Non è un teatro per poveri

Totò, Miseria e Nobiltà
Totò, Miseria e Nobiltà

Nel corso di questo sciagurato 2012 ho concentrato le mie forze produttive su tre spettacoli che mi vedevano impegnato in veste di autore e regista: Terzo Millennio – ripresa di un lavoro ormai vecchio di 15 anni – che è stato in scena a Milano per due settimane di marzo; XXX Pasolini, che debuttò a fine 2011 e che quest’anno ho riproposto in alcune occasioni romane tra gennaio e settembre; infine Veronica, con debutto “nazionale” a ottobre per quindici giorni. Tre spettacoli che tra prove e messa in scena mi sono costati a occhio e croce almeno otto mesi di lavoro. Se analizzo il tutto da un mero punto di vista economico, senza sofisticherie contabili… insomma il cosiddetto “conto della serva” tra entrate ed uscite, chiudo il bilancio 2012 con un saldo negativo di alcune migliaia di euro. In altre parole, potrei dire che quest’anno ho lavorato otto mesi per guadagnarmi un debito, oppure – formulazione ancor più paradossale e divertente – che ho pagato per lavorare gratis otto mesi.

Solo questo? No, per carità, ci sono state anche le soddisfazioni, i complimenti, quel bel clima da “impresa epica” che si crea nella compagnia ogni qualvolta si va in scena, una dozzina di recensioni perlopiù positive. Sì, tutte belle cose ma poi…

In base alle mie (non poche) esperienze nel settore, alla fine del 2011 avrei potuto sottoscrivere sicuramente l’affermazione che il teatro – almeno il teatro al mio livello, che è il livello della creazione indipendente – non è un’attività che ti permette un minimo (davvero minimo) di stabilità economica. Ma tutto sommato nemmeno di “dignitosa precarietà” economica. Cioè, (luogo comune) “col teatro non ci si campa”, teatro ed economia non vanno d’accordo, si ignorano completamente. Fin qui nulla di nuovo.

Oggi che il 2012 volge al termine sono costretto a rivedere addirittura al ribasso questa affermazione per riformularla nei seguenti termini: il (mio) teatro è un hobby da ricchi. E per “ricco” intendo semplicemente colui che ha una stabilità economica alle spalle che gli permette di sperperare denaro e tempo per le sue passioni. E quel “colui” certamente non sono io. Al momento, la cosa più di buon senso che posso fare è quella di fermare ogni mio nuovo progetto e limitarmi ad eventuali, sporadiche repliche a “rischio impresa zero” (esistono?).

Ora non voglio incorrere nell’errore “induttivo”, l’errore di chi proietta la propria esperienza sul resto del mondo. Cioè, non escludo che vi siano produzioni di teatro indipendente, o “off”, o “di ricerca”, o come cavolo lo si vuol chiamare, che diano soddisfazioni e certezze anche economiche. Non escludo questa possibilità ma se mi guardo intorno mi sento ragionevolmente di relegarla al ruolo di eccezione piuttosto che di regola. La regola, perciò, resta quella sopra descritta, che potrei riformulare parafrasando Cormac McCarthy: non è un teatro per poveri.

Che il teatro italiano non sia per poveri ce ne faremo tutti quanti – ricchi e poveri – una ragione. D’altronde in Italia non è per poveri la cultura, l’istruzione, la buona alimentazione etc. Il teatro italiano esisterà a prescindere dalle mie difficoltà produttive e dalle analoghe difficoltà di altre centinaia di teatranti bravi e volenterosi ma non abbastanza “ricchi” di soldi e di tempo per far sentire adeguatamente la propria voce, il proprio pensiero, le proprie idee. Un teatro sempre più irrigidito e chiuso, come casta di figli d’arte o figli di papà che si passano il mestiere di generazione in generazione, come i notai.

Che il teatro non sia per poveri è anche un sospetto che ho da anni, non potendo fare a meno di notare la significativa percentuale di rampolli della buona borghesia che infesta il nostro ambiente, spesso nascosta nei luoghi più improbabili, centri sociali, teatri occupati etc. Ma a parte il sano odio di classe che tale verità mi scatena, mi chiedo anche in che misura la barriera economica si rifletta sul prodotto artistico offerto; mi chiedo se – privi della giusta distanza storica – non ci si renda adeguatamente conto di quanto i tanti rivoli su cui si declina il teatro “d’avanguardia”, colto, sofisticato, altro non siano che l’espressione di un’arte borghese spocchiosa, compiaciuta e decadente; e mi chiedo, infine, se la progressiva scomparsa di un pubblico “normale”, quel pubblico che gli artisti e la critica invocano e desiderano come un messia taumaturgo, sia anche effetto di un’incomunicabilità tra mondi, sia anche causata dall’uso di un linguaggio – e il linguaggio è vissuto, è sensibilità, è problematiche – straniero ed elitario, in ultima analisi inutile, inutile nel senso più utilitaristico del termine. Sia, insomma, se non già atto di lotta di classe almeno il segno di un’istintiva diffidenza tra classi.

 

Quel che resta di Beckett

un giovanissimo Samuel Beckett

Nel ’95 ho “incontrato” Samuel Beckett. Amore a prima vista, una passione che ha segnato gran parte dei miei primi testi e che ancora oggi mi condiziona nel bene e nel male. Il mio “maestro” di teatro di allora, Piero Patino (fu il primo direttore artistico del Festival di Santarcangelo), di fronte alla mia nuova scoperta ridacchiava con sufficienza dicendomi cose tipo «Beckett è un grande ma la maggior parte degli autori che lo imita lo fraintende e lo tradisce; lo rendono noioso e credono che nel teatro dell’assurdo qualunque frase si scriva, o si dica in scena, vada bene, ma non è così». Già, non è così. Come è, allora?

