Giornata della memoria

uno dei 22 disegni di autore anonimo ritrovati ad Auschwitz nascosti dentro una bottiglia


dopo Auschwitz la poesia è barbarie
disse Adorno
ma se Adorno fosse morto ad Auschwitz
non l’avrebbe mai detto

* * *
i tedeschi se ne sono andati
lasciando il posto ai retori
per il resto, tutto è come prima

* * *
vorrei lasciarvi in pace
ma siete così invadenti

* * *
piccola mano su piccola mano
i bambini fiduciosi seguivano i grandi
(che altro avrebbero potuto fare?)
e cantavano: la la la lallallà
e i grandi, più in avanti, seguivano i duri
(che altro avrebbero potuto fare?)
e cantavano anche loro: la la la lallallà
e i duri, in disparte, seguivano la linea
verso il buco della Storia
che tutto inghiottiva
e dopo rilasciava
denti – odore – cenere – pensieri
e le teste dei bambini, private della pelle,
raccolte con cura su pedane squadrate
ancora cantavano: la la la lallallà

* * *
dopo Auschwitz
il sole sorge ancora
ma possiamo dire che sia sempre accecante?

Da Manzoni a Castellucci: discorso semiserio sul concetto di merda nell’arte

Sul concetto del volto nel figlio di Dio - di Romeo Castellucci - Avignone

Probabilmente la lista è molto più lunga e antica, ma il primo che mi viene in mente è Piero Manzoni, artista di lontana discendenza dall’Alessandro dei Promessi Sposi. Nel 1961 sigillò le sue feci dentro 90 barattoli di conserva (numerati) a cui applicò la famosa etichetta “merda d’artista”. Tra i tanti significati dell’atto artistico – oltre quello ovviamente provocatorio – possiamo individuare: A) l’idea che tutto ciò che proviene da un artista sia di per sé artistico; B) l’idea che la creazione artistica risponda ad un processo analogo all’elaborazione intestinale; C) l’idea (molto pop-art) che la mercificazione dell’arte abbassi quest’ultima al ruolo di merda o, viceversa, elevi la merda allo status di arte.

Poi merita sicuramente un passaggio il Salò di Pasolini dove i quattro “signori”, l’Eccellenza, il Presidente, il Monsignore, il Duca, utilizzano la merda come collante sociale e oggetto sacro di un rito d’iniziazione verso l’alto, dove “alto” è il male, o il potere, o più riduttivamente il fascismo. «Dio perché ci hai abbandonato?» urlano i giovani prigionieri seminudi dentro una pentola ricolma di feci. Il Castellucci del Sul concetto del volto nel figlio di Dio probabilmente obietterebbe che quelle feci sono proprio la prova che l’abbandono non è avvenuto, semmai i “figli” devono accettare con amore l’imbarazzante eredità del Padre, e mangiarla (come, in Salò, sono obbligati a fare). Meno sofisticato è il Pasolini di Petrolio, dove il personaggio del Merda è davvero “una merda d’uomo”, non d’artista, una merda d’uomo nel senso più popolare del termine.

Infine, perdonate tanta arroganza, tra Manzoni, Pasolini e Castellucci mi ci metto anche io. In un mio vecchio testo teatrale che non ho mai avuto l’opportunità di portare in scena, un figlio (Urlo) rimprovera al padre (Eros) e alla madre (Ofelia) la loro attitudine troppo gaudente e, nel caso specifico, troppo concentrata sul cibo:

EROS – Avremo salmone e caviale.
OFELIA – Tartufi e porcini.
EROS – Aragosta, ostriche e datteri di mare.
OFELIA – Capriolo, daino, cacciagione.
EROS – E poi frutti di mare, pasta, risotti.
OFELIA – Bruschette calde con paté e olive e Bordeaux e Brunello.
URLO – E merda, merda, tanta merda!
EROS – Merda, sì! Se Dio non avesse voluto la merda ci avrebbe creati pari a Lui.
URLO – Ma siamo stati creati a Sua immagine e somiglianza!
EROS – Nelle aspirazioni! Certo! Ma nelle fattezze Lui è più avanti di noi e non ha bisogno di evacuare. L’evacuazione è il segno del nostro limite. Se noi riuscissimo a comprendere il tutto non avremmo bisogno di elaborare scarti. Finché approssimiamo, defechiamo.

Quindi Dio, che non approssima e che comprende tutto, non può fare la cacca che è invece il segno più profondo della nostra limitata condizione di umani. Ma anche tra gli umani, l’idea del proprio padre concentrato nelle sue funzioni scatologiche imbarazza e scandalizza (come l’idea che i propri genitori possano avere tra loro rapporti sessuali). Un Dio, o un padre, che rivela al figlio i propri escrementi è un Dio, o un padre, che sta morendo. Ciò che forse alcuni cattolici rifiutano nel lavoro di Romeo Castellucci è proprio questa tragica idea.

