche Mark è stupefatto: quella luce accecante della fiammata ora si è affievolita e mostra sorridenti i 2 dadi, i due numeri 6, e la loro somma che fa 12. Intuisce ma non capisce. È felice e spaventato. Con la destra si tocca la tempia leggermente indolenzita ma intatta, con la sinistra afferra i 2 game boy. Il bambino si chiama Mark Kaplan e ora lo sanno tutti. Il ciccione Jerry ha l’impressione che a Mark fumi la tempia. Mark guarda il sole e sa che Dio gli ha dato una seconda possibilità, a patto che in tutto questo caos di spazio e tempo trovi almeno una buona morale. Mark pensa velocemente: 1 pallottola, 2 dadi, 12 punti. La prima morale è che la moltitudine è meglio dell’unità. La seconda morale è che giocare coi numeri è bello, con le pallottole no.

raccontino circolare (racconti del venerdì #1)

…quando capì che la fine era prossima fece un rapido calcolo di quanto le potesse mancare. Certo, non avrebbe potuto essere un calcolo estremamente preciso, nelle sue condizioni poi… tuttavia conservò la necessaria lucidità per giungere ad un risultato soddisfacente. Anni di esperienza come infermiera di pronto soccorso la potevano aiutare, altrettanto la visione diretta del proprio stato. Inserì anche una variabile di nessun valore scientifico, ma che a suo avviso era comunque affidabile e non poteva essere trascurata. Si trattava di un fattore di “attaccamento alla vita” che nel suo caso stimava molto elevato e che avrebbe, in misura delle sue condizioni attuali, ritardato l’avvento del buio. Il risultato che produsse con una buona sicurezza fu di tre minuti. Cosa poteva fare in tre minuti? Come impiegare quel tempo che il suo Dio le donava? Come valorizzarlo? Allungò la mano verso il quadernino a copertina verde sui cui era solita prendere appunti ed iniziò a scrivere l’incipit del suo ultimo racconto. Scrisse così:
«Lui la stava guardando come fosse un’altra donna, non la stessa donna con cui aveva dormito insieme gli ultimi anni, non quella donna che aveva amato, ne aveva baciato le lacrime e i sorrisi, no, lui stava guardando una sconosciuta, una sconosciuta che lo umiliava, che gli distruggeva la vita, che lo sprofondava nel grigiore della tristezza. Merita di morire una qualunque sconosciuta che ti attacca, che offende la tua dignità, i cui gesti ti bruciano addosso più di uno schiaffo in faccia? Merita di morire chi per puro egoismo personale ti schiaccia come fossi un mozzicone ormai finito? La sua ultima frase: “Basta! Vattene! Faccio quel che mi pare e non ti devo spiegazioni!”. Una lama all’improvviso sulla mano di lui. Lei lì per lì non capì ma poi, quando se la vide piantata nella pancia la riconobbe, era la lama di quel taglierino stanley che lui aveva utilizzato pochi giorni prima per aprire la scatola del computer nuovo che le aveva regalato per il compleanno. Poi lui si girò leggero e uscì. Lei si sentì mancare quando vide il proprio sangue a terra e si accasciò all’indietro finendo seduta, con sorprendente precisione, sulla poltrona della propria scrivania. Restò immobile, inebetita a guardare il proprio sangue scorrerle tra le gambe e quando capì che la fine era prossima fece un rapido calcolo di quanto le potesse mancare. Certo, non avrebbe potuto…