Un convinto voto disilluso

Carlo Maria Martini

Da molto tempo la politica ha smesso di incidere significativamente sulla realtà quotidiana della gente,  ha spazi di manovra sempre più limitati. Certamente non incide nulla sulle questioni economiche-finanziarie; in questo campo subisce, come un piccolo ingranaggio, ordini superiori. Qualcosa di più può fare nell’ambito dell’equità sociale decidendo, ad esempio, su quali spalle e in che percentuale spalmare il peso della crisi. Oppure sul piano delle questioni civili, come in Italia dove può accelerare o ritardare la nostra transizione verso una laicità che non sia solo di facciata, com’è ora. Tutto qua, e poco altro.

Ma per fortuna “politica” non è solo l’Istituzione e il mondo dei partiti che l’alimenta. È politica anche tutto ciò che viene “dal basso”, l’associazionismo, il sindacato, lo sciopero, le manifestazioni, le raccolte di firme per i referendum e così via. Anzi, forse oggi questa è la sola politica che ci resta, quella che rende viva una società, la sottrae all’apatia (la moderna forma di dittatura) e alla triste e irrelata ritualità della politica istituzionale, elezioni, Governo, Parlamento, forme di rappresentanza sempre più modellate sul format del reality.

Premesso ciò – premessa, quindi, una spietata disillusione sullo stato delle cose che ci deve sempre accompagnare in ogni ragionamento sul “che fare” -, resta la constatazione che la democrazia rappresentativa non presenta ancora valide forme alternative, niente di più efficace se non altro sul piano dell’organizzazione sociale. Una comunità di 60 milioni di persone non è un condominio e sempre di rappresentanti avremo bisogno, sempre di qualcuno a cui delegare almeno una parte delle nostre decisioni. E costoro, i delegati, a loro volta eleggeranno dei loro rappresentanti di livello superiori e così via fino all’olimpo dei “capi supremi”. Niente di nuovo, così è il potere, questa ne è in soldoni  l’inevitabile struttura piramidale.

E se anche volessimo snobbare la politica istituzionale, astenerci disgustati dal legittimarla ancora una volta con il nostro voto; se anche volessimo protestarla tramite un’indignata non partecipazione; se anche dedicassimo ogni nostra esclusiva energia alla politica diretta e quotidiana, sindacati, rappresentanze locali, movimenti d’opinioni etc, resta il fatto che quel Potere – pur delegittimato dai cittadini e azzoppato da multinazionali e finanza mondiale – esiste, decide almeno in parte sul nostro futuro, dobbiamo farci i conti. È il nostro interlocutore. C’è e sempre ci sarà. È un collo di bottiglia dentro il quale dobbiamo per forza passare. E allora facciamo in modo che questo angusto collo sia il più largo e morbido possibile.

Votare per rappresentanza non significa votare una persona che faccia tutto quel che tu vorresti, o che ragiona, pensa, percepisce le cose come fosse una tua fotocopia. È ingenuo e infantile pensare che una volta espressa la delega al tuo rappresentante (ammesso che costui venga eletto) tu possa aspettarti e pretendere a braccia conserte la soddisfazione di tutti i tuoi bisogni. Si vota la persona più vicina a noi, alle nostre idee, quella più sensibile ai nostri bisogni. E dire che si vota il “più vicino” a te significa a volte – molto spesso – affermare l’equivalente del tanto vituperato detto “votiamo il meno peggio”. È proprio così, quando si vota si vota sempre il meno peggio, partendo dal presupposto che “il meglio” per te sei proprio te stesso, o un tuo clone. E quel “meno peggio”, pur ipotizzando la sua buona volontà e onestà, dovrà comunque fare i conti con altre centinaia di “meno peggio” delegati da altri cittadini, diversi da te, distanti da te, forse addirittura l’opposto da te. Democrazia è mediazione tra opposti.

Voto il candidato “meno peggio” sperando che riesca a mediare la migliore soluzione possibile per me, all’interno di un contesto in maggioranza ostile (il Parlamento italiano) e comunque sapendo che tale contesto è fortemente limitato nei suoi poteri e nelle sue possibilità. Lo so, è una visione della democrazia rappresentativa decisamente povera, triste, priva di qualunque fascino, ma questo oggi è il nostro menù.

