UNA DEGRADANTE ANSIA INTERCLASSISTA – due momenti di degrado in PETROLIO di Pier Paolo Pasolini

UNA DEGRADANTE ANSIA INTERCLASSISTA – due momenti di degrado in PETROLIO di Pier Paolo Pasolini

«…nella sua faccia era impresso come un sorriso, deformante e continuo, di chi essendosi perduto o degradato è innocuo. Però quell’uomo stava morendo.» (Appunto 103).

Iniziamo con l’esposizione del metro, misurante e misurato: degrado, sostantivo maschile, derivato da degradare, graduale passaggio da una condizione migliore a una peggiore; degrado ambientale, decadenza, decadimento, degradazione, deterioramento, scadimento. Questo dice il sito della Treccani.

Nel dizionario di Repubblica, l’uso di degrado è in ambito ambientale e sociale: deterioramento subìto da determinati contesti sociali, urbani e ambientali per cause socio-economiche: il degrado del centro storico; il degrado urbano; il degrado delle coste; vivere in condizioni di degrado.

Il De Mauro è più stringato ma introduce il concetto moralistico di costume: deterioramento, decadimento, il degrado urbano, il degrado ecologico, il degrado dei costumi.

Poi un cartaceo, il De Agostini del 1990, dove degrado, degradarsi e degradazione, abbracciano, oltre ai precedenti, anche ambiti per così dire “spirituali”, assumendo la funzione di giudizio morale: disonorarsi, avvilirsi, umiliarsi, compiere azioni ignobili, perdere la propria dignità, vivere in uno stato di abiezione.

Esiste, infine, un sentire comune che comprende tutto quanto esposto dai vari dizionari ma privilegia alcuni usi e sensi rispetto ad altri. Per capirsi, il degrado delle coste e il degrado ecologico sono forme lessicali poco adoperate, vaghe e confuse, mentre hanno un immediato e potente potere di significazione locuzioni quali “una vita nel degrado”, “un lavoro degradante”, “degli atti degradanti”, “un ambiente (sociale) degradato”. Intendo dire che il degrado delle cose – naturale, ovvero entropico – non coinvolge, non richiama un vissuto, non muove l’immaginazione quanto il degrado umano, a sua volta riferibile all’individuo – gli atti degradanti di una persona -, o al collettivo – il degrado della società, di una classe, di un popolo. Nel primo caso si dà un giudizio morale, nel secondo l’accento è sulla trasformazione, transizione “da→a” intesa come peggioramento. È pur vero che un certo grado (non de-grado) di moralismo c’è anche nella seconda accezione, quando si chiama in causa l’idea di peggioramento, tuttavia l’indagine su atti collettivi, per sua natura e prassi, ha sempre un valore di scientificità, o di distacco, maggiore dello sguardo gettato sul comportamento singolo.

Che io ricordi, degrado è un termine utilizzato con moderazione in Petrolio, e d’altronde mi sarei stupito del contrario: il moralismo giudicante di Pasolini, che non è certo assente, si tiene lontano da un linguaggio troppo compromesso con i valori della borghesia cattolica. Eppure, in questo articolo, mostrerò come le due accezioni di degrado sopra individuate e definite – il degrado di un individuo e il degrado di un gruppo sociale – siano state dall’autore isolate e meticolosamente descritte, e rivelino una complementarità utile a gettare luce sulla struttura simbolica che ha mosso l’immaginario creativo pasoliniano nella scrittura del suo ultimo (incompiuto) romanzo.

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«Ma per quanto brutto e ripugnante sia il Merda, con quegli spilocchi dietro il collo e alle basette, quei dentini gialli da sorca, quella faccia unta piena di cigolini che sembrano cacate di mosche, e quell’espressione la cui sufficienza è piena d’odio contro tutto e tutti benché non [disgiunto] da un’ansia [(ben nascosta)] con la quale egli va mendicando l’attenzione – i suoi ‘pari’ e ‘coetanei’ che sono ‘esposti’ nella luce vermiglia di Via XXX XXX sono ancora più brutti e ripugnanti.» (Appunto 71d)

