
Nel corso di questo sciagurato 2012 ho concentrato le mie forze produttive su tre spettacoli che mi vedevano impegnato in veste di autore e regista: Terzo Millennio – ripresa di un lavoro ormai vecchio di 15 anni – che è stato in scena a Milano per due settimane di marzo; XXX Pasolini, che debuttò a fine 2011 e che quest’anno ho riproposto in alcune occasioni romane tra gennaio e settembre; infine Veronica, con debutto “nazionale” a ottobre per quindici giorni. Tre spettacoli che tra prove e messa in scena mi sono costati a occhio e croce almeno otto mesi di lavoro. Se analizzo il tutto da un mero punto di vista economico, senza sofisticherie contabili… insomma il cosiddetto “conto della serva” tra entrate ed uscite, chiudo il bilancio 2012 con un saldo negativo di alcune migliaia di euro. In altre parole, potrei dire che quest’anno ho lavorato otto mesi per guadagnarmi un debito, oppure – formulazione ancor più paradossale e divertente – che ho pagato per lavorare gratis otto mesi.
Solo questo? No, per carità, ci sono state anche le soddisfazioni, i complimenti, quel bel clima da “impresa epica” che si crea nella compagnia ogni qualvolta si va in scena, una dozzina di recensioni perlopiù positive. Sì, tutte belle cose ma poi…
In base alle mie (non poche) esperienze nel settore, alla fine del 2011 avrei potuto sottoscrivere sicuramente l’affermazione che il teatro – almeno il teatro al mio livello, che è il livello della creazione indipendente – non è un’attività che ti permette un minimo (davvero minimo) di stabilità economica. Ma tutto sommato nemmeno di “dignitosa precarietà” economica. Cioè, (luogo comune) “col teatro non ci si campa”, teatro ed economia non vanno d’accordo, si ignorano completamente. Fin qui nulla di nuovo.
Oggi che il 2012 volge al termine sono costretto a rivedere addirittura al ribasso questa affermazione per riformularla nei seguenti termini: il (mio) teatro è un hobby da ricchi. E per “ricco” intendo semplicemente colui che ha una stabilità economica alle spalle che gli permette di sperperare denaro e tempo per le sue passioni. E quel “colui” certamente non sono io. Al momento, la cosa più di buon senso che posso fare è quella di fermare ogni mio nuovo progetto e limitarmi ad eventuali, sporadiche repliche a “rischio impresa zero” (esistono?).
Ora non voglio incorrere nell’errore “induttivo”, l’errore di chi proietta la propria esperienza sul resto del mondo. Cioè, non escludo che vi siano produzioni di teatro indipendente, o “off”, o “di ricerca”, o come cavolo lo si vuol chiamare, che diano soddisfazioni e certezze anche economiche. Non escludo questa possibilità ma se mi guardo intorno mi sento ragionevolmente di relegarla al ruolo di eccezione piuttosto che di regola. La regola, perciò, resta quella sopra descritta, che potrei riformulare parafrasando Cormac McCarthy: non è un teatro per poveri.
Che il teatro italiano non sia per poveri ce ne faremo tutti quanti – ricchi e poveri – una ragione. D’altronde in Italia non è per poveri la cultura, l’istruzione, la buona alimentazione etc. Il teatro italiano esisterà a prescindere dalle mie difficoltà produttive e dalle analoghe difficoltà di altre centinaia di teatranti bravi e volenterosi ma non abbastanza “ricchi” di soldi e di tempo per far sentire adeguatamente la propria voce, il proprio pensiero, le proprie idee. Un teatro sempre più irrigidito e chiuso, come casta di figli d’arte o figli di papà che si passano il mestiere di generazione in generazione, come i notai.
Che il teatro non sia per poveri è anche un sospetto che ho da anni, non potendo fare a meno di notare la significativa percentuale di rampolli della buona borghesia che infesta il nostro ambiente, spesso nascosta nei luoghi più improbabili, centri sociali, teatri occupati etc. Ma a parte il sano odio di classe che tale verità mi scatena, mi chiedo anche in che misura la barriera economica si rifletta sul prodotto artistico offerto; mi chiedo se – privi della giusta distanza storica – non ci si renda adeguatamente conto di quanto i tanti rivoli su cui si declina il teatro “d’avanguardia”, colto, sofisticato, altro non siano che l’espressione di un’arte borghese spocchiosa, compiaciuta e decadente; e mi chiedo, infine, se la progressiva scomparsa di un pubblico “normale”, quel pubblico che gli artisti e la critica invocano e desiderano come un messia taumaturgo, sia anche effetto di un’incomunicabilità tra mondi, sia anche causata dall’uso di un linguaggio – e il linguaggio è vissuto, è sensibilità, è problematiche – straniero ed elitario, in ultima analisi inutile, inutile nel senso più utilitaristico del termine. Sia, insomma, se non già atto di lotta di classe almeno il segno di un’istintiva diffidenza tra classi.