A circa 60 anni dalla prima rappresentazione di Aspettando Godot (1953), e a 55 anni dalla prima rappresentazione di Finale di Partita (1957), è ancora abbastanza frequente assistere a compagnie che si cimentano con la lezione del Maestro, producendo drammaturgie che ne vorrebbero ricalcare l’immaginario e la poetica. Per quanto mi riguarda, come spettatore, il risultato mi lascia spesso perplesso, a volte più e a volte meno, e mi tornano in mente le parole di Patino: «credono che nel teatro dell’assurdo qualunque frase si scriva, o si dica in scena, vada bene».

Che il teatro di Beckett sia annoverabile all’interno di quel controverso genere universalmente definito Teatro dell’Assurdo è opinione diffusa e accettata a partire dal famoso saggio di Martin Esslin del 1961, ma ogni categoria storica è sempre in parte grossolana e chiunque si sia impegnato in una comparazione tra i due padri putativi del genere, Beckett, appunto, e Ionesco, avrà indubbiamente notato più la loro distanza che la vicinanza.
Semplificando, potrei dire che Beckett è fondamentalmente un tragico laddove Ionesco è commediografo. Potrei dire anche che Beckett è un filosofo, Ionesco un cronista. Che Beckett utilizza l’assurdo come metafora esistenziale, Ionesco svela l’assurdo della nostra quotidianità. Che Beckett violenta il mezzo teatrale in direzione della stasi (antiteatrale) mentre Ionesco cavalca a suo geniale modo i consueti cliché teatrali. In ultima analisi, potrei dire che Beckett è “pesante” e Ionesco “leggero”. Ed è proprio la pesantezza di Beckett il problema della sua (in)attualità e della sua continua riproposizione sotto le coperte della “nuova” ed emergente drammaturgia.
Quella pesantezza, che nell’era di Beckett era storicamente/intellettualmente innovativa e teatralmente/formalmente armonica, oggi si fa sentire in tutta la sua “gravità”, tant’è che le odierne imitazioni beckettiane risultano quasi sempre inattuali, ovvero vecchie, e non comunicative, ovvero noiose.

Perché vecchie? Perché 60 anni dopo possiamo dire che il crudo ritratto della condizione umana schizzato da Beckett – quella condizione depauperata (Aspettando Godot), disabile e intrappolata (Finale di Partita), marcescente (Giorni Felici e L’ultimo nastro di Krapp) -, è stato ampiamente digerito e non ci fa più riflettere, non ci sorprende, al massimo ci intristisce. Non è più un fosco vaticinio ma un’insopportabile realtà quotidiana. Beckett è ormai un classico e, come vale per tutti i classici, o va fatto riposare con rispetto o, se proprio lo si vuole riesumare, occorre saperlo depurare di ciò che non serve più per poi attualizzarlo con profonda riflessione. Tutto sommato nella drammaturgia contemporanea mondiale, già a partire da Pinter, Beckett è stato intelligentemente “diluito” e attualizzato in variegate forme; riproporlo oggi ancora in una soluzione “100%” mi sembra davvero anacronistico.

Perché noiose? Perché il problema delle drammaturgie contemporanee di matrice beckettiana è che dopo cinque o dieci minuti hanno detto tutto quel che c’è da dire. I restanti 50 o 60 o più minuti sono solamente ripetizione, noiosa ed inutile ripetizione. Ma la ripetizione o, meglio, la reiterazione, in Beckett non è limite bensì struttura, è in parte la forza stessa della sua opera. Si tratta di una reiterazione circolare e spiraliforme che affascina per la sua natura ipnotica. È sorretta da una rigorosa regia narrativa che conduce il personaggio e lo spettatore per progressivi gradini verso il baratro, verso quel buco nero della condizione umana che l’irlandese pone al centro della sua riflessione. Il teatro di Beckett è musicale mentre la sua attuale riproposizione è generalmente cacofonica. La stasi e l’attesa beckettiane, che sono profondamente narrative, vengono confuse con l’assenza e l’inutilità della narrazione; quei personaggi privi di un futuro che popolano gli scenari beckettiani divengono anti-personaggi indistinguibili e intercambiabili. Infine, quel linguaggio apparentemente anarchico e illogico che in Beckett non è mai una vaga e generica morte del linguaggio e/o della sua facoltà narrativa, semmai è morte della sua capacità redentiva, nei suoi seguaci contemporanei diviene troppe volte un agglomerato di parole in libertà dove piangere o ridere, pregare o dire oscenità, sono tutte valide alternative per un minestrone anti-narrativo che altro non è se non il prodotto di un clamoroso fraintendimento, in altre parole un credere che «…nel teatro dell’assurdo qualunque frase si scriva, o si dica in scena, vada bene».

Quella cieca fede in una nuova drammaturgia italiana

Harold Pinter, Premio Nobel per la Letteratura 2005

Se il modo teatrale fosse un’ampia e profonda caverna, uno di quegli antri dove ogni singolo fonema pronunciato rintocca più volte trasportato dall’eco, saremmo tutti frastornati dal continuo ripetersi a mo’ di mantra delle sillabe gì-a… gì-a… gì-a, residui sonori di uno dei termini più pronunciati, discussi, sezionati degli ultimi due anni: drammaturgia.
Penso alla “vocazione drammaturgica” che il Valle Occupato si è data (e che un teatro senta la necessità, quasi a distinguersi dagli altri teatri, di autodefinirsi a vocazione drammaturgica, già la dice lunga sullo stato della drammaturgia italiana). Penso alla recente costituzione del Centro Nazionale di Drammaturgia Italiana Contemporanea, numeroso (ad oggi più di 100 iscritti) collettivo di autori teatrali che si pone obiettivi davvero molto sfidanti. Penso all’attenzione costante e crescente che la “nuova” critica rivolge alla “nuova” drammaturgia.
Ecco, “drammaturgia” viene spesso preceduta dall’aggettivo “nuova”. La cosa è certamente da approfondire.