Comincio con il degrado inteso come trasformazione e peggioramento collettivo. Circa 60 pagine dell’edizione Einaudi 1992 sono la narrazione dettagliata di una allucinazione – ma potremmo anche chiamarla visione mistica – che coglie il protagonista Carlo Valletti mentre una sera ascolta storie futili narrate da vaghi conoscenti sotto gli archi del Colosseo. La visione di Valletti ha come protagonista un giovane di circa venticinque anni chiamato Il Merda, il quale, abbracciato alla sua ragazza Cinzia, percorre Via di Torpignattara partendo dall’incrocio con Via Casilina in direzione di Via Tuscolana. Il lungo tragitto della passeggiata è scandito da tanti piccoli incroci con traverse laterali e a ognuno di questi la visione cambia mostrando nuovi dettagli, puntualmente narrati da Pasolini nell’arco complessivo di 29 appunti icastici, feroci, lucidi, visionari e grotteschi, strutturati secondo un modello “infernale” diviso in 15 gironi e 5 bolge. Il Merda è un perfetto rappresentante dei giovani delle periferie romane del tempo di Carlo Valletti e, fedele al suo soprannome, è descritto come un concentrato di iperbolica bruttezza e repellenza. L’occhio della visione segue la camminata del Merda e di Cinzia come una telecamera a campo largo, dando modo a Pasolini di descrivere, oltre ai due protagonisti, il quartiere di Torpignattara e i suoi abitanti, ritratti come travolti e trasfigurati dal conformismo consumistico piccolo-borghese dei ’60 e ’70. Ma la visione non si limita a mostrare la quotidianità coeva al Valletti: in trasparenza ad essa, infatti, illuminata con colori sbiaditi tra il grigio e il giallo, è possibile vedere anche i medesimi luoghi, strade, incroci, abitanti, con una sfasatura temporale di sette anni prima. Lo stesso sguardo sinottico, quindi, permette il confronto – impietoso – tra il prima e il dopo, palesa il peggioramento di un popolo, ovvero il suo degrado.

«Ebbene tutti costoro – che non dimentichiamolo, sono brutti e ripugnanti […] – emanano un odore tutto uguale, di barbiere e di corpo lavato male.

[…] È l’odore dell’impiegato fascista o dell’avvocato clericale: del bottegaio che esce sbarbato, fresco, abbronzato dal bagno; del capo d’azienda giovane e efficiente che adopera dell’acqua di colonia francese.

Questo odore è anche l’odore dei sessi: che, o sono lavati male – e quindi il sapone, mescolato all’urina, rende l’odore dell’urina un fetore; oppure il talco mescolato alla ‘caciotta’, rende l’odore della caciotta, per quel poco che XXX, asfissiante, Se invece sono lavati bene, il loro asettico non odorare di nulla, rende quei sessi, schifosamente, della povera carne, dei deboli ciondolanti organi anatomici.» (Appunto 71z)

I 29 appunti dedicati alla visione del Merda, oltre a essere tra i momenti letterari più alti e coinvolgenti di Petrolio, sono l’occasione per il manifestarsi del Pasolini sociologo, quello già apparso negli Scritti Corsari, che coglie la trasformazione in atto di quelle fasce della società italiana che un tempo si sarebbero definite classe operaia o proletarie, verso l’omologazione piccolo-borghese, attratte dalle sirene del benessere individuale, dell’edonismo, del consumo, del successo. Permettono l’accurata descrizione, quasi etnografica, del proletariato e sottoproletariato romano che viveva nelle periferie sud-est della capitale nei ’60 e ’70, una descrizione malinconica (la malinconia dell’antropologo che osserva mondi scomparire) ma anche furente per quella che Pasolini definisce distruzione di identità culturale, genocidio culturale da parte del potere capitalistico che tramite l’arma del consumismo e della televisione e della scuola pubblica omologa tutti all’ordine borghese post-fascista. Ed ecco che in pochi anni la «gente bellissima: donne grasse e scarmigliate con vestaglie nere e sporche […] vecchi con facce assatanate […] delinquenti ubriaconi [e poi] pipinare di ragazzini mezzi nudi, con le pance fuori, tutti mocciolosi» (Appunto 71c) viene sostituita da giovani «brutti e ripugnanti, divorati da una degradante ansia interclassista (con quelle loro borsette da puttane); sbiancati da una nevrosi che gli fa venire la bava alla bocca e gliela storce lividamente; brutalmente pronti a rinnegare tutto ciò che sono stati loro stessi o i loro fratelli» (Appunto 71u), gente insomma che «non aveva più la purezza della povertà […] non creava più il proprio modello umano […] non opponeva più la sua cultura a quella dei padroni» (Appunto 124).