Per una futura storia del teatro italiano

Ritrovato tra le macerie di un antico teatro off romano il seguente frammento risalente al XXI sec., probabilmente tratto da un vademecum in uso tra alcuni teatranti “indie” dell’epoca.

frammento di teatrante ignoto - sec XXI

Mario Monti: un premier, un commissario o un curatore fallimentare?

Giorgio Napolitano e Mario Monti

In parte trattenuta e ancora guardinga, forse sfiancata dalla stanchezza, più rabbiosa che gioiosa, certamente angosciata per un futuro ancora tanto incerto, la festa è mesta. Cosa c’è da festeggiare? Sì, Berlusconi non è più Primo Ministro e non lo sarà mai più, ma non è caduto lui, qui è l’Italia intera ad essere caduta. Inutile girarci intorno, l’Italia è commissariata, la politica italiana, tutta, è commissariata. E cosa c’è di più antipopolare e meno democratico di un commissariamento degli organi esecutivi?

Il peggior governo della storia repubblicana d’Italia se ne andato. Non rivedremo più, almeno per un bel po’ di mesi, quell’accozzaglia inguardabile di nani e ballerine, mafiosi e faccendieri, fascisti in doppiopetto e baciapile, lecchini e puttane. Il governo dei mediocri se ne andato ma la sua uscita di scena non è sotto il segno della sconfessione generale, della condanna popolare, della damnatio memoriae, non sono stati seppelliti da una rivolta nazionale, da un’indignazione collettiva, né dal voto. No, niente di tutto questo, sono usciti di scena sotto il segno dell’emergenza, del “responsabile dovere” verso una situazione eccezionale che spacciano come indipendente dal loro operato. Non sono stati battuti dalle opposizioni, dalla “nostra” cara Sinistra, dal nostro martellante urlare “vattene”. No, sono stati cacciati da novelli “alleati” che al posto dell’uniforme da soldato indossano le raffinate cravatte dell’alta finanza. E questa odierna tabula rasa non distingue i buoni dai cattivi, non ascolta le ragioni dei forti, figuriamoci dei deboli.

Con loro esce di scena la politica italiana tutta, di qualsiasi colore, una politica che in Italia non è la più nobile delle arti intellettuali, come sosteneva Platone e come con fastidiosa arroganza spesso ricordava D’Alema, è il rifugio dei mediocri, è il regno delle vanità e degli egoismi personali. Nella migliore delle ipotesi è uno stadio in cui opposte curve di ultrà si confrontano sino a malmenarsi. Viene da chiedersi se l’uscita di scena del governo Berlusconi non segni l’irreversibile fine della politica così come l’abbiamo conosciuta, o studiata a scuola, o sognata, la disciplina dove i diversi interessi sociali si mediano in nome del bene comune e della prosperità dell’intera nazione.
Cosa dobbiamo applaudire se la fine dell’incapace populista Berlusconi segna l’inizio dell’efficiente tecnocrate Monti, se il referente politico slitta dal “popolo” (seppur nel suo populismo Berlusconi era al popolo che si rivolgeva) ai “mercati”? Commissariati dai mercati, commissariati dai finanzieri, commissionati da nazioni straniere, commissariati dal capitalismo mondiale del salotto buono. Passiamo da un capitalismo “cafone” e cialtrone ad un capitalismo elegante, vagamente liberal, vagamente keynesiano, tutto qui. E cosa si dimostrerà, poi, Monti? Un premier, un commissario o un curatore fallimentare?

Talmente esausti e nauseati dalla volgarità italiana, da premier che raccontano barzellette da osteria, da ministri che fanno le pernacchie, da fellatio di valore ministeriale, applaudiamo come un novello Che Guevara il liberatore Monti, il suo viso austero e rigoroso, la sua efficienza bocconiana scolpita sull’alta fronte. Certo che l’applaudiamo, al punto in cui siamo applaudiremmo anche un governo Pacciani. Ma sono certo che nei prossimi giorni smetteremo di applaudirlo, quando applicherà a tutti noi le sue dolorose ricette, le ricette della BCE. E se pur quelle ricette dovessero funzionare, se pur dovessero riportare un po’ di calma in questo sgangherato Paese, resterà l’ineludibile sensazione di un fallimento, il fallimento di un popolo che non è in grado di esprimere rappresentanti degni, il fallimento di un popolo che non sa badare a se stesso, il fallimento della democrazia rappresentativa.