In queste primarie del centrosinistra ho votato per Nichi Vendola, lui, quello che nel suo pantheon dice di avere il Cardinal Martini. E l’ho votato non perché mi identifichi in tutto quel che dice, non perché lo ritenga il mio “leader”, né ho per lui alcun “culto del capo”. Semplicemente è il più vicino a quel che credo, o il meno lontano, quindi il meno peggio. Ci ho provato, è andata male ma almeno ci ho provato, e ci riproverò alle prossime elezioni. Sono iscritto al sindacato e continuerò a scioperare se e quando serve, a scendere in piazza se e quando serve, a partecipare ad assemblee, a parlare di politica ovunque, a scrivere testi teatrali politici e a metterli in scena indebitandomi. Continuerò a farlo e continuerò a votare il meno peggio che riesco ad individuare, affinché il mio inevitabile interlocutore governativo – il potere – sia se non altro il meno peggio, in grado almeno di parlare la mia lingua. Un voto convinto e disilluso che serve poco e che deve essere accompagnato da tante altre pratiche quotidiane, ma un voto a cui non rinuncio perché l’alternativa non mi convince, mi sa di riflusso, di apatia, di indifferenza, di qualunquismo.

Non è un teatro per poveri

Totò, Miseria e Nobiltà
Totò, Miseria e Nobiltà

Nel corso di questo sciagurato 2012 ho concentrato le mie forze produttive su tre spettacoli che mi vedevano impegnato in veste di autore e regista: Terzo Millennio – ripresa di un lavoro ormai vecchio di 15 anni – che è stato in scena a Milano per due settimane di marzo; XXX Pasolini, che debuttò a fine 2011 e che quest’anno ho riproposto in alcune occasioni romane tra gennaio e settembre; infine Veronica, con debutto “nazionale” a ottobre per quindici giorni. Tre spettacoli che tra prove e messa in scena mi sono costati a occhio e croce almeno otto mesi di lavoro. Se analizzo il tutto da un mero punto di vista economico, senza sofisticherie contabili… insomma il cosiddetto “conto della serva” tra entrate ed uscite, chiudo il bilancio 2012 con un saldo negativo di alcune migliaia di euro. In altre parole, potrei dire che quest’anno ho lavorato otto mesi per guadagnarmi un debito, oppure – formulazione ancor più paradossale e divertente – che ho pagato per lavorare gratis otto mesi.

Solo questo? No, per carità, ci sono state anche le soddisfazioni, i complimenti, quel bel clima da “impresa epica” che si crea nella compagnia ogni qualvolta si va in scena, una dozzina di recensioni perlopiù positive. Sì, tutte belle cose ma poi…

In base alle mie (non poche) esperienze nel settore, alla fine del 2011 avrei potuto sottoscrivere sicuramente l’affermazione che il teatro – almeno il teatro al mio livello, che è il livello della creazione indipendente – non è un’attività che ti permette un minimo (davvero minimo) di stabilità economica. Ma tutto sommato nemmeno di “dignitosa precarietà” economica. Cioè, (luogo comune) “col teatro non ci si campa”, teatro ed economia non vanno d’accordo, si ignorano completamente. Fin qui nulla di nuovo.

Oggi che il 2012 volge al termine sono costretto a rivedere addirittura al ribasso questa affermazione per riformularla nei seguenti termini: il (mio) teatro è un hobby da ricchi. E per “ricco” intendo semplicemente colui che ha una stabilità economica alle spalle che gli permette di sperperare denaro e tempo per le sue passioni. E quel “colui” certamente non sono io. Al momento, la cosa più di buon senso che posso fare è quella di fermare ogni mio nuovo progetto e limitarmi ad eventuali, sporadiche repliche a “rischio impresa zero” (esistono?).