La condanna pasoliniana di tale degrado è senza appello: «Ecco là gli antichi dritti e bulli di Torpignattara, che considerano un vanto la loro magrezza, la loro finezza, i loro atteggiamento delicati, lo stare con la spalluccia un po’ alta e il fianco in fuori, il fare con le mani gesti un po’ cascanti e [xxx]. I loro fratelli maggiori – i cui corpi erano stati lì, forti, poveri e violenti, solo pochi anni prima – se li sarebbero tutti inculati dal primo all’ultimo, o gli avrebbero dato fuoco. Ma probabilmente non avrebbero creduto ai loro occhi e li avrebbero presi per allucinazioni.» (Appunto 71v).

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«Era un riccetto. I suoi capelli erano ricci ricci, ma lui, forse vergognandosene, se li era fatti tagliare corti, e se li pettinava con una forte e dritta riga da una parte. Sotto quei riccetti fitti, che formavano sulla fronte un ciuffo abbastanza [spavaldo], anche se così ben potato, la faccia era una onesta faccia di garzone; allegro di carattere e serio di propositi. «Che c’è?» chiese sorridendo. E guardava interrogativo Carlo che a sua volta guardava come XXX quel suo gonfiore sotto i calzoni. Era un gonfiore potente, di cui, al solito, Fausto un po’ si vergognava perché denunciava la sua ingenuità e la sua forzata castità di ragazzo: oltre che la sua deplorevole debolezza a essere così eccitato alla prima occasione. Doveva essere fin da principio, fin da quando erano entrati in quel pratone, che egli si teneva dentro i suoi umili calzoni di tela leggera, quel gonfiore. Che aveva qualcosa di bestiale e, appunto, osceno. Fausto infatti non era tanto alto di statura: e quel bastone che gli urgeva contro i calzoni – adesso che, sbottonati, avevano un po’ allentato la stretta – fin quasi a volerli spaccare, aveva qualcosa di eccessivo e di [priapesco].» (Appunto 55).

Restiamo nella zona di Via Casilina e da Torpignattara ci spostiamo nei pressi di un imprecisato pratone dove si svolge una delle scene più conosciute e discusse di Petrolio, appunto il Pratone della Casilina. Tratto del Pratone in merito alla seconda tipologia di degrado che voglio evidenziare nel testo pasoliniano, quello che sopra ho definito individuale e che ho legato, nel suo essere messo in luce, ovvero svelato, a un intento moralistico. Chiarisco – anzi: ripeto – che il moralismo potenziale della vicenda del Pratone non è minimamente agitato né evocato da Pasolini che invece descrive gli atti di quel capitolo con una empatia rara, profonda e per nulla giudicante. Il moralismo presente nel concetto di degrado, semmai, è tutto mio, e non perché io sia un Savonarola censore di comportamenti altrui, tutt’altro, ma perché osservo e significo in base a un sentire comune che successivamente posso anche discutere, criticare, rivoltare e rinnegare, ma che di primo acchito mi orienta nel mondo condiviso con gli altri. Cosa dunque accade di evidentemente degradante in questo pratone notturno rischiarato dalla luna e «riempito da un unico profondo odore, quello del finocchio selvatico» (Appunto 55)? Cosa, che il sentire comune, da me chiamato in causa, non potrebbe altrimenti definire che degradante? 