La nuova drammaturgia non è un genere, semmai è una speranza o, religiosamente, un atto di fede. Si attende l’avvento di una nuova drammaturgia italiana così come, soprattutto in Italia, si attendono generiche nuove ere, una nuova politica, una nuova società, un nuovo uomo della provvidenza che carismaticamente apra la fase di un mondo nuovo. L’attesa di una nuova era si unisce come un gemello siamese alla consapevolezza che l’era attuale sia decadente e senza speranza. Di fronte all’imbarbarimento palese dei costumi, delle idee, delle arti, cerchiamo tutti con ansia quell’eccezionalità che riscatti il presente e lo trasformi in un paradiso, una “tierra sin mal”, una golden age. Eccezionalità, appunto. E quale potrebbe essere questa eccezionalità che improvvisamente risolleva le sorti della drammaturgia italiana? Probabilmente l’apparire improvviso di un grande drammaturgo, un drammaturgo di livello mondiale, un nuovo Pirandello.

E questo modo di ragionare, di concentrarsi sull’eccezionale, è tipicamente italiano: attendere l’epifania del genio senza porsi il problema di come creare i presupposti affinché tale genio si manifesti, come se un meraviglioso fiore possa crescere e sbocciare in un terreno arido, non dissodato, non concimato, non costantemente irrigato. Ci si concentra sulla palingenesi operata dall’improbabile avvento della next big thing e si perdono di vista tutte quelle buone pratiche indispensabili alla fioritura dell’eccezionalità, o che addirittura renderebbero tale eccezionalità del tutto superflua. Ad esempio, per chiarire cosa intendo, Harold Pinter, l’ultimo drammaturgo ad aver vinto il Nobel, è un’eccezionalità? No, è stato semplicemente uno dei migliori drammaturghi di una nazione che di ottimi e validi drammaturghi ne sforna in continuità. E perché ne sforna in continuità? Semplicemente perché li cura. In altre parole, gli inglesi hanno cura del proprio “vivaio” drammaturgico, danno loro le giuste occasioni di visibilità, gli strumenti per la loro crescita, tutte le azioni per la loro valorizzazione.

Ci sono drammaturghi in Italia? Sì, certamente, come dicevo sopra il recente Centro Nazionale di Drammaturgia Italiana Contemporanea conta ad oggi già un centinaio di autori teatrali, e ad occhio e croce penso che almeno un altro centinaio eserciti comunque la professione. Forse la DOR potrebbe darci cifre più precise sui drammaturghi viventi rappresentati ma non mi risulta che tali dati siano accessibili. La sensazione netta è quella di un magma informe e indistinguibile. Se si domandasse, anche ai più esperti del settore, chi sono i “maggiori” drammaturghi italiani, probabilmente ognuno darebbe arbitrariamente i suoi cinque o sei nomi che, con pochissime eccezioni (i vecchi Fo e Maraini, il giovane Paravidino), discorderebbero tra loro. La verità è che non si conosce lo stato della drammaturgia italiana, non se ne conoscono i numeri, la qualità e la potenzialità. Si vive alla giornata avvolti dal completo disinteresse, quel tipo di disinteresse che crea i presupposti per le tipiche dinamiche all’italiana, per cui la giusta conoscenza e qualche soldo da investire di tasca propria aprono porte impossibili da attraversare ad altri. E quel poco che si investe sulla “novità” riguarda sempre l’estero. Penso ai tanti autori della contemporaneità teatrale occidentale rappresentati e celebrati in Italia, Koltès, Ravenhill, Crimp, Kane, Fosse, Belbel, Reza, Srbljanovic… penso a loro e penso ai tanti testi di colleghi, amici e conoscenti, che ho avuto la fortuna di leggere. Esiste una particolare differenza di qualità, stili, forme narrative, maturità e coraggio drammaturgici? No, non c’è questa differenza, la drammaturgia italiana non ha qualità da invidiare ai collegi esteri, è “semplicemente” e con ottuso pregiudizio negata. Potenzialmente in Italia potrebbe esserci un nostro Pinter o, perché no?, addirittura un nuovo Shakespeare… ipotesi puramente “in potenza”, per carità, ma comunque se ci fosse non lo sapremmo mai. Siamo completamente privi di criteri di valutazione, di strutture deputate allo sviluppo della scrittura teatrale, di un sistema chiaro e condiviso di filtri e valorizzazioni, di progetti per la promozione estera, di un sistema legislativo che protegga o addirittura imponga la propria drammaturgia.

Drammaturghi italiani umiliati e offesi, dunque? In parte sì e in parte abbiamo le nostre colpe. Le individuo sia in una certa incapacità imprenditoriale di autopromozione (che, attenzione, è cosa differente dal mellifluo irretire il potente di turno), sia nell’allergia a fare gruppo e categoria professionale superando sterili individualismi (e a questo, spero, il nuovo Centro Nazionale di Drammaturgia dovrebbe porre rimedio). Sia, infine, in una diffusa pigrizia nei confronti dell’elaborazione teorica che – secondo me – dovrebbe stare alla base della personale produzione (così come alla base dell’attività del critico), riscattando il proprio lavoro dall’episodicità tipica dell’ “ispirazione” e dall’evanescenza del “mi piace” – “non mi piace” – “funziona” – “non funziona”, per portarlo nella direzione ben più prolifica e matura di un rigoroso progetto drammaturgico, dispiegato in un lungo percorso evolutivo segnato dalle necessarie, irrinunciabili, tappe.

