Premetto che non ho votato PD ma SEL, che della coalizione Bersani fa parte, e quindi mi sento in diritto di scrivere le seguenti cose.
Iniziamo con una velocissima cronistoria degli ultimi 50 giorni. La coalizione di Bersani vince le elezioni perdendole, o le perde vincendole, fate voi. Sta di fatto che conquista maggioranza assoluta alla Camera e relativa al Senato: qualsiasi prospettiva di governo necessita della sua approvazione. Già dal giorno dopo Berlusconi offre la sua disponibilità a Bersani ma il nostro rifiuta, dice no, dice che non ci sono condizioni per un “governissimo”, dice che la nostra gente non lo capirebbe. “La nostra gente non lo capirebbe”, non so quante volte in queste ultime settimane ho sentito questa frase dai dirigenti del PD. Bersani, dice lui, lavora per un governo del cambiamento, ovvero si rivolge a Grillo – piuttosto maldestramente, direi, ma comunque cerca un accordo. Grillo gli si nega, arriva a sbeffeggiarlo, mentre dall’altra parte Berlusconi continua a corteggiarlo. Ma il nostro eroe, coerente con le sue idee, insiste con Grillo e così si va avanti fino a questi giorni, alle elezioni per il Quirinale. E qui c’è la prima sorpresa, c’è Grillo che – probabilmente ubriaco, come suggerisce ironicamente Travaglio – tende la mano a Bersani. Gli dice che se votate il nostro candidato allora si può parlare di governo. E chi è questo candidato? Casaleggio? Grillo stesso? Una sconosciuta precaria di Molfetta? No, è Stefano Rodotà, famoso e stimato giurista da sempre impegnato sul fronte dei diritti civili e, soprattutto, un uomo che in qualche modo appartiene alla stessa storia del PD, se non altro per essere stato il Presidente del PDS, partito embrione del futuro PD. È fatta, quindi, penso io. Invece no, perché con un colpo di scena alla Ionesco il Bersani cosa si inventa? Sceglie un candidato insieme a Berlusconi e gradito a Berlusconi.
Cos’è questo, uno scherzo stupido? Una patologia di ordine psichiatrico? Un improvviso manifestarsi della sindrome di Stoccolma? Qualcuno me lo spiega?
Come funzioni Bersani? Come funzioni PD? Per 50 giorni hai predicato questo fantomatico “cambiamento”, hai inseguito Grillo come un martire segue il martirio e ora che tutto ciò che hai cercato sembra materializzarsi tu ti accordi con la destra? Ignorando, tra l’altro, una figura come Rodotà che appartiene alla tua stessa storia politica? Ma io – risponde questo imponente stratega – ho cercato un nome condiviso. Condiviso? E come mai la condivisione di 2/3 del parlamento (PD+PDL+SC) vale più della condivisione di analoghi 2/3 del parlamento (PD+SEL+M5S)? Non è una questione di maggioranza matematica ma una chiara scelta politica.
Io c’ho creduto caro Bersani, ho creduto ad un PD che finalmente aprisse a sinistra, ho fatto il tifo per te, per il tuo tentativo, ho difeso le tue scelte discutendo e litigando con amici evidentemente più lungimiranti di me e ora mi sento preso in giro, io e milioni di italiani. E cosa devo credere? Devo credere “travagliescamente” che l’unica lettura di questi ultimi vent’anni di storia politica italiana sia riducibile ad un accordo sottobanco tra Berlusconi e i dirigenti PDS-DS-PD? Accordo sul genere vivi e lascia vivere?
Ho una lettura un po’ più diversificata dell’amalgama di Travaglio. Più che ai complotti penso all’inettitudine, ad un micidiale mix di cialtroneria, insipienza, meschini egoismi, convenienze, pigrizia e paura. Comunque sia non mi interessa più, ora voglio solo una cosa cari Bersani, Letta, Franceschini, D’Alema, Veltroni, Fassino, Violante, Bindi, Finocchiaro, Fioroni e scusate se mi sono dimenticato qualcuno, voglio che ve ne andiate via, voglio la vostra morte, politica intendo, per carità non mi fraintendete, lunga vita biologica ma immediata morte politica. Godetevi la vita, godetevi la vostra bella pensione, fate viaggi, liberateci per sempre della vostra triste presenza perché meritiamo di meglio.
p.s. mentre scrivo, dopo Marini hanno impallinato anche Prodi… avanti il prossimo.
Certamente la politica italiana è la meno noiosa d’Europa, una vera fucina di inimmaginabili novità ed esperimenti, e conseguenti stimoli alla riflessione. Ad esempio in questi giorni stavo progettando un approfondito articolo sulla fascinazione tutta italiana per i comici e, in particolare, per quella vera e propria delega che il popolo di sinistra, in questo ventennio berlusconiano (altro comico il Cavaliere, a suo modo), ha dato ai comici in fatto di lettura della realtà, analisi politica, proposte e prospettive. Argomento su cui sperò ritornerò, magari legandolo ad un interessante servizio proposto da Repubblica del 29 Marzo, tre pagine dedicate all’analfabetismo di ritorno causato dall’eccessivo uso della tecnologia e, ulteriore approfondimento, all’incapacità, anche per chi ha normali attitudini alla lettura, di comprendere una narrazione complessa. Ci si perde di fronte alla complessità, in pratica difettiamo di sintesi, qualità che invece non deve mancare mai al comico, e in generale all’artista. Tutti splendidi argomenti, poi sono arrivati i “10 saggi” di Napolitano.