«Ben presto il cazzo si gonfiò, si protese. Forse non era più grande di quello di Sandro o di Sergio, ma pareva il doppio. La sua forma dritta, piena di piccoli nodi di vene ma compatta, intensa, fino alla glande scoperta a metà, e odorosa: finalmente odorosa sia dell’urina, il cui zampillo aveva appena finito di sgorgare sul prato, sia di seme rappreso: o forse no, Erminio non era il tipo da masturbarsi ,e non doveva neanche aver [scopato] da poco, tanta era la violenza e il gonfiore del suo membro: forse era l’odore del seme contenuto dentro; ed (…) ad esso si mescolava un odore [di sesso], caldo, intenso, quasi profumato, che si accentuava nei testicoli , forti e tesi dentro la pelle pelosa. Era il pelo stesso che profumava. Era il profumo del sesso di un uomo molto [forte e sano], il cui cazzo è talmente virile da aver perso ogni ricordo della sua tenerezza infantile. Era così che doveva diventare: enorme, potete, caldo e odoroso.» (Appunto 55)

Il protagonista, Carlo Valletti, un ingegnere dirigente di alta fascia dell’ENI, uomo coltissimo, di famiglia benestante e borghese seppur di origine contadina, solidamente ancorato ai valori della cultura cattolico-popolare e antifascista, paga con moneta sonante una ventina di sconosciuti adolescenti, o poco più, che stanno passando la serata in questo prato urbano fatto di erba secca, terriccio polveroso, immondizia e cardi spinosi; li paga per praticare a tutti loro sesso orale, e per farsi sodomizzare lì, in quello stesso prato. 

Circa 30 pagine di minuziosa descrizione di quei ragazzi, dei loro corpi, visi, odori, del loro sesso e del suo farsi oggetto del loro possesso. Una degradazione che non può essere letta altrimenti che come atto di ribellione, un deliberato oltraggio a tutti i valori borghesi che il Valletti-Pasolini indossa ogni dì come un’elegante accollata cravatta in una giornata di metà agosto e che la sera, finalmente, può strapparsi di dosso gettandola a terra. Ma non si tratta dell’oltraggio rivoluzionario dei ’60 illuminato dal “sol dell’avvenir”, né di quello libertario della cultura psichedelica e della Summer of Love: è un oltraggio malinconico e disilluso, nichilista, oscuro e demoniaco, un demoniaco che però nulla spartisce con la religione:

«non si trattava affatto di Demoni appartenenti a un Inferno dove si scontano condanne, ma semplicemente appartenenti agli Inferi, là dove si finisce tutti. Insomma, poveri Dei, che se ne andavano in giro lasciando dietro a sé il loro odore di cani, astuti e rozzi […]. Senza però né lutto né dolore: poiché nell’essere funebre consisteva l’odorosa, silente, bianca, e perdutamente quieta e felice, forma della città notturna, dei prati, del cielo. Naturalmente gli Dei degli Inferi, andandosene in giro in quella notte senza umidità […] erano soprattutto attratti da quel gruppo di loro simili che se ne stava in cima a un montarozzo del pratone: si erano andati evidentemente a mescolare fra loro, era chiaro, come Spiriti o Geni protettori, divini, ma nel tempo stesso umili, soggetti e fedeli come cani.» (Appunto 55).

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«Carlo non aveva [ancora] capito quale legame intimo e supremo ci fosse tra povertà e corpo, e come il corpo ne fosse avvantaggiato, preservato com’era, così, nella sua “pasta” popolare che era salute, innocenza, barbarie, delinquenza: tutto fuorché senso di colpa, banalità e volgarità.» (Appunto 43a).

Dove, infine, possiamo far incontrare e ricomporre i due momenti di degrado? Come armonizzare il Pasolini analitico che attraverso il personaggio del Merda registra la scomparsa di un popolo e di una cultura col Valletti – alter ego di Pasolini – che nel Pratone della Casilina si lascia travolgere dalla passione e dalla possessione? Il corpo è la risposta, il terreno dell’incontro e della ricomposizione del senso. Le identità culturali che nell’analisi pasoliniana si trasformano, e nel trasformarsi si degradano, si manifestano attraverso i segni del corpo, gli sguardi, le espressioni, la gestualità, la camminata, la postura. Nel corpo si inscrivono le identità, i valori, l’immaginario di un popolo, e in tutta l’opera di Pasolini, letteraria quanto cinematografica, il corpo è il significante supremo.