Da Manzoni a Castellucci: discorso semiserio sul concetto di merda nell’arte

Sul concetto del volto nel figlio di Dio - di Romeo Castellucci - Avignone

Probabilmente la lista è molto più lunga e antica, ma il primo che mi viene in mente è Piero Manzoni, artista di lontana discendenza dall’Alessandro dei Promessi Sposi. Nel 1961 sigillò le sue feci dentro 90 barattoli di conserva (numerati) a cui applicò la famosa etichetta “merda d’artista”. Tra i tanti significati dell’atto artistico – oltre quello ovviamente provocatorio – possiamo individuare: A) l’idea che tutto ciò che proviene da un artista sia di per sé artistico; B) l’idea che la creazione artistica risponda ad un processo analogo all’elaborazione intestinale; C) l’idea (molto pop-art) che la mercificazione dell’arte abbassi quest’ultima al ruolo di merda o, viceversa, elevi la merda allo status di arte.

Poi merita sicuramente un passaggio il Salò di Pasolini dove i quattro “signori”, l’Eccellenza, il Presidente, il Monsignore, il Duca, utilizzano la merda come collante sociale e oggetto sacro di un rito d’iniziazione verso l’alto, dove “alto” è il male, o il potere, o più riduttivamente il fascismo. «Dio perché ci hai abbandonato?» urlano i giovani prigionieri seminudi dentro una pentola ricolma di feci. Il Castellucci del Sul concetto del volto nel figlio di Dio probabilmente obietterebbe che quelle feci sono proprio la prova che l’abbandono non è avvenuto, semmai i “figli” devono accettare con amore l’imbarazzante eredità del Padre, e mangiarla (come, in Salò, sono obbligati a fare). Meno sofisticato è il Pasolini di Petrolio, dove il personaggio del Merda è davvero “una merda d’uomo”, non d’artista, una merda d’uomo nel senso più popolare del termine.

Infine, perdonate tanta arroganza, tra Manzoni, Pasolini e Castellucci mi ci metto anche io. In un mio vecchio testo teatrale che non ho mai avuto l’opportunità di portare in scena, un figlio (Urlo) rimprovera al padre (Eros) e alla madre (Ofelia) la loro attitudine troppo gaudente e, nel caso specifico, troppo concentrata sul cibo:

EROS – Avremo salmone e caviale.
OFELIA – Tartufi e porcini.
EROS – Aragosta, ostriche e datteri di mare.
OFELIA – Capriolo, daino, cacciagione.
EROS – E poi frutti di mare, pasta, risotti.
OFELIA – Bruschette calde con paté e olive e Bordeaux e Brunello.
URLO – E merda, merda, tanta merda!
EROS – Merda, sì! Se Dio non avesse voluto la merda ci avrebbe creati pari a Lui.
URLO – Ma siamo stati creati a Sua immagine e somiglianza!
EROS – Nelle aspirazioni! Certo! Ma nelle fattezze Lui è più avanti di noi e non ha bisogno di evacuare. L’evacuazione è il segno del nostro limite. Se noi riuscissimo a comprendere il tutto non avremmo bisogno di elaborare scarti. Finché approssimiamo, defechiamo.

Quindi Dio, che non approssima e che comprende tutto, non può fare la cacca che è invece il segno più profondo della nostra limitata condizione di umani. Ma anche tra gli umani, l’idea del proprio padre concentrato nelle sue funzioni scatologiche imbarazza e scandalizza (come l’idea che i propri genitori possano avere tra loro rapporti sessuali). Un Dio, o un padre, che rivela al figlio i propri escrementi è un Dio, o un padre, che sta morendo. Ciò che forse alcuni cattolici rifiutano nel lavoro di Romeo Castellucci è proprio questa tragica idea.

Le due culture: analfabetismi letterari e digitali

Steve Jobs presenta l'iPad

Si chiama Analfabeti digitali la piccola inchiesta pubblicata recentemente da Repubblica , e si chiama “analfabetismo digitale” l’handicap culturale messo a fuoco.
Si parte da dati statistici di fonte ISTAT 2010 relativi alla conoscenza del computer e della rete tra le varie fasce d’età in Italia e si conclude confermando esattamente quel che ci si potrebbe aspettare: primo, i giovanissimi conoscono i nuovi mezzi di comunicazione più degli adulti; secondo, l’alfabettizzazione digitale italiana è di gran lunga meno diffusa di quella americana. Nulla di nuovo, quindi. Nulla di sorprendente.
Qualcosa di più interessante sta nei dettagli. Ad esempio, la fascia d’età 45-54 anni, quella giustamente ritenuta nel pieno della vita produttiva, un’età dove mediamente si equilibrano verso l’alto esperienza, entusiasmo, fantasia e benessere fisico, ha una conoscenza di internet ferma al 53%. Questo sì mi sembra un dato agghiacciante. Probabilmente più comprensibile alla luce delle brutte peculiarità sociali italiane, comunque non meno disturbante, è il dato riferito per la stessa fascia d’età al genere sessuale: l’ignoranza digitale è più un problema femminile che maschile, e questa è un’ulteriore conferma di quanto il mondo produttivo italiano sia ostile alle donne.
In definitiva, una sociologia che ribadisce la costante perdita di terreno che il nostro Paese denuncia verso i propri “simili”, simili che in una accezione molto world business si dovrebbero definire competitor.