Non mi sembra sia stato ancora messo bene in evidenza come l’Italia sia divenuta, a partire da Novembre 2011, e quindi circa da un anno e mezzo, una Repubblica Presidenziale. Dalla fine del IV Governo Berlusconi i principali partiti italiani hanno rinunciato alla guida del Paese, chi per manifesta incapacità e rischi di dissolvimento (PDL), chi per paura, miopia, fisiologica confusione (PD), e si sono cristallizzati in posizioni che vanno dall’attendismo allo slogan elettorale, da folli propositi di autosufficienza ad arroganti e irricevibili inviti alla collaborazione. E alla fine, come adolescenti spaventati e persi, hanno chiamato papà. Forse papà, ovvero Giorgio Napolitano, ne avrebbe fatto volentieri a meno; forse gli sarà sembrato strano e anche deprimente che a 87 anni gli si chiedesse di prendere la guida di 60 milioni di persone i cui rappresentanti politici non possono e non vogliono mettersi d’accordo; o forse si sarà sentito inorgoglito e galvanizzato dall’unanime riconoscimento alla sola importante qualità che un ottantasettenne come lui può avere, la saggezza. Volente o nolente quella guida l’ha presa e la sta esercitando con energica risolutezza.
Nel 2011 ci ha imposto il Governo Monti. “Imposto” può sembrare un termine eccessivo ma di fatto così è stato, d’altronde gli è stato detto chiaramente “fai tu qualcosa che noi non ne usciamo”. E lui qualcosa ha fatto, è stato suo dovere e diritto. Non voglio entrare in un giudizio di merito sul Governo Monti, mi limito ad osservare che fu a tutti gli effetti un commissariamento della democrazia parlamentare. Poi le elezioni e di nuovo un accorato “per favore pensaci tu”. Nonostante abbiamo il Parlamento più giovane della storia repubblicana, chi detta l’agenda, chi sbroglia la matassa, chi ci indica la via è ancora questo grande vecchio, amendoliano, migliorista, riformista, storico rappresentante dell’area di destra del PCI.
I “10 saggi” di Napolitano seguono la stessa prospettiva che fece nascere il Governo Monti: reciproca collaborazione PD-PDL (“inciucio”, per qualcuno), governabilità, stabilità, rassicurare, prendere tempo, rimandare gli scontri. La differenza è che tale scelta nel primo caso fu obbligata dall’inesistenza di una qualunque ipotesi di maggioranza parlamentare e dal “responsabile” rifiuto PD di andare alla elezioni (che, ovviamente, avrebbe stravinto), mentre oggi, con i “10 saggi”, con quei 10 saggi, mi appare più il volontario imporsi di una visione politica molto personale e anche poco sensibile a certe suggestioni emerse con evidenza dalle elezioni in poi. Formalmente, Napolitano prende alla lettera l’invito dei partiti a superare lo stallo e si crea un proprio governo attivo su due fondamentali questioni, istituzionale ed economica. Così abbiamo un Parlamento ancora fermo, un governo in carica ma dimissionario (e sconfitto alla elezioni) e un governo del Presidente fetale che tra qualche settimana verrà alla luce. Nei contenuti, la scelta di quei nomi indica una precisa volontà verso una “Grosse koalition”, e un disconoscimento definitivo di qualsiasi ipotesi di svolta a sinistra (tentativo Bersani). Napolitano scende in campo per facilitare il dialogo tra i partiti ma non tutti i partiti sono oggetto del suo tentativo, solo alcuni partiti e alcune “anime” di questi: la bocciatura di qualsiasi istanza proposta dal M5S e il disconoscimento del timido tentativo di Bersani di aprire a Grillo appare evidente. Altrettanto evidente appare il nuovo e ulteriore riconoscimento politico di Berlusconi quale interlocutore irrinunciabile, in questa fase, per qualsiasi governo. Ergo, Napolitano faciliterà il dialogo tra alcuni precisi partiti in direzione di alcune precise linee programmatiche. Il Presidente ha scelto quale deve essere il prossimo governo.
I 10 saggi di Napolitano sono come il Congresso di Vienna o la controriforma cattolica: atti di restaurazione. Berlusconi ringrazia; Grillo – che della proposta Bersani aveva paura – pure. I 10 saggi sono anche una coltellata alla sinistra PD e spingono questo partito verso una possibile e definitiva spaccatura. La prossima collaborazione con Berlusconi sarà l’occasione per il manifestarsi di una frattura insanabile tra una vecchia guardia governativa, pronta a cedere a Renzi lo scettro del comando, e una variegata costellazione di personaggi, giovani turchi e vecchi leader, emotivamente compressi tra la rabbia per l’ennesima umiliazione e i sensi di colpa per quegli argomenti grillini, brucianti ricordi di una passata gioventù movimentista, che avrebbero voluto far propri ma che la paterna e saggia autorità di papà Giorgio gli ha negato.
Piazza San Giovanni durante il comizio di chiusura della campagna elettorale di Grillo
Ma quante novità in questi primi mesi del 2013. Ci aspettano un Parlamento nuovo, un Presidente della Repubblica nuovo… e mettiamoci anche un nuovo Papa (che purtroppo da noi conta molto). Ancora una volta tutto cambia affinché nulla cambi? Non lo possiamo sapere per ora. Sappiamo però che il Parlamento è sconvolto dall’arrivo dei marziani delle 5 Stelle.
Non so voi, ma personalmente quando una grande novità esplode così clamorosamente mi resta dentro la delusione per non averne fatto parte, non averla capita in tempo, assorbita, contribuito a diffonderla. Io non c’ero. E per chi come me considera il concetto di “sinistra” da sempre intercambiabile con quello di “progresso”, sinistra come utopia, come altro mondo possibile, quell’io non c’ero pesa e brucia, ha retrogusti di sconfitta, di fregatura, di vecchiaia (“sei vecchio e non hai capito il mondo che cambia”). Ancora una volta abbiamo perso tempo a litigare tra pragmatici e idealisti, tra moderati e radicali, ognuno a valutare (e sminuire) il pedigree di sinistra altrui, e non ci siamo accorti che qualcosa ci stava scavalcando. Sì, ma cosa?