Così come la passione ai limiti, o oltre i limiti, del grottesco, che travolge Valletti, non cela forse una disperata – fisica – ricerca di una società che non c’è più, la società del proletariato urbano ormai massificata negli stili di vita piccolo-borghesi? Quella di Valletti è una passione per visi e corpi che portano inconsapevolmente (senza averne ormai coscienza) residui di nobili appartenenze operaie e contadine, corpi di emigranti, corpi di “malandrini” semianalfabeti; è una passione avida per le proprie radici storiche e sociali; una passione disperata per un mondo che scompare perché ha barattato la propria dignità, ha perso, è stato ingannato. Una passione che è anche un patire, e un patire che è anche uno scontare. Cosa? Il senso di colpa di essere passato, lui per primo, dall’altra parte, dalla parte di chi attua il possesso («Il Possesso è un Male, anche per definizione, è il Male: quindi l’essere posseduti è ciò che è più lontano dal Male, o meglio, è l’unica esperienza possibile del Bene…» Appunto 65), dalla parte dei borghesi benestanti e di successo, di esser l’avanguardia di un’odiosa transizione sociale tendente al degrado culturale.
«I veri fascisti erano ora in realtà gli antifascisti al potere. Il potente era Carlo, non quei piangenti bambini stupidi che non conoscevano l’origine del loro dolore. […] Erano dei piccoli borghesi senza destino, messi ai margini della storia del mondo, nel momento stesso in cui venivano omologati a tutti gli altri.» (Appunto 126)

Il “male” e il fascismo nell’ultimo Pasolini (Salò e Petrolio)

finzione (fotogramma da Salò)
finzione (fotogramma da Salò)

realtà (foto delle torture nella prigione di Abu Ghraib)
realtà (foto delle torture nella prigione di Abu Ghraib)

 

 

 

 

 

 

 

 

Salò rappresenta cinematograficamente il “male”, e lo fa dandogli la veste storica del fascismo repubblichino. Il fascismo è l’immagine chi si accompagna al concetto di “male” per farne un significante riconoscibile. Il punto da indagare è se la scelta pasoliniana di adottare il fascismo come forma storica – incarnazione – del “male”, sia mirata a una condanna assoluta del fascismo oppure sia semplicemente dettata dalla necessità di “vestire” storicamente e socialmente il “male”, ovvero farlo apparire nella Storia attraverso l’uso di un qualunque momento storico dell’umanità.

In realtà il “male” in Salò trascende il fascismo e l’esperienza storica repubblichina. Il “male” in Salò non è in alcun modo un documento storico e soprattutto è avulso dalla Storia perché se nella Storia si manifesta – di qualunque momento si tratti – della Storia si disinteressa: non ha finalità teleologiche, non risponde a un disegno di conquista dell’umanità in un contesto manicheo di lotta tra tenebre e luce. Il “male” di Salò, il “male” pasoliniano, è autoreferenziale, vive di se stesso, è interessato solo a se stesso. È come un buco nero, un vortice che attrae tutto a sé e nulla rilascia. La pianista che si getta nel vuoto di fronte alla scena finale delle torture collettive è emblematica in questo senso: il suo movimento è verso il luogo delle torture, non è a fuggire da esso. La pianista si lancia verso il “male” e vi si annulla perché dopo averlo visto all’opera non può darsi alla fuga, perché non potrebbe più vivere gestendo quella parte di “male” che ormai è in lei, è entrato attraverso i suoi occhi, alberga nella sua memoria. Il “male” in quella forma così assoluta non lo si può gestire, divora. Altrettanto vale per le figure dei quattro “signori”. Questi, più che essere uomini che consapevolmente scelgono da dare “male”, sono strumenti inconsapevoli di qualcosa che li trascende: dal “male” sono agiti e posseduti. Nel film non hanno alcuna vestigia di umanità, sembrano semmai demoni che non godono semplicemente per il male che arrecano ma godono perché essi sono il “male” che si manifesta e che vive colpendo chiunque, a partire da se stessi. Non hanno nessun interesse verso le loro vittime, non sono mossi da odio personale o politico verso loro, semplicemente hanno bisogno di vittime perché il “male” non può manifestarsi senza queste, e se stessi sono vittime felici delle proprie depravazioni inenarrabili. Al “male” interessa esclusivamente l’atto maligno, ed è questo un atto che vive il suo limite proprio nella Storia: «noi vorremmo uccidervi per l’eternità» dice ad un certo punto uno dei quattro carnefici. Il “male” tende quindi ad eternarsi, a divenire principio fuori dal tempo.

