
Da molto tempo la politica ha smesso di incidere significativamente sulla realtà quotidiana della gente, ha spazi di manovra sempre più limitati. Certamente non incide nulla sulle questioni economiche-finanziarie; in questo campo subisce, come un piccolo ingranaggio, ordini superiori. Qualcosa di più può fare nell’ambito dell’equità sociale decidendo, ad esempio, su quali spalle e in che percentuale spalmare il peso della crisi. Oppure sul piano delle questioni civili, come in Italia dove può accelerare o ritardare la nostra transizione verso una laicità che non sia solo di facciata, com’è ora. Tutto qua, e poco altro.
Ma per fortuna “politica” non è solo l’Istituzione e il mondo dei partiti che l’alimenta. È politica anche tutto ciò che viene “dal basso”, l’associazionismo, il sindacato, lo sciopero, le manifestazioni, le raccolte di firme per i referendum e così via. Anzi, forse oggi questa è la sola politica che ci resta, quella che rende viva una società, la sottrae all’apatia (la moderna forma di dittatura) e alla triste e irrelata ritualità della politica istituzionale, elezioni, Governo, Parlamento, forme di rappresentanza sempre più modellate sul format del reality.
Premesso ciò – premessa, quindi, una spietata disillusione sullo stato delle cose che ci deve sempre accompagnare in ogni ragionamento sul “che fare” -, resta la constatazione che la democrazia rappresentativa non presenta ancora valide forme alternative, niente di più efficace se non altro sul piano dell’organizzazione sociale. Una comunità di 60 milioni di persone non è un condominio e sempre di rappresentanti avremo bisogno, sempre di qualcuno a cui delegare almeno una parte delle nostre decisioni. E costoro, i delegati, a loro volta eleggeranno dei loro rappresentanti di livello superiori e così via fino all’olimpo dei “capi supremi”. Niente di nuovo, così è il potere, questa ne è in soldoni l’inevitabile struttura piramidale.
E se anche volessimo snobbare la politica istituzionale, astenerci disgustati dal legittimarla ancora una volta con il nostro voto; se anche volessimo protestarla tramite un’indignata non partecipazione; se anche dedicassimo ogni nostra esclusiva energia alla politica diretta e quotidiana, sindacati, rappresentanze locali, movimenti d’opinioni etc, resta il fatto che quel Potere – pur delegittimato dai cittadini e azzoppato da multinazionali e finanza mondiale – esiste, decide almeno in parte sul nostro futuro, dobbiamo farci i conti. È il nostro interlocutore. C’è e sempre ci sarà. È un collo di bottiglia dentro il quale dobbiamo per forza passare. E allora facciamo in modo che questo angusto collo sia il più largo e morbido possibile.
Votare per rappresentanza non significa votare una persona che faccia tutto quel che tu vorresti, o che ragiona, pensa, percepisce le cose come fosse una tua fotocopia. È ingenuo e infantile pensare che una volta espressa la delega al tuo rappresentante (ammesso che costui venga eletto) tu possa aspettarti e pretendere a braccia conserte la soddisfazione di tutti i tuoi bisogni. Si vota la persona più vicina a noi, alle nostre idee, quella più sensibile ai nostri bisogni. E dire che si vota il “più vicino” a te significa a volte – molto spesso – affermare l’equivalente del tanto vituperato detto “votiamo il meno peggio”. È proprio così, quando si vota si vota sempre il meno peggio, partendo dal presupposto che “il meglio” per te sei proprio te stesso, o un tuo clone. E quel “meno peggio”, pur ipotizzando la sua buona volontà e onestà, dovrà comunque fare i conti con altre centinaia di “meno peggio” delegati da altri cittadini, diversi da te, distanti da te, forse addirittura l’opposto da te. Democrazia è mediazione tra opposti.
Voto il candidato “meno peggio” sperando che riesca a mediare la migliore soluzione possibile per me, all’interno di un contesto in maggioranza ostile (il Parlamento italiano) e comunque sapendo che tale contesto è fortemente limitato nei suoi poteri e nelle sue possibilità. Lo so, è una visione della democrazia rappresentativa decisamente povera, triste, priva di qualunque fascino, ma questo oggi è il nostro menù.
In queste primarie del centrosinistra ho votato per Nichi Vendola, lui, quello che nel suo pantheon dice di avere il Cardinal Martini. E l’ho votato non perché mi identifichi in tutto quel che dice, non perché lo ritenga il mio “leader”, né ho per lui alcun “culto del capo”. Semplicemente è il più vicino a quel che credo, o il meno lontano, quindi il meno peggio. Ci ho provato, è andata male ma almeno ci ho provato, e ci riproverò alle prossime elezioni. Sono iscritto al sindacato e continuerò a scioperare se e quando serve, a scendere in piazza se e quando serve, a partecipare ad assemblee, a parlare di politica ovunque, a scrivere testi teatrali politici e a metterli in scena indebitandomi. Continuerò a farlo e continuerò a votare il meno peggio che riesco ad individuare, affinché il mio inevitabile interlocutore governativo – il potere – sia se non altro il meno peggio, in grado almeno di parlare la mia lingua. Un voto convinto e disilluso che serve poco e che deve essere accompagnato da tante altre pratiche quotidiane, ma un voto a cui non rinuncio perché l’alternativa non mi convince, mi sa di riflusso, di apatia, di indifferenza, di qualunquismo.