Un variegato mix, in parte talmente innovativo che il linguaggio arranca nel tentativo di afferrarlo nella sua organicità e di tracciarne chiari confini. Ci rinuncio anche io, è materia di cui discuteranno gli storici tra vent’anni. Ciò che invece un contemporaneo può fare è sezionarlo nelle principali caratteristiche, quelle che oggi emergono visibili. Purtroppo è la descrizione di chi si trova di fronte un mostro mai visto, un fenomeno mai esperito, un ragionamento quindi inevitabilmente confuso che rischia di dare troppo importanza ad aspetti solo superficiali, o che rischia di fraintenderne o ignorarne altri, utilizzando strumenti analitici e descrittivi vecchi e inadeguati. Ma proviamoci lo stesso.
GENERAZIONALE – È questo un dato di fatto incontrovertibile. L’età media degli eletti del M5S è di 37 anni. Va anche detto che si abbassa clamorosamente l’età media di quasi tutti i gruppi parlamentari, 45 quella della Lega, 48 quella del Centro Sinistra. Il concetto di rottamazione che ci accompagna da diversi anni, e che fu posto per primo proprio da Grillo, ha trovato quindi la sua applicazione. Finalmente! La generazione dei TQ, quella segnata da ogni sorta di incertezza e precariato, si prende la scena che gli compete e l’Italia gerontocratica accusa il colpo. Non è cosa da poco. Un Parlamento tanto giovane è imprevedibile, ed capace di qualsiasi cosa, nel bene e nel male. Finalmente un po’ di vento tra le ragnatele di questa Italia mummificata.
ANTIPOLITICO – È l’aspetto che attira gli epiteti di populismo e demagogia. Ma dobbiamo andare al di là dell’ingiuria. Certamente alcuni slogan sono triti e ritriti, degni di una discussione al bar dello sport: “andate tutti a casa”, “sono tutti uguali”, “sono tutti parassiti” etc. Si tratta di una umoralità che fa sempre presa, soprattutto in tempi di crisi. Ma c’è dell’altro. Si mette in discussione l’efficacia della democrazia rappresentativa, ovvero della delega. È una critica che finora non produce vere e proprie alternative ma intanto si inizia a porla. Quello che mi pare essere messa sotto processo è soprattuttola lentezza della politica, la sua proverbiale incapacità a decidere nei tempi (brevi) che il mondo contemporaneo richiede. Nonché la sua altrettanto proverbiale incapacità nel saper legiferare con chiarezza. Si pone l’accento sulla distanza che passa tra il buon senso della gente comune e le decisioni del Palazzo che spesso contraddicono quel senso comune. Meno enfatizzata, ma non assente, mi sembra la questione morale, con l’annesso impeto giustizialista (populismo, questo, più caro alla sinistra tradizionale).
POST IDEOLOGICO – Nel senso del rifiuto di rigidi schematismi destra-sinistra, e soprattutto delle conseguenze partitocratiche di tali schematismi: il necessario inchino a cordate, gruppi, conventicole, le logiche tutte italiane dell’appartenenza tribale e della raccomandazione. Non porsi il problema se si è di destra o di sinistra significa non perdere tempo in questioni che non vengono ritenute utili a nulla. Poi possiamo scartabellare l’intero programma dei grillini e scoprire la presenza di tante questioni di evidente derivazione no-global, e parlo del no-global anti liberista del primo decennio dei 2000, ma il punto resta la ferma volontà di non lasciarsi intrappolare dagli obbligati percorsi mentali di un modo di ragionare che non si ritiene più valido e più produttivo, un po’ come se qualcuno ci chiedesse se siamo guelfi o ghibellini. L’ideologia, magari inconsapevolmente, c’è sempre, ma viene privata della suo carattere statutario, viene smembrata, disarticolata, ricontestualizzata. Una sorta di bricolage ideologico.
FIGLIO DELLA RETE – È questo il punto più oscuro, che va al di là dell’ovvia familiarità con i mezzi che la rete mette a disposizione, e che chiama in causa il leader nascosto del Movimento, Casaleggio. C’è la diffusa sensazione (giustissima) che la rete rappresenti e permetta un cambio di paradigma epocale, una nuova alfabetizzazione con influenze dirette sull’organizzazione sociale ed economica mondiale, e forse anche sull’antropologia. Orwell che scrive La Città del Sole. L’enfasi è sulla velocità della rete e mi pare di intravedere una tensione futurologica andare a braccetto con un impeto futurista (e conosciamo il reciproco amore tra futurismo e fascismo). Staremo a vedere. Certo che nulla appare più distante dal quotidiano vissuto in rete delle lente, barocche e snervanti alchimie dell’apparato politico italiano. L’immagine grillina dei morti che camminano è in questo senso molto efficace.
Ed ora che accade? Tutti a interrogarsi su cosa farà ora Grillo, a decriptare ogni possibile sfumatura nei post del suo blog. Ci si dimentica che Grillo non è in Parlamento. Lì, in compenso, ci sono 163 eletti del M5S (109 deputati più 54 senatori) che equivalgono al 17% degli eletti nelle due camere. È ipotizzabile che queste 163 persone si rivelino essere niente più che burattini nella mani del gran burattinaio? Anzi, dei due grandi burattinai, Grillo e Casaleggio? In realtà la compattezza che dimostrerà questo gruppo è per ora un mistero ignoto a tutti, a Grillo stesso. In Parlamento non hai vincolo di mandato, sei parlamentare con la prospettiva di poterlo restare per 5 anni, e i richiami della “casa madre” giungono smorzati e flebili, soprattutto se questa è un non-partito che al massimo ti può espellere dal suo blog. Insomma, pochi luoghi esaltano l’individualismo quanto lo fa il Parlamento e l’idea che i post quotidiani di Grillo – iperbolici e umorali come abbiamo imparato essere – funzionino sui deputati del m5S come i fondi della Pravda operavano sui membri del PCUS mi sembra improbabile. A ognuno le sue funzioni naturali: Grillo è il distruttore, è la testa d’ariete che ha sfondato le porte del castello, che vi ha fatto entrare 163 giovani sconosciuti; ma in Parlamento ci si sta per costruire, altrimenti non serve a nulla restarci. Il Grillo costruttore finora non si è visto, è un’attitudine che poco gli si adatta, e credo che questo sia chiaro anche a lui. Inoltre, costruire in Parlamento significa agire in modi che sono tutto opposti alla foga iconoclasta grillina, significa mediare, darsi scadenze più lunghe, agire di tattica, a volte abbracciare il nemico. Qualcosa del genere successe venti anni fa a Bossi, che non era meno di Grillo in capacità di distruzione. E Bossi, a differenza di Grillo, in Parlamento ci stava. La presa che Grillo continuerà ad avere sui suoi deputati e senatori è il vero quesito politico dell’imminente futuro.