C’è una sorta di forza centripeta che muove la struttura del film e che, come in un gorgo, aumenta di intensità proporzionalmente al suo procedere verso l’atto finale che tutto ingoia. All’inizio c’è la Storia ma è solo un pretesto: si parte da immagini riconducibili al fascismo e alla guerra, i rastrellamenti, Salò, Marzabotto, e si finisce con un’apoteosi maligna che è fuori da qualunque riferimento storico, è l’inferno. Il Pasolini di Salò non è storico né sociologo, è semmai un uomo in preda ad una visione a carattere apocalittico. Ma, come San Giovanni, Pasolini è un artista, non un passivo “megafono di Dio”. La sua è un’estasi che controlla razionalmente e che riporta in scena con la precisione di un orologiaio. Lavora su tempi dilatati e silenti, unisce inquadrature rigidamente simmetriche a un movimento spiraliforme che tende a chiudersi in sé, a svanire nell’implosione. A tratti sembra richiamarsi a Kubrick, a quella sua tragica certezza sull’unione indissolubile tra il manifestarsi della razionalità e del “male”. Ma poi l’estasi riprende il sopravvento e dalle geometrie di Kubrick si passa al caos di Bosh e del suo Giudizio universale riecheggiante nelle torture finali. Ma impressiona la glacialità delle ultime scene: un silenzio indifferente che mette i brividi e che ancor più di Bosh mi rammenta l’ineluttabile pessimismo della Flagellazione di Piero della Francesca.

Ci si può anche leggere – ed è stato spesso fatto – un’allegoria sul potere. I quattro “signori”, l’Eccellenza, il Presidente, il Monsignore, il Duca, rappresentano poteri sociali e politici, quello giudiziario, quello economico, quello religioso e quello dell’aristocrazia. Salò diviene quindi l’immagine di una degenerazione del potere – ma la cosa mi appare semplicistica – o più probabilmente la lucida constatazione che il “potere” è, come il “male”, fine a se stesso («la sola vera anarchia è quella del potere» afferma il Duca): il potere non è niente più che un insaziabile appetito. Non esiste conseguentemente rapporto sociale che non sia rapporto di potere e che – questo sì è molto pasoliniano – non risponda alla logica della complicità tra vittima e carnefice. Ricordo bene di aver letto in un passo di Petrolio una frase che pressappoco diceva: «non c’è disegno di carnefice che non sia suggerito dallo sguardo della vittima». Se poniamo attenzione al fatto che Petrolio e Salò risalgono all’incirca agli stessi anni – tra il ’73 e il ’75 il romanzo, mentre il film data 1975 – probabilmente sveliamo una chiave di lettura interna – intima e inconscia – all’autore stesso. Ancora Petrolio: «il Possesso è un Male, anche per definizione, è il Male: quindi l’essere posseduti è ciò che è più lontano dal Male, o meglio, è l’unica esperienza possibile del Bene…» [appunto 65, p. 319]. Salò, quindi, sembra risolversi intorno a un dualismo tra la carne che mangia (possiede) e la carne che viene mangiata (viene posseduta). Omosessualità, sodomia, il “male” del carnefice che possiede e il “bene” della vittima che si fa possedere… temi che girano intorno alle ultime opere di Pasolini, fantasmi che sembrano non dargli pace, ancora “buchi neri” che attraggono ma non svelano nulla. I fantasmi tormentano Pasolini, come suggerisce anche il suo amico Alberto Arbasino in una intervista sul quotidiano “La Repubblica” del 21 ottobre 2005: a una domanda riguardo la sua opinione su Salò, tra le altre cose Arbasino parla di un film angosciante, ma «l’angoscia che quel film mi trasmetteva non era tanto per le immagini che vedevo, quanto perché un amico si era arrovellato su quei fantasmi». E quali erano i fantasmi su cui si arrovellava il Poeta? L’esistenza del male? Le torture? Le violenze? Le ingiustizie? Più probabilmente, parafrasando il film di Jonathan Demme, si trattava de “l’innocenza del silenzio”, il silenzio rassegnato delle vittime, non di chi possiede ma di chi viene posseduto. Il suo silenzio.