Le due culture: analfabetismi letterari e digitali

Steve Jobs presenta l'iPad

Si chiama Analfabeti digitali la piccola inchiesta pubblicata recentemente da Repubblica , e si chiama “analfabetismo digitale” l’handicap culturale messo a fuoco.
Si parte da dati statistici di fonte ISTAT 2010 relativi alla conoscenza del computer e della rete tra le varie fasce d’età in Italia e si conclude confermando esattamente quel che ci si potrebbe aspettare: primo, i giovanissimi conoscono i nuovi mezzi di comunicazione più degli adulti; secondo, l’alfabettizzazione digitale italiana è di gran lunga meno diffusa di quella americana. Nulla di nuovo, quindi. Nulla di sorprendente.
Qualcosa di più interessante sta nei dettagli. Ad esempio, la fascia d’età 45-54 anni, quella giustamente ritenuta nel pieno della vita produttiva, un’età dove mediamente si equilibrano verso l’alto esperienza, entusiasmo, fantasia e benessere fisico, ha una conoscenza di internet ferma al 53%. Questo sì mi sembra un dato agghiacciante. Probabilmente più comprensibile alla luce delle brutte peculiarità sociali italiane, comunque non meno disturbante, è il dato riferito per la stessa fascia d’età al genere sessuale: l’ignoranza digitale è più un problema femminile che maschile, e questa è un’ulteriore conferma di quanto il mondo produttivo italiano sia ostile alle donne.
In definitiva, una sociologia che ribadisce la costante perdita di terreno che il nostro Paese denuncia verso i propri “simili”, simili che in una accezione molto world business si dovrebbero definire competitor.

Mi ha invece più colpito il concetto di “analfabetismo digitale” equiparato dall’OCSE all’analfabetismo tradizionale, entrambi forieri di potenziale esclusione sociale. Mi colpisce perché mi si pone come immediata l’identificazione tra alfabetizzazione e cultura, e quindi l’analfabetismo come il grado zero della cultura. Ma si tratta davvero di un’equazione valida? Quale il rapporto tra “cultura” e i due analfabetismi?
Iniziamo con quello letterario. Si potrebbe obiettare l’ipotesi che la conoscenza della scrittura sia “solo” uno strumento – al limite il migliore – per acquisire cultura e che quindi – sempre ipoteticamente – potrebbe esistere un totale analfabeta che tuttavia possiede un elevato grado di conoscenza del mondo, della vita, delle persone. Un po’ l’estremizzazione del diffuso detto “ho preferito conoscere il mondo viaggiando e facendo esperienza piuttosto che sui banchi di scuola”. All’opposto c’è Kant, il più grande filosofo moderno che dubito si sia mai mosso da Königsberg. La vita di Kant, reale e provata, è sicuramente più credibile dell’ipotetico analfabeta colto. Cioè, la nostra è una cultura profondamente letteraria e l’idea che la cultura sia un oggetto indipendente dal linguaggio che la descrive e la vivifica è assurda. E se il linguaggio è per definizione metaforico allora “tutta” la cultura lo è.

Anche l’analfabetismo digitale è il grado zero della cultura? Per carità, basti pensare all’ignoranza abissale di tanti hacker, web master o web qualunque cosa, così come mi vengono in mente le personali conoscenze di persone coltissime ma in evidente imbarazzo di fronte all’accensione di un computer. Risponderei allora che l’analfabetismo digitale è il grado zero della cultura digitale, della cultura letteraria no.
Ma le due culture non effettuano una forma armonica di transizione, di dissolvenza incrociata l’una nell’altra, non si conseguono né si presuppongono, semmai per ora si usano. La letteraria cerca di studiare, analizzare, comprendere l’altra così come ha cercato sempre di comprendere qualunque fenomeno materiale, spirituale, emozionale, etc. La digitale si ciba della letteraria, la digerisce, la fa sua. Tra le due il rapporto è di reciproco distacco.

Nell’articolo di Repubblica, il direttore dell’Osservatorio della lingua italiana Zanichelli, Massimo Arcangeli, afferma che nascere e crescere in una cultura digitale rischia di “strutturare menti più sintetiche che analitiche”. Traduco a mio modo questa possibilità dicendo che la cultura digitale sposta la forma del linguaggio – il proprio effetto cognitivo – dal metaforico al simbolico.