Allora, Bill Emmott, ex direttore dell’Economist, storico settimanale inglese alfiere del liberismo economico, decide di fare un film documentario sulla decadenza morale dell’Italia. Lo intitola Girlfriend in a coma e ne propone al MAXXI di Roma la proiezione per il giorno 13 febbraio 2013. La proiezione viene annullata dal neo direttore del MAXXI Giovanna Melandri che adduce motivazioni di opportunità legate al regime di par condicio elettorale, e giù critiche da ogni parte e accuse di censura, soprattutto da settori dell’estrema sinistra felici di poter attaccare qualunque esponente del PD (quale è la Melandri) gliene dia motivazioni.
Non mi risulta che né Emmott né l’Economist siano di cultura socialista e/o progressista, quindi non capisco l’improvviso amore per le loro posizioni da parte dei compagni duri e puri di casa nostra. Ora anche l’iperliberismo anglosassone va bene alla causa?
Non capisco perché un museo di arte contemporanea debba ospitare la proiezione di un film di chiara natura politico propagandista. Né capisco perché questa par condicio che, ci piaccia o no, è legge dello Stato, debba valere per qualcuno sì e per altri no.
Non ho visto questo documentario ma mi risulta che nel suo manicheismo espositivo (l’Italia buona contrapposta a quella cattiva) dia largo spazio ad interviste a Mario Monti e a Sergio Marchionne quali esempi positivi che (secondo Emmott) lasciano sperare nell’uscita dal coma del Paese.
Insomma, sono fisiologicamente contro ad ogni censura e quindi per quanto mi riguarda la Melandri ha sbagliato e se fosse per me… proiettatelo pure dove e quanto vi pare, ma mi fa schifo l’opportunistica indignazione sbandierata da alcuni benpensanti italiani per raggranellare qualche voto in più.
Vorrei infine dire ad Emmott che la decadenza morale dell’Italia nessuno la conosce meglio di noi italiani. La conosciamo talmente bene che la cultura autolesionistica del piagnisteo è diventata un pilastro del carattere nazionale e sarebbe ora che ce ne liberassimo. Vorrei anche ricordare ad Emmott che la decadenza italiana è solo uno dei tanti aspetti della ben più generale decadenza dell’Europa e dell’Occidente, decadenza che riguarda anche la sua Inghilterra, o che addirittura nella sua Inghilterra nasce e si sviluppa. Vada nella City londinese a cercare le origini della decadenza.
Ma un bel documentario sui danni che il colonialismo inglese ha causato in tutto il mondo come lo vedrebbe Sir Emmott?
Ah, dimenticavo, nei prossimi giorni l’Espresso renderà disponibile in download dal suo sito il film. Ovviamente a pagamento, perché anche la bella indignazione è uno stato emotivo non per tutte le tasche.
Addio a Roma, di Sandra Petrignani, Neri Pozza Edizioni. La donna ritratta in copertina è Palma Bucarelli
Addio a Roma, un saluto che oggi mi appare augurio luminoso, appena sopra l’orizzonte illuminato d’alba, a caratteri cubitali. Ma poi è solo un titolo di un libro. Uno slogan, una promessa per il futuro, una cronaca di quel che è stato, un titolo di un libro, un distacco, un’inizio e quindi una fine, o un fine, una pubblicità. Tutti quei pittori per i quali sporcare la tela bianca è darle vita, fiorirla di colori, e poi gli scrittori tristi, sempre incatenati alle convenienze del senso. Roma nei ’50, nei ’60, nei primi ’70, stesso letame di oggi, ma più fertile, genitore di fiori, merda d’artista. Più sampietrini, meno asfalto, più nobiltà nera, nessuna Smart, ugualmente ministeriale, clericale, mafiosetta, genuinamente puritana mentre oggi è ipocritamente libertaria. In quei trent’anni nasce la Roma che oggi è ormai senile, o forse già morta, già cadavere privo d’odore. Una Roma ancora giovane, forte, vitale e ottimista, una Roma che – chissà perché? – me la raffiguro con la faccia sbruffona di Renato Salvatori in canottiera e con i bicipiti bene in mostra. In quella Roma accade che un breve e singolare rinascimento, tutto sommato ancora poco indagato, si innesta in un tessuto sociale post bellico, un melting pot tutto italiano che dello Stivale amplifica vizi e virtù. I vizi si sono tramandati sino ad oggi, fortificati direi. Le virtù scomparse nel deserto odierno. «Coraggio, il meglio è passato» dice il geniale Flaiano, e allora resta lo stupore sul come e perché questo paesone di estrema provincia sia stato per una manciata d’anni il classico ombelico del mondo.