Ora non voglio incorrere nell’errore “induttivo”, l’errore di chi proietta la propria esperienza sul resto del mondo. Cioè, non escludo che vi siano produzioni di teatro indipendente, o “off”, o “di ricerca”, o come cavolo lo si vuol chiamare, che diano soddisfazioni e certezze anche economiche. Non escludo questa possibilità ma se mi guardo intorno mi sento ragionevolmente di relegarla al ruolo di eccezione piuttosto che di regola. La regola, perciò, resta quella sopra descritta, che potrei riformulare parafrasando Cormac McCarthy: non è un teatro per poveri.

Che il teatro italiano non sia per poveri ce ne faremo tutti quanti – ricchi e poveri – una ragione. D’altronde in Italia non è per poveri la cultura, l’istruzione, la buona alimentazione etc. Il teatro italiano esisterà a prescindere dalle mie difficoltà produttive e dalle analoghe difficoltà di altre centinaia di teatranti bravi e volenterosi ma non abbastanza “ricchi” di soldi e di tempo per far sentire adeguatamente la propria voce, il proprio pensiero, le proprie idee. Un teatro sempre più irrigidito e chiuso, come casta di figli d’arte o figli di papà che si passano il mestiere di generazione in generazione, come i notai.

Che il teatro non sia per poveri è anche un sospetto che ho da anni, non potendo fare a meno di notare la significativa percentuale di rampolli della buona borghesia che infesta il nostro ambiente, spesso nascosta nei luoghi più improbabili, centri sociali, teatri occupati etc. Ma a parte il sano odio di classe che tale verità mi scatena, mi chiedo anche in che misura la barriera economica si rifletta sul prodotto artistico offerto; mi chiedo se – privi della giusta distanza storica – non ci si renda adeguatamente conto di quanto i tanti rivoli su cui si declina il teatro “d’avanguardia”, colto, sofisticato, altro non siano che l’espressione di un’arte borghese spocchiosa, compiaciuta e decadente; e mi chiedo, infine, se la progressiva scomparsa di un pubblico “normale”, quel pubblico che gli artisti e la critica invocano e desiderano come un messia taumaturgo, sia anche effetto di un’incomunicabilità tra mondi, sia anche causata dall’uso di un linguaggio – e il linguaggio è vissuto, è sensibilità, è problematiche – straniero ed elitario, in ultima analisi inutile, inutile nel senso più utilitaristico del termine. Sia, insomma, se non già atto di lotta di classe almeno il segno di un’istintiva diffidenza tra classi.

 

Quel che resta di Beckett

un giovanissimo Samuel Beckett

Nel ’95 ho “incontrato” Samuel Beckett. Amore a prima vista, una passione che ha segnato gran parte dei miei primi testi e che ancora oggi mi condiziona nel bene e nel male. Il mio “maestro” di teatro di allora, Piero Patino (fu il primo direttore artistico del Festival di Santarcangelo), di fronte alla mia nuova scoperta ridacchiava con sufficienza dicendomi cose tipo «Beckett è un grande ma la maggior parte degli autori che lo imita lo fraintende e lo tradisce; lo rendono noioso e credono che nel teatro dell’assurdo qualunque frase si scriva, o si dica in scena, vada bene, ma non è così». Già, non è così. Come è, allora?

A circa 60 anni dalla prima rappresentazione di Aspettando Godot (1953), e a 55 anni dalla prima rappresentazione di Finale di Partita (1957), è ancora abbastanza frequente assistere a compagnie che si cimentano con la lezione del Maestro, producendo drammaturgie che ne vorrebbero ricalcare l’immaginario e la poetica. Per quanto mi riguarda, come spettatore, il risultato mi lascia spesso perplesso, a volte più e a volte meno, e mi tornano in mente le parole di Patino: «credono che nel teatro dell’assurdo qualunque frase si scriva, o si dica in scena, vada bene».