Nonostante ciò, l’esegesi del film ha sempre trascurato la poetica pasoliniana – intima, e quindi incomprensibile – per una lettura ideologica semplice e a tutti comprensibile. Inquadrare Salò nella “visione antropologica” pasoliniana, quella per intenderci degli Scritti corsari, non è difficile né errato, in un certo senso direi che è scontato. Che Salò rappresenti il vertice estremo della degenerazione del potere può essere suggerito anche dal modo di porsi e del sesso e della violenza: non c’è alcuna sorta di piacere, non c’è motivazione contingente, c’è solo fame e voracità, metafore dell’avidità del potere che si ciba dei corpi altrui, o anche metafora dell’avidità consumista.
Ma i “falli” smisurati e le sodomizzazioni che sovrabbondano in Salò come in Petrolio sfuggono alle interpretazioni politiche e sociologiche. Eppure Pasolini è stato anche questo, un esteta dell’atto sodomitico. Ed è in questa estetica ossessivamente riprodotta che risiedono i suoi fantasmi, che emerge confuso il senso del “bene” e del “male”. Dice Blangis (il Duca): «Il gesto sodomitico è il più assoluto per quanto contiene di mortale per la specie umana; il più ambiguo, per quanto accetta, allo scopo di trasgredirle, le norme sociali; è infine il più scandaloso, perché pur essendo il simulacro dell’atto generativo, ne è la totale derisione». Ecco un esempio di come l’uomo cerca “cultura” all’interno dei propri istinti naturali.
La mia impressione su Salò – come su Petrolio – è che queste opere nascondino un tentativo di mettere a fuoco quei fantasmi. Sembra come se Pasolini giri intorno ai propri “buchi neri” nel cercare di conoscerli a fondo, dargli ordine, risolverli. Ma non ci riesce, e l’intelligibilità delle due opere diviene necessariamente parziale ed insoddisfacente. D’altronde un’opera d’arte non è un rebus: va ascoltata, non “decifrata”. L’idea di Salò come film metafora sul potere ha una sua verità ma Salò è sempre qualcosa di più perché è Pasolini a essere qualcosa di più. Non sono mai stato attratto dall’idea che esista una razionalità assoluta, estranea alla dimensione intimamente umana di chi la pratica; le grandi teorie sociali portano sempre il marchio dell’individualità e dell’intimità e di chi le crea e di chi le sposa. Allora il Pasolini sociologo (e l’artista Pasolini) non può essere disgiunto dall’uomo Pasolini e dalla sua “vita interiore”.

Torniamo a Petrolio, vero scrigno dell’interiorità pasoliniana (dalla quarta di copertina dell’edizione Einaudi: «…un libro […] che è una specie di ‘summa’ di tutte le mie esperienze, di tutte le mie memorie»). L’appunto 67 intitolato Il fascino del fascismo pone con evidenza equivalenze e contrapposizioni illuminanti. Si parte dall’enunciazione di una sorta di motore esistenziale dell’umanità: il “sentimento del passato”, il tentativo (tragico perché inesorabilmente fallace) di ricostruire, ripercorrere, immaginare, interpretare la vita dei padri e il loro passato. La continuità del passato invade tutta la vita presente: «La stabilizzazione del Presente, le Istituzioni e il Potere che le difende, si fondano su questo sentimento del Passato, come mistero da rivivere: se noi non ci illudessimo di rifare le stesse esperienze esistenziali dei padri, saremmo presi da un’angoscia intollerabile, perderemmo il senso di noi […]. Il Fascismo esprime in modo primitivo e elementare tutto questo: perciò dà il primo posto alla filosofia irrazionale e all’azione […]. Il Fascismo è l’ideologia dei potenti, la rivoluzione comunista è l’ideologia degli impotenti. […] I potenti sono anche carnefici, gli impotenti sono anche vittime» [p. 263, miei i corsivi].