Il libro si apre nell’anno 1952, sul set di Vacanze Romane, e si chiude nel 1975 con l’assassinio di Pasolini. Dalla finzione di allegre vacanze alla realtà dell’omicidio di un poeta, che ancor più di tanti altri eventi degli anni di piombo chiude il sogno italiano di una densa, profonda, matura democrazia. In quasi cinque lustri Roma ispira, ospita e nutre il meglio della cultura e dell’arte italiana e internazionale, ed è probabile che non ne riceva nulla di sostanziale in cambio, altrimenti non si spiegherebbe la successiva decadenza. Se c’è una immagine che mi rimane dalla lettura di questo impressionante gotha intellettuale che sciama tra Fontana di Trevi e Piazza del Popolo, tra Trinità dei Monti e Trastevere, è quella delle cavallette, nonché l’idea che una città – anche una città eterna – non ha di fronte alla comunità artistica un ruolo differente da quello che riveste il locale del momento, quello trendy, quello che fa tendenza: quando la moda cambia si cambia locale, e le cavallette se ne vanno, nell’indifferenza – questa sì eterna – delle rovine imperiali e delle chiese barocche. Ma forse questo è nello specifico DNA dell’Urbe, come suggerisce una citazione di Corrado Alvaro: «Ci si lega a questa città per nulla affettuosa, per nulla cordiale, che è di tutti e di nessuno, che ci tiene ospiti anche se ci stiamo tutta la vita e resta sempre quella città indifferente cui approdammo impauriti nella prima giovinezza. Nessun aspetto di essa è familiare e intanto la vita italiana vi si trapianta con tutti i suoi caratteri.» [pg. 99-100].
Per il resto un testo interessante, leggero e godibile, forse con troppi nomi e personaggi per lasciarti davvero incollato alle pagine, né storico-critico in senso stretto né romanzato (per quanto in parte lo sia), cronachistico direi, dove l’enorme quantità di informazioni è gestita con uno sguardo dall’alto, che distingue i vari gruppi più delle persone, alternato ad improvvise e dettagliate zoommate nella quotidianità di alcuni singoli, Palma Bucarelli (storica direttrice della GNAM), la coppia Moravia-Morante, la successiva coppia Moravia-Maraini, e poi Calvino, Pasolini, Fellini, Flaiano, Cristina Campo e Elémire Zolla, Goffredo Parise e Giosetta Fioroni, Natalia Ginzburg, Renato Guttuso, Carlo Levi, Alberto Arbasino, Luchino Visconti, Giorgio Bassani, Adriano Olivetti. Una quotidianità che è aneddotica e a volte diventa a tutti gli effetti gossip, ma gossip benevolo e divertito, quello che si usa verso i propri beniamini, privo di accanimento, inopportunità, mancanza di rispetto. Interessanti anche le pagine sulla nascita di eventi e movimenti artistici, intellettuali o di costume ormai entrati nel mito, le origini del Premio Strega, il Gruppo Origine (Burri tra gli altri), la Dolce Vita, la scuola di Piazza del Popolo (Schifano, Festa, Angeli, Fioroni), la nascita dell’Espresso (Benedetti e Scalfari), la fondazione dell’AIPA (Associazione Italiana di Psicologia Analitica), il Gruppo ’63 (Eco e Arbasino), la prima sperimentazione teatrale.
Maggior simpatia va ai pittori, più pazzi, più tormentati, più squattrinati di tutti, vere rock star ante litteram. Sono probabilmente loro, con le loro storie di «ricchezza, di frustrazioni, invidie, depressioni e di improvvisi successi; ma poi il finale è un nuovo ribaltamento, autodistruzione, malattie incurabili, suicidi, incidenti.» [pg. 26], sono loro a recuperare la narrazione verso una realtà triste, a volte tragica (colpiscono le figure di Francesco Lo Savio, di Piero Manzoni, di Pino Pascali), ma almeno riconoscibile, una realtà la cui assenza avrebbe lasciato un retrogusto di finzione al tutto, un “sei bravo, hai talento, quindi ottieni successo e una vita felice” troppo favolistico per risultare credibile. Troppo favolistico o semplicemente testimonianza di un’epoca unica e irripetibile, distante anni luce dalla nostra? Questo libro non lo chiarisce a fondo, non ci dice molto sulle difficoltà per emergere, sui problemi economici, sulle lusinghe del potere e del successo, sulle inevitabili invidie, rivalità, delusioni, sconfitte, amarezze, su un sistema che t’umilia e ti sfrutta, su una quotidianità che ti distrae. Ci mostra questi grandi intellettuali, scrittori soprattutto, discutere d’arte e di letteratura, litigare d’arte e di letteratura, vivere e morire completamente immersi nell’arte e nella letteratura. Un’adesione quasi monacale alla propria vocazione che leggendo pensi non possa essere vera, e se invece fu vera allora mi provoca tanta invidia, e tanta pena per i nostri anni. L’immagine dell’ingegner Gadda morente nel suo letto con i suoi amici che lo vegliavano a turno leggendogli «l’amatissimo I Promessi Sposi» [pg. 316] è impressionante.
Poi il libro finisce, lo chiudi, vai a fare una passeggiata al centro, ti guardi intorno e ti chiedi «ma davvero è successo tutto qua?».
È comprensibile la perplessità – o addirittura il rifiuto – di certa critica o di tanti cinefili di fronte ai prodotti di Tarantino. Chiunque deleghi al cinema un (inconfessabile) ruolo di scienza umanistica che scandagli la complessità dell’essere umano, del suo stare nella Storia, del suo sognare l’eterno e risvegliarsi mortale, chiunque pensi che il cinema sia uno strumento di conoscenza e intellegibilità, un moderno maître à penser che faccia luce sull’umano e sul sociale e sul culturale… ecco, chiunque cerchi nel cinema una penetrante saggistica, possibilmente resa leggera nei tempi e nelle forme espositive, non potrà non guardare la filmografia tarantiniana con la sufficienza che si dà ad un banale sottoprodotto di cultura popolare, il cui ambito si esaurisce all’interno del concetto di intrattenimento.
Non sarò io a tentare di dimostrare il contrario. Posso, però, mettere meglio a fuoco proprio il concetto di “intrattenimento” e il suo derivato di “evasione”. Se evasione deve essere, allora si evade da uno stato che non ci piace, non ci soddisfa, si evade verso qualcosa che ora ci manca. La nostra è un’epoca dove abbiamo dovuto progressivamente perdere ogni fiducia nell’utopia di una costruzione razionale della società, che soddisfi ogni nostro bisogno, che ci curi e ci difenda. Che ci resta, dunque, se non il gesto individuale, quello eroico, quello che ci indica come salvarci, come uscirne? È un’antropologia scarnificata, ridotta all’osso, dove le sovrastrutture borghesi non hanno casa, dove i sentimenti in campo sono primordiali, difendere la propria vita, quella dei propri cari, oppure vendicarsi, uccidere il male che c’ha ferito, fare scorrere copioso il sangue del cattivo. Se c’è un “contenuto” che attira in Tarantino mi sembra sia questo. È, appunto, cultura “popolare”, dove l’accezione di popolare rimanda a massa, al panem et circenses dei romani. Tarantino ci dà i “giochi”.