Mi ha invece più colpito il concetto di “analfabetismo digitale” equiparato dall’OCSE all’analfabetismo tradizionale, entrambi forieri di potenziale esclusione sociale. Mi colpisce perché mi si pone come immediata l’identificazione tra alfabetizzazione e cultura, e quindi l’analfabetismo come il grado zero della cultura. Ma si tratta davvero di un’equazione valida? Quale il rapporto tra “cultura” e i due analfabetismi?
Iniziamo con quello letterario. Si potrebbe obiettare l’ipotesi che la conoscenza della scrittura sia “solo” uno strumento – al limite il migliore – per acquisire cultura e che quindi – sempre ipoteticamente – potrebbe esistere un totale analfabeta che tuttavia possiede un elevato grado di conoscenza del mondo, della vita, delle persone. Un po’ l’estremizzazione del diffuso detto “ho preferito conoscere il mondo viaggiando e facendo esperienza piuttosto che sui banchi di scuola”. All’opposto c’è Kant, il più grande filosofo moderno che dubito si sia mai mosso da Königsberg. La vita di Kant, reale e provata, è sicuramente più credibile dell’ipotetico analfabeta colto. Cioè, la nostra è una cultura profondamente letteraria e l’idea che la cultura sia un oggetto indipendente dal linguaggio che la descrive e la vivifica è assurda. E se il linguaggio è per definizione metaforico allora “tutta” la cultura lo è.

Anche l’analfabetismo digitale è il grado zero della cultura? Per carità, basti pensare all’ignoranza abissale di tanti hacker, web master o web qualunque cosa, così come mi vengono in mente le personali conoscenze di persone coltissime ma in evidente imbarazzo di fronte all’accensione di un computer. Risponderei allora che l’analfabetismo digitale è il grado zero della cultura digitale, della cultura letteraria no.
Ma le due culture non effettuano una forma armonica di transizione, di dissolvenza incrociata l’una nell’altra, non si conseguono né si presuppongono, semmai per ora si usano. La letteraria cerca di studiare, analizzare, comprendere l’altra così come ha cercato sempre di comprendere qualunque fenomeno materiale, spirituale, emozionale, etc. La digitale si ciba della letteraria, la digerisce, la fa sua. Tra le due il rapporto è di reciproco distacco.

Nell’articolo di Repubblica, il direttore dell’Osservatorio della lingua italiana Zanichelli, Massimo Arcangeli, afferma che nascere e crescere in una cultura digitale rischia di “strutturare menti più sintetiche che analitiche”. Traduco a mio modo questa possibilità dicendo che la cultura digitale sposta la forma del linguaggio – il proprio effetto cognitivo – dal metaforico al simbolico.

La cultura digitale si espande progressivamente. D’accordo, è “solo” un mezzo, è “solo” un linguaggio ma talmente pervasivo da cambiare la sostanza stessa del concetto “cultura”, finora plasmato dal linguaggio letterario. La cultura digitale è destinata a prendere il posto di quella letteraria così come quest’ultima prese il posto di quella orale. Non prefiguro un mondo colonizzato da miliardi di lobotomizzati dallo sguardo assente, presi esclusivamente dal dialogo con la propria connessione. Penso ad un costante mutamento dei segni, delle grammatiche, delle sintassi, delle deduzioni, delle interpretazioni. Penso alla sopravvivenza della scrittura inglobata all’interno di un sistema semantico che la comprende cambiandone il ruolo, ormai depotenziata della sua capacità unica di generare ragionamenti e significare cose. Penso alla struttura cognitiva umana spostarsi dal metaforico al simbolico. Penso che ancor più della scrittura ne soffrirà la parola, il dire (cosa di più umano del dire?).

E per tornare all’oggi e all’analfabetismo digitale, penso che un progressivo ridursi degli spazi vitali per gli analfabeti della rete sia già evidente anche tra chi, di questi, è colto “tradizionalmente”. Certo, possiamo fregarcene di internet e andare in libreria ad acquistare un libro, non che un libro nella sua tradizionale forma cartacea non serva più ma che tutto quel fertile corollario generalmente successivo alla lettura, e che in quel libro ha il suo fuoco, corollario fatto di discussioni, approfondimenti, recensioni, scambi d’opinione, ormai si svolge tutto in internet. Chi non conosce il mezzo ne è escluso. Se c’è qualcosa che stride alla cultura è la sua solitudine; una cultura in solitario appassisce, termina nella tomba insieme al suo possessore.
Infine, in questa futurologia, mi viene da pensare che se la nostra civiltà letteraria ha generato le grandi “religioni del libro” (o fu il contrario?), non è poi così lontano il tempo di un “dio della rete”.

This Must Be The Place, di Paolo Sorrentino

Proverò a spiegare perché un film tanto pieno di difetti, tanto incompleto e discutibile, sia comunque un grande film. Un parallelo forse azzardato e da prendere con le molle è relativo alla musica rock, e precisamente alla doppietta dei Radiohead Kid A e Amnesiac, lavori entrambi affascinanti nonostante – o grazie – la loro palese incompiutezza; lavori che manifestano una prepotente personalità non ben strutturata, non del tutto matura, bensì segnata dall’arrogante follia di chi ha qualcosa da dire, magari con confusione, magari con incoerenza, ma qualcosa da dire che lascia il segno e fa intravedere strade vergini da colonizzare. Qualcosa del genere mi è parso This Must Be The Place.

