“Io non ho fatto proprio nulla”, disse. Erano appena tornati dalle vacanze, le valigie da disfare ancora nell’ingresso, e già la stava accusando di qualcosa. Entrati in casa il fetore li aveva investiti. Lui si era precipitato in cucina. La porta del frigorifero era socchiusa, il tanfo insopportabile. “Ci avrei giurato”, disse lui. “Chi ti dice che la colpa è mia”. Lui tirò fuori dal frigo un involto di carne, lei vide muoversi qualcosa attraverso la carta oleata e cominciò a urlare. Lui non ci badò, si liberò dell’involto gettandolo nel secchio. Lei se ne stava ferma a guardare, come chi si aspetta la fine del mondo. Le tremavano le mani. Lui represse a fatica un conato di vomito, spalancò la finestra poi, d’istinto, la prese per mano. “Andiamocene di qui”, disse. Nello scendere le scale, però, mollò la presa e affrettò il passo, tanto che lei dovette quasi correre per stargli dietro. Salita in macchina le venne da piangere. Vergognandosene, come si fosse ritrovata a urlare in mezzo a una strada, si abbandonò al pianto, piena di una rassegnazione dolcissima verso ogni cosa morta in fondo alla pattumiera, che aveva visto muoversi come fosse ancora viva, ma passata a una forma diversa e terribile oltre la vita. “Non è questione di farla tanto lunga”, disse lui. Faceva caldo, lei cercò nella borsa un fazzoletto, per tirare su con il naso e lasciar passare lo spavento. Lui non tentò di consolarla. C’era voluto del tempo perché accadesse, giorni e giorni mentre loro erano in vacanza. Li avevano trascorsi al mare, giacendo immobili all’ombra, alla larga dal sole, sotto l’ombrellone. C’era voluta una dimenticanza protratta nel tempo perché accadesse, la porta del frigo era rimasta aperta, c’era poco da fare. Di chi era la colpa? Non aveva importanza.
Racconto di Emanuela Cocco (http://www.franzbiberkoff.it/)