Sì, ma lo fa con nessun intento politico (tantomeno pedagogico). Lo fa con l’amore insindacabile del collezionista verso i propri oggetti, il cinema di genere, i polizieschi, l’horror splatter, i western (possibilmente “spaghetti”), la cinematografia giapponese e coreana. Lo fa con quella misteriosa passione verso l’anacronistico e il modernariato, che in ultima analisi è amore per la Storia. Amore, non simbiosi, non nostalgia reazionaria. Le massicce dosi di ironia con cui impasta i suoi film bilanciano la mera e acritica passione, sottraendolo così da un’irrelata adesione a tempi e forme passate per portarlo verso un lucido distacco da storiografo. Come il suo Django, Tarantino si libera dalle catene della Storia, si s-catena (un-chained), e lo scatenarsi dei suoi eroi di celluloide è in proporzione anche il suo svincolarsi da loro. Il citazionismo di Tarantino, quindi, è una forma di storiografia del cinema, è il tracciato che narra per segni come eravamo e cosa siamo diventati, è lo sguardo della madre che riconosce nei tratti somatici del figlio l’appartenenza alla propria genia, il naso del nonno, la bocca del padre, e lo fa col sorriso sulle labbra, un po’ amore un po’ sbeffeggio.
Il suo cinema è un discorso interno al cinema. In questo senso è puramente formale. Una forma che si esplica in una (parziale) storia del cinema “cinematografizzata” ma anche, e soprattutto, in una consapevole cura estetica che trasforma un prodotto industriale usa e getta in un manufatto artistico. Tarantino è espressionista, carica i colori, le vicende, le passioni, le azioni, va in direzione del fumetto curando tuttavia dialoghi, riprese, fotografia, montaggio come solo un grande maestro sa fare. E in questo suo riformulare sottoprodotti dell’industria cinematografica di genere in direzione di un discorso estetico, e quindi innalzarli da prodotto industriale a prodotto artistico, sembra ripercorrere 60 anni dopo i sentieri della pop-art.
Il suo ultimo Django Unchained non aggiunge nulla a questo percorso, semmai lo ripete sino a rasentare il manierismo. Ed è questo il suo unico limite.
Una buona metafora ci rimanda ai minuti che precedono la partenza di una gara di Formula 1. La nostra telecamera riprende la scena dall’alto, poi in piano sequenza si abbassa sul piano stradale e gira tra i motori che iniziano ad accendersi. Si sofferma su qualche particolare, Berlusconi che indossa il casco liftato dal profilo di caimano, Bersani che già da qualche giorno è dentro la sua monoposto accesa, il Professor Monti che indugia davanti la sua, salgo? non salgo? accendo? scendo? Grillo che prende a calci il gommista. E poi si notano due facce nuove, un pilota e un meccanico.
Il primo è Antonio Ingroia, famoso magistrato antimafia nonché editorialista del Fatto. Si presenta con un logo che è un capolavoro di marketing: al centro in grande si staglia il proprio nome, garanzia assoluta di lotta alla criminalità organizzata; in alto il nome della sua lista, RIVOLUZIONE CIVILE, ovvero l’idea che ora, con lui leader, le persone civili ed oneste si incazzeranno e faranno addirittura la rivoluzione; infine in basso un’immagine che rielabora il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, ulteriore richiamo alla rivoluzione ma stavolta condotta dal “popolo”, il quarto stato appunto, e da qui l’ovvia equivalenza tra civiltà e popolo lavoratore. Molto bello.
Stimo da sempre Ingroia come magistrato ma la sua candidatura in politica (discesa? salita?) mi pone i seguenti insolvibili dubbi: A) Un magistrato indubbiamente bravissimo come lui non dovrebbe per il bene di tutti noi restarsene in magistratura ad “acchiappare” i tanti manigoldi italiani (lo stesso dicasi per il neo acquisto PD, l’ex Procuratore Grasso)? B) Non è forse una semplificazione banale e immiserente ridurre l’enorme complessità (economica, sociale, culturale) che caratterizza la crisi italiana solo alla lotta su scala nazionale contro tutte le mafie? C) Questo neo partito, che tra i suoi principali leader schiera gli ex magistrati Di Pietro, De Magistris e infine Ingroia, non mostra forse di costituirsi cementato di una cultura inquirente? Ovvero forcaiola e giustizialista e – per quanto mi riguarda – inquietante? D) Il pilota Ingroia si rende conto di quanti politici lisi e iper trombati (Diliberto ad esempio, o Ferrero, o lo stesso Di Pietro) saliranno sulla sua carrozza (anzi, monoposto) nella speranza di rinverdire antiche glorie che altrimenti la storia recente e il buon senso degli elettori gli negherebbero? E) È possibile che nelle sue due prime uscite da candidato, Ingroia abbia trovato motivo di infervorarsi solo contro Napolitano e poi contro Bersani? Sono questi due il problema italiano per Ingroia? Stiamo forse, attraverso Ingroia, per assistere all’ennesima, noiosa, irritante, inconcludente e suicida lotta fratricida a sinistra? F) Infine, possibile che gli italiani si appassionino sempre e soltanto alle reincarnazioni di Savonarola?