Due storie sostanzialmente, due storie che si passano il testimone tra il primo e il secondo tempo e ritrovano nella scena finale un tentativo di armonica sintesi, tentativo che personalmente non trovo del tutto convincente ma che accetto come prova che Sorrentino non abbia mai perso di vista tutti i livelli narrativi e semantici che ha scatenato nel corso del film. La prima storia è intimista, lenta, spesso noiosa, e riguarda l’evidente depressione del protagonista, “Cheyenne”, vecchia popstar irlandese (chiaro riferimento iconico a Robert Smith dei Cure) che nonostante la vita agiata e una moglie splendida non trova serenità, non accetta l’inevitabile decadenza né sembra trovare giovamento dai ricordi di un passato di celebrità. Anzi, forse è proprio quel passato mal digerito che gli crea il pesante fardello del presente. Se questa depressione non sfocia nel suicidio o nel ritorno all’eroina è esclusivamente grazie alla forza della moglie. A proposito della moglie, mi sembra una figura ben poco credibile questa donna sempre allegra e ottimista, innamorata di un buffo patetico fantasma quale è ormai il marito e addirittura – nonostante i soldi del marito – lavoratrice alle dipendenze dei pompieri, eppure anche questa scelta contribuisce a portare il film in quella dimensione di surrealtà che forse ne è la soluzione. Dunque, la nostra triste popstar chiusa in un’esistenza senza uscita, se ne va in America per il funerale di un padre con cui aveva interrotto ogni rapporto da 30 anni.

E qui inizia la seconda storia. Cheyenne si carica sulle spalle il compito di “vendicare” il padre – ebreo ex deportato in campo di concentramento – delle sevizie ricevute dal suo aguzzino nazista. Ne segue le tracce attraverso un lungo viaggio tra vari stati americani incontrando improbabili personaggi finché finalmente lo trova e compie l’agognata vendetta: lascia il 90enne ex nazista nudo e inerme sulla neve, in un’inquadratura molto Auschwitz. Torna quindi a casa sua in Irlanda, sereno e finalmente uomo.

Se il film fosse il racconto che ne ho fatto sarebbe un’evidente cretinata. Fortunatamente non è così. Fortunatamente la tanta carne al fuoco si rivela carne di qualità a momenti cotta molto bene. Come e perché ci riesce Sorrentino? Intanto perché l’incredibile storia raccontata ti avvolge man mano sino a darti una sensazione di credibilità, come se uscendo dal cinema si annullassero i confini tra l’incredibile e il banale quotidiano (credibile) e si restasse con l’idea che ogni storia banale nel momento in cui viene narrata divenga incredibile, e ogni storia assurda divenga a sua volta banale. E non è poi davvero così? Io credo di sì.
Il surreale è un po’ dappertutto, permea la narrazione ovunque e gli assurdi personaggi che Cheyenne incontra nel suo viaggio americano sono veri, riconoscibili, familiari. È un surreale caratterizzato da malinconia (il volto/maschera di Sean Penn ne è l’adeguata sinossi), ed è una malinconia caratterizzata da ironia. Il punto di forza, tuttavia, è stilistico, ed è evidente nella seconda parte, come se l’America non potesse essere narrata diversamente che da un trionfo di colori, come se in ogni dettaglio della quotidianità americana si nascondesse un mistero, un varco verso un altro mondo. Inquadrature, fotografia, visi, ritmo narrativo, tutto contribuisce a portare il film verso un livello espressivo questo sì “incredibile”, soprattutto se si pensa che non c’è Lynch dietro la telecamera, non c’è Tarantino né ci sono i Coen, c’è un regista italiano, probabilmente l’unico regista italiano in grado oggi di parlare un linguaggio internazionale. Infine, last but not least, un maestoso Sean Penn guida la narrazione tra credibile e incredibile, tra realtà e favola, caricandosi sul volto un personaggio che altrimenti avrebbe potuto essere un clone di Edward mani di forbice.

Piacerà probabilmente ai ventenni degli anni ’80, cresciuti col punk e la new wave. Io, avendo invece odiato quegli anni, Cure, Smith, Joy Division etc. (li recupererò musicalmente molto tempo dopo), non credo di aver subito il fascino dei ricordi, mi è piaciuto solo per i motivi detti sopra. In questo senso mi sento molto vicino al percorso filmico di Cheyenne, il cui sfogo al cospetto di David Byrne conferma la mia lettura di quegli anni, un trionfo di superficiale vanità, una sorta di errore evolutivo da cui la conoscenza della ben diversa vita di mio padre mi ha tenuto lontano.