E poche righe dopo: «Nel potente non c’è ambiguità; e così in coloro che decidono di obbedire al potente […]. Le vittime sono invece profondamente ambigue: la loro decisione di rifiutare il potere che hanno a portata di mano, per crearne un altro in un domani incerto, improbabile, spesso idealizzato e utopistico, non può non insospettire. Si può condannare il potente […] e si possono condannare i giovani che […] decidono di stare con i potenti […] in tutto questo non c’è niente che insospettisca […]. Anzi, è difficile pensare come mai a qualcuno possa venire in mente di fare la scelta contraria…» [pp. 263-264].

Concludo il “saccheggio” a Petrolio con l’appunto 126 intitolato Manifestazione fascista (seguito). Ora è Carlo Valletti (il protagonista dell’incompiuto romanzo) che riflette osservando al centro di Torino lo svolgersi di un corteo fascista: la decadenza antropologica che dà forma allo sguardo del Pasolini sociologo non risparmia nemmeno i nuovi fascisti: «Le persone che passavano davanti a Carlo erano dei miseri cittadini ormai presi nell’orbita dell’angoscia del benessere. […] Facevano pena, e niente è meno afrodisiaco della pena […]. Erano dei piccoli borghesi senza destino, messi ai margini della storia del mondo, nel momento stesso in cui venivano omologati a tutti gli altri» [p.503]. E poche righe dopo: «I veri fascisti erano ora in realtà gli antifascisti al potere. Il potente era Carlo…».

In definitiva, mi sembra che Petrolio chiarisca Salò in questi termini antitetici:

  • da un lato abbiamo male = potere = fascismo = carnefice = possedere sessualmente
  • e dall’altro abbiamo bene = impotenza = comunismo = vittima = essere posseduti sessualmente

Insomma, è l’essenza stessa del potere – qualunque potere – ad essere fascista, e tale potere è sempre ontologicamente “male”.
Mi sembra una chiave di lettura utile per orientarsi meglio nel labirinto pasoliniano ma, come ho detto prima, lungi da me l’idea di “decifrare” Pasolini e le sue opere in termini di rebus. La struttura oppositiva delineata si limita a dare indicazioni, coordinate generali, tuttavia in nessun modo può essere esaustiva né della poetica dell’Autore, né di Salò, né di Petrolio. Salò stesso, a ben pensare, la contraddice: i fascisti carnefici non si dedicano solo al “possedere” (sessualmente) ma a loro volta si fanno possedere con gioia. Forse la contraddizione rientra se si pensa che il farsi possedere dei quattro “signori” non è una passiva e silenziosa accettazione di una prevaricazione altrui bensì volontaria scelta. Probabilmente in questo caso non conta più la distinzione tra atto passivo e attivo, conta l’opzione intenzionale per il gesto sodomitico che – ripeto la citazione del Duca Blangis già prodotta sopra – «…è il più assoluto per quanto contiene di mortale per la specie umana; il più ambiguo, per quanto accetta, allo scopo di trasgredirle, le norme sociali; è infine il più scandaloso, perché pur essendo il simulacro dell’atto generativo, ne è la totale derisione». La sodomia quindi è “male” perché deride la vita e la mortifica mentre l’accettare in silenzio, da vittima rassegnata, la prepotenza della possessione è, per Pasolini, il “bene”, e si tratta di un “bene” a forte connotazione politica e rivoluzionaria. Ma il “male”, nell’Italia dei primi anni ’70, ha trionfato inesorabilmente sul “bene” dell’utopia comunista e Pasolini ne prende nota nell’osservare l’umanità che vive nelle nuove periferie: «…quella gente non opponeva più la sua cultura a quella dei padroni, quella gente non conosceva più la santità della rassegnazione, quella gente non conosceva più la silenziosa volontà della rivoluzione» [Petrolio, appunto 124, p. 497, corsivi dell’Autore].

L’omologazione televisiva cambiava la gente e faceva morire le grandi utopie rivoluzionarie: quella fascista, “virile ed ascetica” (vedi appunto 126, p. 503), e quella comunista, forte nella misura della sua rassegnazione e del suo silenzio. Ma se il fascismo moriva come utopia rivoluzionaria, esso permaneva ineliminabile nell’esistenza maligna del Potere.

(articolo già pubblicato in una prima versione in Amnesia Vivace n° 16, dicembre 2005)

intervista su Salò a Pasolini

link a XXX PASOLINI spettacolo teatrale