Passiamo al meccanico che sta dando gli ultimi ritocchi alla monoposto del Professor Monti. Si tratta di Enrico Bondi. La sua biografia in wikipedia inizia dicendo che è «Laureato in chimica, vanta grande esperienza nel risanamento di imprese in crisi.» Poi, sempre wikipedia, aggiunge «è uno dei 45 personaggi importanti del capitalismo italiano firmatari, nell’aprile del 1997, di una lettera al Parlamento italiano con cui si chiedeva la depenalizzazione del reato di falso in bilancio». Perfetto, abbiamo quindi un chimico fan della depenalizzazione del falso in bilancio che, a suo modo, “risana” e rilancia aziende in crisi, Montedison prima e Parmalat poi. Cosa c’entra ora Bondi con le prossime elezioni italiane? C’entra perché è stato incaricato da Monti (Monti in quanto leader politico, non in quanto Primo Ministro) di valutare pendenze penali ed eventuali conflitti d’interesse dei futuri candidati delle liste che lo sosterranno, quindi UDC, API, Italia Futura e FLI.
Come il “Signor Wolf” del film di Tarantino, Bondi è l’uomo che risolve problemi. Qualunque problema. Aziende in bancarotta? C’è Bondi. Spending Review? Chiamiamo Bondi. La sanità del Lazio ha un buco di 900 milioni di euro? Nominiamo Bondi Commissario Straordinario (o liquidatore, fate voi). Insomma, l’integerrima intransigenza e raffinata razionalità di Bondi ne stanno facendo l’uomo giusto per ogni evenienza, quasi un taumaturgo (ed in questo lo affianco ad Ingroia). L’idea che ora valuti anche il profumo di pulito e di freschezza dei candidati pro Monti, però, fa un po’ sorridere. Non solo perché nemmeno un uomo di valore come lui potrebbe districare l’intricatissimo conflitto d’interessi interno ad un movimento politico che è diretta espressione della “raffinata” imprenditoria italiana (opposta a quella becera di marca berlusconiana), ma anche perché la sua nomina a Ministro dell’Etichetta e dell’Opportunità esprime una logica di problem solving tipicamente aziendalista, bocconiana, comunque non politica anzi, proprio dal punto di vista della buona politica, decisamente tragica: decisionista, verticistica, gerarchica, ed anche un po’ ipocrita. Insomma un meccanico che non risolve il guasto ma lo istituzionalizza.
FOLLIA. Scendendo da Bari verso Taranto, i fumi dell’ILVA inizi a scorgerli all’orizzonte già all’altezza di Gioia del Colle. Un altro ottimo punto d’osservazione è il ponte di Punta Penna, quello tra i due mari. Da lì lo skyline dell’ILVA giganteggia, affumica il cielo in alto poggiandosi sui Tamburi in basso. A occhio e croce l’ILVA è estesa quanto il centro abitato di Taranto, è una città dietro un’altra, ferma alle sue spalle, in parte sembra abbracciarla. Cerchiamo di immaginarli questi due territori di simili dimensioni e appiccicati l’uno all’altro: qui non parliamo di una “fabrichetta” nascosta negli anfratti di qualche sconfinata periferia, qui parliamo di due gigantesche entità che da anni convivono, dividendosi lo stesso territorio.
Un paragone bizzarro ci può aiutare: pensate di avere per 18 anni (1995-2012) una persona grande e grossa come voi incollata alle vostre spalle e che 24 ore su 24 vi butta in faccia il fumo della sua sigaretta. Il giorno che quel fumo vi produrrà un tumore ai polmoni potreste mai dire “oddio, com’è potuto succedere”?
Teniamole in mente le proporzioni, le grandezze, i tempi, teniamole bene in mente le dimensioni spoaziotemporali perché in questa storia giocano un ruolo importante, perché se la prima regola di chi delinque è quella di non dare nell’occhio qui troviamo la perfetta ed efficace applicazione della regola opposta. E se l’assistere ad un reato senza denunciarlo è a sua volta un reato allora qui troviamo ribaltate, come in un allegro carnevale, le più elementari regole della convivenza civile, qualcosa che – con le dovute distinzioni – lega vittime e carnefici. Follia, follia allo stato puro.
METODO. Il 27 luglio 2012 il GIP di Taranto Patrizia Todisco emette un’ordinanza di sequestro di sei impianti dell’Ilva. L’ordinanza si basa su due perizie, una chimica e l’altra epidemiologica, che in forma di prova (incidente probatorio) stabiliscono durata, quantità e tipologia delle emissioni inquinanti dell’ILVA, nonché il nesso diretto tra tali emissioni e l’incredibile aumento di mortalità nel territorio tarantino per cause respiratorie, cardiache e oncologiche. Tra i vari punti dell’ordinanza ho selezionato i seguenti:
«La gestione del siderurgico di Taranto è sempre stata caratterizzata da una totale noncuranza dei gravissimi danni che il suo ciclo di lavorazione e produzione provoca all’ambiente e alla salute delle persone.»
«l’attività emissiva si è protratta dal 1995 ed è ancora in corso in tutta la sua nocività.»
«Non vi sono dubbi che gli indagati erano perfettamente al corrente che dall’attività del siderurgico si sprigionavano sostante tossiche nocive alla salute umana ed animale.»
«Le sostanze inquinanti erano sia chiaramente cancerogene, ma anche comportanti gravissimi danni cardiovascolari e respiratori. Gli effetti degli Ipa e delle diossine sull’uomo non potevano dirsi sconosciuti.»
Nella popolazione residente a Taranto si sono osservati «eccessi significativi di mortalità per tutte le cause e per il complesso delle patologie tumorali, per singoli tumori e per importanti patologie non tumorali, quali le malattie del sistema circolatorio, del sistema respiratorio e dell’apparato digerente, prefigurando quindi un quadro di mortalità molto critico.»
«Chi gestiva e gestisce l’Ilva ha continuato in tale attività inquinante con coscienza e volontà per la logica del profitto, calpestando le più elementari regole di sicurezza.»
“Non vi sono dubbi sul fatto che tale ipotesi criminosa sia caratterizzata dal dolo e non dalla semplice colpa. Invero, la circostanza che il siderurgico fosse terribile fonte di dispersione incontrollata di sostanze nocive per la salute umana e che tale dispersione cagionasse danni importanti alla popolazione era ben nota a tutti.»