Che il teatro di Beckett sia annoverabile all’interno di quel controverso genere universalmente definito Teatro dell’Assurdo è opinione diffusa e accettata a partire dal famoso saggio di Martin Esslin del 1961, ma ogni categoria storica è sempre in parte grossolana e chiunque si sia impegnato in una comparazione tra i due padri putativi del genere, Beckett, appunto, e Ionesco, avrà indubbiamente notato più la loro distanza che la vicinanza.
Semplificando, potrei dire che Beckett è fondamentalmente un tragico laddove Ionesco è commediografo. Potrei dire anche che Beckett è un filosofo, Ionesco un cronista. Che Beckett utilizza l’assurdo come metafora esistenziale, Ionesco svela l’assurdo della nostra quotidianità. Che Beckett violenta il mezzo teatrale in direzione della stasi (antiteatrale) mentre Ionesco cavalca a suo geniale modo i consueti cliché teatrali. In ultima analisi, potrei dire che Beckett è “pesante” e Ionesco “leggero”. Ed è proprio la pesantezza di Beckett il problema della sua (in)attualità e della sua continua riproposizione sotto le coperte della “nuova” ed emergente drammaturgia.
Quella pesantezza, che nell’era di Beckett era storicamente/intellettualmente innovativa e teatralmente/formalmente armonica, oggi si fa sentire in tutta la sua “gravità”, tant’è che le odierne imitazioni beckettiane risultano quasi sempre inattuali, ovvero vecchie, e non comunicative, ovvero noiose.

Perché vecchie? Perché 60 anni dopo possiamo dire che il crudo ritratto della condizione umana schizzato da Beckett – quella condizione depauperata (Aspettando Godot), disabile e intrappolata (Finale di Partita), marcescente (Giorni Felici e L’ultimo nastro di Krapp) -, è stato ampiamente digerito e non ci fa più riflettere, non ci sorprende, al massimo ci intristisce. Non è più un fosco vaticinio ma un’insopportabile realtà quotidiana. Beckett è ormai un classico e, come vale per tutti i classici, o va fatto riposare con rispetto o, se proprio lo si vuole riesumare, occorre saperlo depurare di ciò che non serve più per poi attualizzarlo con profonda riflessione. Tutto sommato nella drammaturgia contemporanea mondiale, già a partire da Pinter, Beckett è stato intelligentemente “diluito” e attualizzato in variegate forme; riproporlo oggi ancora in una soluzione “100%” mi sembra davvero anacronistico.

Perché noiose? Perché il problema delle drammaturgie contemporanee di matrice beckettiana è che dopo cinque o dieci minuti hanno detto tutto quel che c’è da dire. I restanti 50 o 60 o più minuti sono solamente ripetizione, noiosa ed inutile ripetizione. Ma la ripetizione o, meglio, la reiterazione, in Beckett non è limite bensì struttura, è in parte la forza stessa della sua opera. Si tratta di una reiterazione circolare e spiraliforme che affascina per la sua natura ipnotica. È sorretta da una rigorosa regia narrativa che conduce il personaggio e lo spettatore per progressivi gradini verso il baratro, verso quel buco nero della condizione umana che l’irlandese pone al centro della sua riflessione. Il teatro di Beckett è musicale mentre la sua attuale riproposizione è generalmente cacofonica. La stasi e l’attesa beckettiane, che sono profondamente narrative, vengono confuse con l’assenza e l’inutilità della narrazione; quei personaggi privi di un futuro che popolano gli scenari beckettiani divengono anti-personaggi indistinguibili e intercambiabili. Infine, quel linguaggio apparentemente anarchico e illogico che in Beckett non è mai una vaga e generica morte del linguaggio e/o della sua facoltà narrativa, semmai è morte della sua capacità redentiva, nei suoi seguaci contemporanei diviene troppe volte un agglomerato di parole in libertà dove piangere o ridere, pregare o dire oscenità, sono tutte valide alternative per un minestrone anti-narrativo che altro non è se non il prodotto di un clamoroso fraintendimento, in altre parole un credere che «…nel teatro dell’assurdo qualunque frase si scriva, o si dica in scena, vada bene».

La morte bianca di Giovanni Falcone

Giovanni Falcone – 1939 / 1992

20 anni fa Capaci. E fin qui siamo all’interno del mito. Ma è osservando bene la foto qui a fianco, Falcone che apre sorridente la finestra, forse di casa sua o forse del suo ufficio, che possiamo uscire dal mito ed entrare nella vita reale e quotidiana.