1977 vs 2011: movimenti a confronto

Durante l’anno scolastico 1977-78 ero iscritto al primo anno di scuola superiore. Da poco piombato nell’età adulta, o almeno tale mi pareva l’appartenenza ad un istituto superiore, giravo con Lotta Continua infilato nella tasca in modo che si vedesse bene. Non posso dire che “ho fatto” il ’77, ma un po’ di quella atmosfera, di quei linguaggi, di quell’ambiente, l’ho conosciuto, quel tanto che mi basta per abbozzare un confronto tra allora e oggi.
Il ’77 era terribilmente ideologico, l’ideologia impregnava la retorica, l’analisi, la prospettiva. Il 2011 non ha quasi alcuna ideologia a supporto. Ha un’analisi, quella sì, un’analisi dell’attuale le cui deficienze sono sotto gli occhi di tutti. Ma evidenziare ciò che non va e perché non va non è ideologia, al massimo è solo buona capacità analitica.
Nel ’77 tutti parlavano di politica, il “che fare” era una domanda condivisa. Oggi finalmente, dopo tanti anni di rincretinimento collettivo, mi sembra si stia tornando ad un simile livello di partecipazione.
Il ’77 era violento, molto più di oggi, e la violenza era uno strumento, forse il principale, dell’azione ideologica. La violenza odierna fortunatamente è minore ma fa un po’ più paura perché è rabbiosa, anarchica, incontrollata, imprevedibile, può crescere a dismisura.
Se il ’77 era mosso dall’ideologia, il 2011 è mosso da “fame”, fame soprattutto generazionale. A occhio e croce l’ultima generazione che ha avuto un accesso relativamente semplice al mondo del lavoro, e parlo di lavoro con le sacrosante garanzie, se non proprio il “posto fisso” qualcosa di simile, è stata quella degli attuali 45enni. Al di sotto di questa soglia inizia il baratro del precariato, dei forse 1000 euro al mese senza versamenti, senza prospettive certe, senza il miraggio di una pensione. Questo disastro generazionale prodotto dai nostri politici ed economisti si inizia a sentire nelle sue estreme conseguenze solo ora. Non che dieci o quindici anni fa non ci fosse ma essere precario a vent’anni lo accetti, a quaranta no, a quaranta ti incazzi, ti ribelli. Non c’è famiglia col precariato, non c’è casa, non c’è previdenza, non si costruisce, si vive alla giornata. Quando parlo di “fame” intendo questa, fame di costruire il proprio futuro, di realizzarsi, di vivere sic et simpliciter.
Nell’ideologia il ’77 trovava anche la sua prospettiva, l’obiettivo a cui ambire. Obiettivo che poi fallì completamente producendo da un lato gli anni di piombo e dall’altro, per rigetto, il craxismo. Nessuna chiara prospettiva nel 2011, vaghi accenni a “mondi migliori”, qualche rimpianto di socialdemocrazia mancata, sguardi fugaci a J.M. Keynes, episodici rigurgiti di marxismo. L’unica prospettiva resta, appunto, soddisfare la “fame” il più presto possibile. Ed è in questa sensazione di un tempo limite ridotto agli sgoccioli, di un’urgenza impellente, che risiede lo spirito mondiale del 2011. Ma se il limite dell’ideologia è la sua rigidità, l’incapacità che ha nel confrontarsi col mondo che cambia, il limite della fame e dell’urgenza sta nella sua impossibilità a coesistere con la calma e la razionalità, con la “gioia e rivoluzione”.

A Dangerous Method, di David Cronenberg

Vedere l’ultimo Cronenberg è un po’ come incontrare dopo tanti anni un conoscente o un parente che avevi lasciato bambino e che ora ritrovi uomo, magari con le spalle il doppio delle tue. E allora ti domandi “ma come è possibile? Che ha a che vedere questo con quello?”. L’esempio serve ad introdurre l’idea di lontananza, non di evoluzione… né di involuzione, semplicemente distanza incolmabile tra il Cronenberg di Brood, Scanners, Videodrome, Dead Zone, The Fly, Crash, Existenz, Spider, e l’attuale. Tutto sommato anche il Cronenberg più recente, quello di A History of Violence e Eastern Promises sembra al più un lontano parente di chi ha diretto A Dangerous Method. In parte la cosa è comprensibile, essendo la vicenda Jung / Spielrein / Freud “una storia vera” – e qui ci starebbe bene uno sguardo sinottico sull’altro grande David, il Lynch di The Straight Story -, storia vera tra l’altro ampiamente conosciuta e raccontata. I paletti che impone il dovere di cronaca ci consegnano un film interessante perché è interessante la vicenda, elegante perché il Canadese è comunque un maestro, ma poi anche freddo e privo di quello scatto di fantasia, di quell’iniezione di mistero che da Cronenberg ti aspetteresti. Anche l’aspetto cronachistico, inoltre, non mi è sembrato ineccepibile: poco credibile il personaggio di Sabina Spielrein, la sua isteria misteriosa, la relazione d’amore con Jung, quest’ultima fuori fuoco soprattutto nel punto di vista di Jung. Più chiaro e interessante mi è parso il rapporto intellettuale e caratteriale tra Freud e Jung, posto nell’ampio contesto del diffondersi con timore e circospezione del credo psicanalitico.

Vale la pena di chiedersi quanto la fedeltà a ciò che “davvero” avvenne debba chiudere la strada ad un’interpretazione personale di quel “davvero”. Saremmo in tal caso di fronte ad un tradimento del fatto? Domanda enorme. Io mi limito a segnalare come un regista italiano molto meno celebrato di Cronenberg, Roberto Faenza, abbia saputo con Prendimi l’Anima del 2002 raccontare la medesima storia coniugando cronaca, fantasia, personalità. Come c’è riuscito? Intanto con un’attrice nel ruolo di Sabina Spielrein (Emilia Fox) più brava di Keira Knightley. Poi con una scelta che ha pagato: anziché tentare, come ha fatto Cronenberg, di abbracciare in un solo sguardo la nascita della psicanalisi, le tre grandi personalità della vicenda, la storia d’amore, ha innalzato in primo piano solo l’ultima annullando di fatto il personaggio di Freud e le dispute scientifiche. Ne è scaturito un film compatto (nonostante la presenza di due diversi piani temporali), credibile, passionale, passionale perché tale fu la storia d’amore e passionale perché in fin dei conti fu proprio nella transizione da pulsione a passione che si stavano giocando i destini della psicanalisi.