«Non vi è dubbio che gli indagati, adottando strumenti insufficienti nell’evidente intento di contenere il budget di spesa, hanno condizionato le conseguenze dell’attività produttiva per la popolazione mentre soluzioni tempestive e corrette secondo la migliore tecnologia avrebbero sicuramente scongiurato il degrado di interi quartieri della città di Taranto.»
Due le frasi che restano ben impresse in mente: «che tale dispersione cagionasse danni importanti alla popolazione era ben noto a tutti». E poi «nell’evidente intento di contenere il budget di spesa». Due frasi che sono lo zenit e il nadir di questo distopico racconto. Ecco come:
L’ILVA (ex ITALSIDER), proprietà della famiglia Riva dal 1995, è una delle più grandi aziende siderurgiche europee. Gli stabilimenti tarantini sono addirittura i più estesi del continente. L’ILVA produce e vende acciaio, è un’azienda solida, fattura miliardi d’euro ogni anno (9,5 nel 2011) e dà utili in gran quantità (2,5 miliardi di euro negli ultimi 4 anni). Solo a Taranto, tra dipendenti diretti ed indotto (188 aziende pugliesi), stipendia circa 20.000 persone. È il classico “fiore all’occhiello” della sempre più malandata industria italiana. Ha un solo problema: inquina, inquina tanto, emette nell’aria polveri sottili (PM10), diossina e una lunga serie da brividi di veleni, diossido di azoto, anidride solforosa, acido cloridrico, benzene, idrocarburi policiclici aromatici, benzo(a)pirene, cromo trivalente, monossido di carbonio, biossido di carbonio, ossidi di azoto, ossidi di zolfo, arsenico, cadmio, cromo, rame, mercurio, nichel, piombo, zinco. Contamina l’aria respirata dai tarantini, contamina i terreni, i pascoli, gli animali degli allevamenti vicini alla fabbrica.
Queste cose si sanno da tempo, già nel 2008 l’ARPA misura livelli emissioni di diossina 11 volte superiori alle norme, nonostante ciò il Ministro dell’Ambiente Prestigiacomo concede l’AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale). Si sanno queste cose, e si sa pure che a Taranto si muore proporzionalmente più che nel resto della Puglia, fioccano i tumori e le malattie respiratorie e cardiovascolari. Si sa anche che la colpa è dell’ILVA, lo si sa per buon senso, per evidenza oculare ed olfattiva, perché gli altoforni fumano nuvole rosse ogni giorno, perché quando c’è il vento la città – in particolare i poveri quartieri Tamburi e Borgo – si riempie di polvere rossa. E torna in mente la frase del GIP «che tale dispersione cagionasse danni importanti alla popolazione era ben noto a tutti».
Ma risanare l’ILVA, portare le emissioni dentro i limiti stabiliti dall’OMS, costa tanto, tra i 3 e i 4 miliardi d’euro prevede il recente decreto Monti, cifra che se rapportata agli utili può significare per i Riva 6 anni senza guadagni, e allora torna in mente l’altra frase del GIP «nell’evidente intento di contenere il budget di spesa».
Il metodo ILVA è semplice. Con l’ILVA ci guadagnano tutti, morire di tumore o di enfisema è solo il fisiologico scotto da pagare alle esigenze del PIL. Il metodo ILVA “ammorbidisce” e tiene buoni tutti, dà una mano quando serve, finanzia campagne elettorali (nel 2006 risultano da Riva 245.000 euro a Forza Italia e 98.000 a Bersani), partecipa senza evidenti motivi alla cordata “salva Alitalia” voluta da Berlusconi, restaura chiese e cimiteri nella città di Taranto, paga attività dopolavoristiche (gestite dai sindacati) per i dipendenti. L’ILVA dà lavoro, in cambio chiede silenzio. E silenzio riceve. Un silenzio assordante, appiccicoso come una ragnatela, un silenzio che fa schifo. Dov’erano in questi anni le Istituzioni, lo Stato, la Regione, il Comune? Dove era la Chiesa? Dove i partiti? Dove i sindacati? E i giornalisti? Dov’erano anche loro? Tutti a spartirsi la loro quota di silenzio apparecchiata sopra i cadaveri delle solite vittime, operai e cittadini. Come bravi compagni di merende.
Comunque, per il momento sono indagati il vecchio Riva, suo figlio Nicola e due dirigenti ILVA. A loro carico sono ipotizzate le accuse di disastro colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e sversamento di sostanze pericolose e inquinamento atmosferico.
E sono indagati per concussione anche due politici, entrambi PD, della Provincia di Taranto, il Presidente e l’ex assessore all’ambiente: avrebbero favorito il rilascio dell’autorizzazione ambientale per la costruzione di una discarica, priva dei requisiti di legge.
Ma se anche questi fossero solo i primi “acciuffati” di una futura lunga serie, sento che non basta, non basta a ricondurre questa vicenda nei “normali” ambiti delle solite truffe all’italiana. C’è qualcosa di più in questo continuo e sistematico e palese e macroscopico avvelenamento ambientale, qualcosa di più in questo sciagurato evocare la morte e quiescentemente osservarla agire, qualcosa che chiama in causa avidità e ignavia, disprezzo per la vita e indifferenza, paura, incoscienza, apatia, cortigianeria e servilismo… follia.
Io non sono esperto di giurisprudenza e il mio giudizio vale poco più di nulla ma se penso a tutta questa storia non mi vengono in mente “semplici” reati come corruzione o concussione ma qualcosa di più imponente, imponente quanto è l’ILVA vista da Taranto: CRIMINI CONTRO L’UMANITA’.
TRAGEDIA. Scegliere tra lavoro e salute è, appunto, una scelta tragica. Tragica in quanto porta con sé il fallimento certo di ogni azione, di ogni scelta. Non c’è salute senza lavoro, non c’è lavoro senza salute. Resta solo la rabbia.