Il mito – nella sua moderna accezione – e il linguaggio che lo esprime, la retorica, uccidono il fatto in sé ingabbiandolo all’interno di una rete di significati precostituiti. Il “fatto” non è più tale ma diventa pietra dura, quella dei monumenti nazionali, che a nulla servono se non a reiterare un sistema culturale, sociale ed ideologico, che a sua volta crea i presupposti per quegli stessi fatti e che di quei monumenti, e del sangue di cui sono costituiti, si nutre.
Falcone eroe, come Achille, o come Ercole che da eroe diviene dio. Falcone e Borsellino come membri di quella categoria di uomini eccezionali e inarrivabili e, infine e in quanto tali, non umani, ovvero inesistenti.

Falcone che spalanca la finestra sorridendo fu un uomo. È un ovvietà, d’accordo. Ma lo è finché quel sostantivo lo si dà per scontato, lo si legge non come veicolo di significato ma come mero elemento costitutivo per un discorso “altro” (e retoricamente “più alto”). Uomo, invece, è già discorso, è tutto il discorso, tutto quello che serve.
Falcone era un uomo di 53 anni e come tutti gli uomini aveva una sveglia che la mattina lo distoglieva da un sonno dolce e dal calore della compagna. Faceva probabilmente colazione a casa sua, scherzava con sua moglie e poi andava a lavorare, forse allegro forse stanco forse sereno forse no. Anche lui sognava una vacanza, anche lui si arrabbiava e anche lui nella sua breve vita avrà fatto qualcosa di sbagliato o di ingiusto.
Un uomo, con tutta la miseria e la grandezza che dell’umanità conosciamo.
Un lavoratore stipendiato che, come tutti i lavoratori, si sarà spesso chiesto “ma chi me lo fa fare?”.
Falcone e Borsellino e i loro agenti di scorta sono uomini morti sul lavoro. In questo senso la loro fu una delle tante morti bianche, odiosa fisiologia del mondo del lavoro.
Certo, il rischio quotidiano di quel loro lavoro è di gran lunga più alto del rischio quotidiano di (ad esempio) un qualunque impiegato, ma il punto è che non tutto si sceglie e che la vita a volte alza la posta in gioco senza chiederti il permesso. Vivere, quindi, significa accettare quel tragico gioco, qualunque sia.

Falcone e Borsellino e i loro agenti sono eroi nell’accezione di Caparezza:
«sono un Eroe / perché combatto per la pensione
sono un Eroe / perché proteggo i miei cari / dalle mani dei Sicari / dei cravattari
sono un Eroe / perché sopravvivo al mestiere
sono un Eroe / straordinario tutte le sere».
Uomini, quindi. Perché riconoscerne l’umanità, la banale umanità, è il modo migliore per continuare la loro lotta. Se fossero eccezionali saremmo tutti giustificati nel prenderne le distanze… “io sono un banale uomo, come tanti, non sono un eroe”. Riconoscendoli uomini uguali a noi siamo posti di fronte alla normalità della loro scelta, una normalità che spaventa, che fa paura ma che non discrimina gli eroi dagli uomini semmai i vivi dai morti viventi.

Giornata della memoria

uno dei 22 disegni di autore anonimo ritrovati ad Auschwitz nascosti dentro una bottiglia


dopo Auschwitz la poesia è barbarie
disse Adorno
ma se Adorno fosse morto ad Auschwitz
non l’avrebbe mai detto

* * *
i tedeschi se ne sono andati
lasciando il posto ai retori
per il resto, tutto è come prima

* * *
vorrei lasciarvi in pace
ma siete così invadenti

* * *
piccola mano su piccola mano
i bambini fiduciosi seguivano i grandi
(che altro avrebbero potuto fare?)
e cantavano: la la la lallallà
e i grandi, più in avanti, seguivano i duri
(che altro avrebbero potuto fare?)
e cantavano anche loro: la la la lallallà
e i duri, in disparte, seguivano la linea
verso il buco della Storia
che tutto inghiottiva
e dopo rilasciava
denti – odore – cenere – pensieri
e le teste dei bambini, private della pelle,
raccolte con cura su pedane squadrate
ancora cantavano: la la la lallallà

* * *
dopo Auschwitz
il sole sorge ancora
ma possiamo dire che sia sempre accecante?