Carnage, di Roman Polanski e Yasmina Reza

Se c’è qualcosa di davvero eccezionale in Carnage, sta nella reazione stupita di buona parte del pubblico e della critica (probabilmente disabituati o ignari di teatro) per un buon film che si regge quasi esclusivamente sulla drammaturgia. Poca postproduzione, un solo ambiente interno (ad eccezione del campo lungo sul giardino all’inizio e alla fine), unità aristoteliche rispettate, solo quattro personaggi (più due virtuali, i tempestivi telefoni di Alan e di Michael) e infine tanto tanto dialogo, ben sottolineato dall’ottimo montaggio. Insomma, siamo in presenza di un qualcosa che si potrebbe definire “pièce bien fait”, ovviamente più in senso lato che strettamente storico (e mi riferisco al genere “pièce bien fait” nella storia del teatro). Una riuscita drammaturgia borghese ambientata – guarda caso – nel salotto di casa, dove elementi come l’intreccio, il colpo di scena, la girandola di personaggi, sono di fatto inesistenti e dove il ritmo e l’interesse restano tutti sulle spalle dei dialoghi. Il presupposto è tutto per un buon dramma ma il prodotto finale mi sembra virare di gran lunga sulla commedia. Se questo sia da considerarsi un limite del lavoro è una questione che riguarda il singolo spettatore. Personalmente mi ha divertito molto ma un senso di fastidiosa prevedibilità mi ha accompagnato per tutta la visione. Parte dal dramma, dicevo, perché drammatico è l’antefatto – una violenta lite tra due adolescenti – e drammatico si prospetta lo svolgimento, un confronto tra i quattro genitori dei due ragazzi, due coppie medio borghesi, quindi necessariamente “civili”, poste di fronte al bivio se caricarsi il fardello di una pacata ricomposizione della lite dei due eredi oppure prenderne le rispettive parti aderendo ad un’atavica “difesa della famiglia” e trasferendo quella lite su un piano adulto e potenzialmente più violento.
Abili Roman Polanski e Yasmina Reza a cavalcare la seconda opzione senza mai dimenticare del tutto la prima, quasi a lasciar intendere che il “richiamo del sangue” sia la strada che ogni adulto, una volta messosi a nudo e spogliatosi delle convenzioni, vorrebbe seguire. Ma la “civiltà” è una pelle troppo aderente per essere strappata davvero e allora la strada della lite si percorre con troppe incertezze e sensi di colpa e quindi si torna subito indietro nei territori della pacatezza e del buon senso ma anche lì l’incertezza resta e incertezza nelle relazioni interpersonali richiama incertezza verso se stessi che a sua volta amplifica quella relazionale e così via in un crescendo che non può che concludersi in una ubriacatura collettiva, come se per i quattro “pupazzi” l’ubriacatura da alcol fosse meno vergognosa e più accettabile di quella da emozioni incontrollate. Peccato che non proprio tutto gira per il meglio nella realizzazione di questo progetto narrativo: i dialoghi, certamente di ottimo livello, graffianti e ritmati, subiscono spesso delle forzature in crescendo incongruenti col contesto che li precede e li dovrebbe giustificare, come se spinti da un direttore d’orchestra che ha troppa fretta di arrivare al parossismo dell’esecuzione, mentre il grottesco imperante nel secondo tempo trancia inevitabilmente ogni germoglio drammatico e la maschera livida di Jodie Foster nel finale mi ricorda troppo la trasformazione del civile Dottor Banner nel bestiale Incredibile Hulk.

Il Melodramma, o Sul principale paradigma interpretativo italiano agli inizi del XXI sec.

“Per fare un buon melodramma si deve per prima cosa scegliere un titolo. Bisogna poi adattargli un qualsiasi soggetto, storico o di fantasia; poi ci si metteranno come personaggi principali un gonzo, un tiranno, una donna innocente perseguitata, un cavaliere [ma anche un Cavaliere perseguitato va bene. N.d.r.] e, potendolo fare, qualche animale addomesticato, che so? un cane, un gatto, un corvo, una gazza o un cavallo.
Sono di rigore un balletto e un quadro di insieme nel primo atto; una prigione, una romanza e delle catene nel secondo; battaglie, canzoni e via dicendo nel terzo. Il tiranno sarà ucciso alla fine dell’opera, la virtù trionferà e il cavaliere sposerà la donna innocente, sventurata etc.
Si finirà con una esortazione al popolo, per impegnarlo a preservare la sua moralità, a detestare il crimine e i tiranni, e soprattutto gli si raccomanderàò di sposare preferibilmente donne virtuose.”
[Trattato del Melodramma, 1817, Parigi]

“… nel primo atto del melodramma troviamo una celebrazione della fête di innocenza e virtù […]. Ma la fête sarà turbata. Nel suo mezzo si insinuerà il tiranno o il traditore […], spesso si tratta dell’annuncio che l’innocente virtuosa non è quella che appare […]. Il primo atto finisce molto spesso con la cacciata di innocenza dalla terra natale […], la condanna a peregrinare, la penitenza, il matrimonio forzato o la morte. […] Per metà della rappresentazione il cattivo domina interamente la scena, impone tutte le valutazioni morali, inganna tutti o altrimenti impone semplicemente la sua volontà con la forza […]. Il terzo atto porta lotta, combattimento, un evidente recitare e attraversare fino in fondo i termini manichei della rappresentazione con la vittoria finale del giusto, la liberazione di innocenza e il suo riconoscimento da parte di coloro che erano stati fuorviati dalle false affermazioni del cattivo…”
[Peter Brooks, Introduzione al Trattato del Melodramma]

“…il mélo è al centro di una costellazione di significati tutti sostanzialmente negativi, implicando valori di esagerazione, di contrapposizione manichea tra bene e male senza sfumature, di esasperazione dei contrasti, di caricamento artificiale delle emozioni e di esibizione sfacciata delle passioni, di mancanza della misura e di abuso del patetico. […] Non si fatica certo a riconoscere in questa struttura emotiva del mélo un intento socialmente consolatorio, nel costruire un modello in cui alla fine i conti della giustizia tornano perfettamente, il dolore patito ingiustamente viene ricompensato e la malvagità, personale e di classe, viene perseguita senza pietà.”
[Luigi Allegri, La drammaturgia da Diderot a Beckett, Laterza 1993]