Da Manzoni a Castellucci: discorso semiserio sul concetto di merda nell’arte

Sul concetto del volto nel figlio di Dio - di Romeo Castellucci - Avignone

Probabilmente la lista è molto più lunga e antica, ma il primo che mi viene in mente è Piero Manzoni, artista di lontana discendenza dall’Alessandro dei Promessi Sposi. Nel 1961 sigillò le sue feci dentro 90 barattoli di conserva (numerati) a cui applicò la famosa etichetta “merda d’artista”. Tra i tanti significati dell’atto artistico – oltre quello ovviamente provocatorio – possiamo individuare: A) l’idea che tutto ciò che proviene da un artista sia di per sé artistico; B) l’idea che la creazione artistica risponda ad un processo analogo all’elaborazione intestinale; C) l’idea (molto pop-art) che la mercificazione dell’arte abbassi quest’ultima al ruolo di merda o, viceversa, elevi la merda allo status di arte.

Poi merita sicuramente un passaggio il Salò di Pasolini dove i quattro “signori”, l’Eccellenza, il Presidente, il Monsignore, il Duca, utilizzano la merda come collante sociale e oggetto sacro di un rito d’iniziazione verso l’alto, dove “alto” è il male, o il potere, o più riduttivamente il fascismo. «Dio perché ci hai abbandonato?» urlano i giovani prigionieri seminudi dentro una pentola ricolma di feci. Il Castellucci del Sul concetto del volto nel figlio di Dio probabilmente obietterebbe che quelle feci sono proprio la prova che l’abbandono non è avvenuto, semmai i “figli” devono accettare con amore l’imbarazzante eredità del Padre, e mangiarla (come, in Salò, sono obbligati a fare). Meno sofisticato è il Pasolini di Petrolio, dove il personaggio del Merda è davvero “una merda d’uomo”, non d’artista, una merda d’uomo nel senso più popolare del termine.

Infine, perdonate tanta arroganza, tra Manzoni, Pasolini e Castellucci mi ci metto anche io. In un mio vecchio testo teatrale che non ho mai avuto l’opportunità di portare in scena, un figlio (Urlo) rimprovera al padre (Eros) e alla madre (Ofelia) la loro attitudine troppo gaudente e, nel caso specifico, troppo concentrata sul cibo:

EROS – Avremo salmone e caviale.
OFELIA – Tartufi e porcini.
EROS – Aragosta, ostriche e datteri di mare.
OFELIA – Capriolo, daino, cacciagione.
EROS – E poi frutti di mare, pasta, risotti.
OFELIA – Bruschette calde con paté e olive e Bordeaux e Brunello.
URLO – E merda, merda, tanta merda!
EROS – Merda, sì! Se Dio non avesse voluto la merda ci avrebbe creati pari a Lui.
URLO – Ma siamo stati creati a Sua immagine e somiglianza!
EROS – Nelle aspirazioni! Certo! Ma nelle fattezze Lui è più avanti di noi e non ha bisogno di evacuare. L’evacuazione è il segno del nostro limite. Se noi riuscissimo a comprendere il tutto non avremmo bisogno di elaborare scarti. Finché approssimiamo, defechiamo.

Quindi Dio, che non approssima e che comprende tutto, non può fare la cacca che è invece il segno più profondo della nostra limitata condizione di umani. Ma anche tra gli umani, l’idea del proprio padre concentrato nelle sue funzioni scatologiche imbarazza e scandalizza (come l’idea che i propri genitori possano avere tra loro rapporti sessuali). Un Dio, o un padre, che rivela al figlio i propri escrementi è un Dio, o un padre, che sta morendo. Ciò che forse alcuni cattolici rifiutano nel lavoro di Romeo Castellucci è proprio questa tragica idea.

Per una futura storia del teatro italiano

Ritrovato tra le macerie di un antico teatro off romano il seguente frammento risalente al XXI sec., probabilmente tratto da un vademecum in uso tra alcuni teatranti “indie” dell’epoca.

frammento di teatrante ignoto - sec XXI

Mario Monti: un premier, un commissario o un curatore fallimentare?

Giorgio Napolitano e Mario Monti

In parte trattenuta e ancora guardinga, forse sfiancata dalla stanchezza, più rabbiosa che gioiosa, certamente angosciata per un futuro ancora tanto incerto, la festa è mesta. Cosa c’è da festeggiare? Sì, Berlusconi non è più Primo Ministro e non lo sarà mai più, ma non è caduto lui, qui è l’Italia intera ad essere caduta. Inutile girarci intorno, l’Italia è commissariata, la politica italiana, tutta, è commissariata. E cosa c’è di più antipopolare e meno democratico di un commissariamento degli organi esecutivi?

Il peggior governo della storia repubblicana d’Italia se ne andato. Non rivedremo più, almeno per un bel po’ di mesi, quell’accozzaglia inguardabile di nani e ballerine, mafiosi e faccendieri, fascisti in doppiopetto e baciapile, lecchini e puttane. Il governo dei mediocri se ne andato ma la sua uscita di scena non è sotto il segno della sconfessione generale, della condanna popolare, della damnatio memoriae, non sono stati seppelliti da una rivolta nazionale, da un’indignazione collettiva, né dal voto. No, niente di tutto questo, sono usciti di scena sotto il segno dell’emergenza, del “responsabile dovere” verso una situazione eccezionale che spacciano come indipendente dal loro operato. Non sono stati battuti dalle opposizioni, dalla “nostra” cara Sinistra, dal nostro martellante urlare “vattene”. No, sono stati cacciati da novelli “alleati” che al posto dell’uniforme da soldato indossano le raffinate cravatte dell’alta finanza. E questa odierna tabula rasa non distingue i buoni dai cattivi, non ascolta le ragioni dei forti, figuriamoci dei deboli.

Con loro esce di scena la politica italiana tutta, di qualsiasi colore, una politica che in Italia non è la più nobile delle arti intellettuali, come sosteneva Platone e come con fastidiosa arroganza spesso ricordava D’Alema, è il rifugio dei mediocri, è il regno delle vanità e degli egoismi personali. Nella migliore delle ipotesi è uno stadio in cui opposte curve di ultrà si confrontano sino a malmenarsi. Viene da chiedersi se l’uscita di scena del governo Berlusconi non segni l’irreversibile fine della politica così come l’abbiamo conosciuta, o studiata a scuola, o sognata, la disciplina dove i diversi interessi sociali si mediano in nome del bene comune e della prosperità dell’intera nazione.
Cosa dobbiamo applaudire se la fine dell’incapace populista Berlusconi segna l’inizio dell’efficiente tecnocrate Monti, se il referente politico slitta dal “popolo” (seppur nel suo populismo Berlusconi era al popolo che si rivolgeva) ai “mercati”? Commissariati dai mercati, commissariati dai finanzieri, commissionati da nazioni straniere, commissariati dal capitalismo mondiale del salotto buono. Passiamo da un capitalismo “cafone” e cialtrone ad un capitalismo elegante, vagamente liberal, vagamente keynesiano, tutto qui. E cosa si dimostrerà, poi, Monti? Un premier, un commissario o un curatore fallimentare?

Talmente esausti e nauseati dalla volgarità italiana, da premier che raccontano barzellette da osteria, da ministri che fanno le pernacchie, da fellatio di valore ministeriale, applaudiamo come un novello Che Guevara il liberatore Monti, il suo viso austero e rigoroso, la sua efficienza bocconiana scolpita sull’alta fronte. Certo che l’applaudiamo, al punto in cui siamo applaudiremmo anche un governo Pacciani. Ma sono certo che nei prossimi giorni smetteremo di applaudirlo, quando applicherà a tutti noi le sue dolorose ricette, le ricette della BCE. E se pur quelle ricette dovessero funzionare, se pur dovessero riportare un po’ di calma in questo sgangherato Paese, resterà l’ineludibile sensazione di un fallimento, il fallimento di un popolo che non è in grado di esprimere rappresentanti degni, il fallimento di un popolo che non sa badare a se stesso, il fallimento della democrazia rappresentativa.