La cultura digitale si espande progressivamente. D’accordo, è “solo” un mezzo, è “solo” un linguaggio ma talmente pervasivo da cambiare la sostanza stessa del concetto “cultura”, finora plasmato dal linguaggio letterario. La cultura digitale è destinata a prendere il posto di quella letteraria così come quest’ultima prese il posto di quella orale. Non prefiguro un mondo colonizzato da miliardi di lobotomizzati dallo sguardo assente, presi esclusivamente dal dialogo con la propria connessione. Penso ad un costante mutamento dei segni, delle grammatiche, delle sintassi, delle deduzioni, delle interpretazioni. Penso alla sopravvivenza della scrittura inglobata all’interno di un sistema semantico che la comprende cambiandone il ruolo, ormai depotenziata della sua capacità unica di generare ragionamenti e significare cose. Penso alla struttura cognitiva umana spostarsi dal metaforico al simbolico. Penso che ancor più della scrittura ne soffrirà la parola, il dire (cosa di più umano del dire?).

E per tornare all’oggi e all’analfabetismo digitale, penso che un progressivo ridursi degli spazi vitali per gli analfabeti della rete sia già evidente anche tra chi, di questi, è colto “tradizionalmente”. Certo, possiamo fregarcene di internet e andare in libreria ad acquistare un libro, non che un libro nella sua tradizionale forma cartacea non serva più ma che tutto quel fertile corollario generalmente successivo alla lettura, e che in quel libro ha il suo fuoco, corollario fatto di discussioni, approfondimenti, recensioni, scambi d’opinione, ormai si svolge tutto in internet. Chi non conosce il mezzo ne è escluso. Se c’è qualcosa che stride alla cultura è la sua solitudine; una cultura in solitario appassisce, termina nella tomba insieme al suo possessore.
Infine, in questa futurologia, mi viene da pensare che se la nostra civiltà letteraria ha generato le grandi “religioni del libro” (o fu il contrario?), non è poi così lontano il tempo di un “dio della rete”.

L’enigma Renzi, un black bloc in giacca e cravatta

Matteo e Mike
Matteo e Mike

Seppur ancora per pochi anni sono un TQ, di quelli che scalciano e si indignano, e allora esulto, Renzi mi rappresenta, è la nemesi generazionale che avanza. Seppur con molte crepe sono ancora plasmato dall’ideologia, la falce e martello, il sol dell’avvenir, e allora mi deprimo, Renzi mi è avverso, è di destra, è la vittoria completa del berlusconismo.
Un black bloc in giacca e cravatta che tira parole dure e appuntite come sampietrini sulle teste canute di vecchi leader consunti. È divertente la reazione dell’apparato, spiazzata, sorpresa, imbarazzata, e questo perché l’ex concorrente della ruota della fortuna sposta la discussione su un campo privo di qualunque possibilità dialettica. Ma quali idee (figuriamoci gli ideali), ma quali programmi, tutto è racchiuso in un solo concetto che più o meno suona così: “siete vecchi, andatevene in pensione (voi fortunati che ce l’avete)”. Cosa può ribattere un Bersani, un D’Alema, un Veltroni ad una verità talmente chiara e inoppugnabile? Nulla, e infatti non si crea alcun dibattito. Renzi non dice nulla di nuovo e soprattutto nulla di chiaro. Il suo messaggio sta tutto nel “mezzo”. Renzi è il messaggio, giovane e scalpitante.

C’è una crisi sistemica mondiale, c’è un modello di società che non funziona più, c’è un Occidente che lentamente sta per uscire di scena. E che dice Renzi di tutto questo? Cosa di nuovo, di chiaro, di risolutivo? Spavaldamente innovativo, vagamente socialista, vagamente liberale, vagamente giustizialista, vagamente green, chiaramente banale. La somma delle sue approssimazioni dà banalità, ma una banalità ben nascosta dalla più grande delle qualità, la giovinezza, qualcosa che in Italia latita da almeno un secolo. E cosa può un povero vecchio apparato incrostato di sconfitte sedimentate, cresciuto ragionando tra Marx, Marcuse, Keynes, quando gli si contrappone “solo” un’esuberanza generazionale iconicamente (e, ancora una volta, vagamente) modellata su Steve Jobs?

Se lo meritano Renzi, i vari Bersani, D’Alema, Veltroni, Vendola, Camusso, se lo meritano perché è anche colpa loro se in Italia i VTQ (venti-trenta-quarantenni) sono stati privati del presente e del futuro, ne è stato calpestato e umiliato l’entusiasmo, la fantasia, la preparazione, tutto in nome di una gerontocrazia clientelare peculiarmente italica e vagamente mafiosa che è ancora oggi il principale problema di questo Paese. La sua rabbia è anche la mia e allora tifo per lui quando si rivolge all’apparato e gli dice, in parole povere, “avete fallito, fatevi da parte”. Cosa c’è, o ci dovrebbe essere, di più ragionevole del fatto che chi continuamente fallisce se ne debba andare via lasciando spazio ad altri?
Mi sono sempre chiesto perché un popolo come il nostro, tanto appassionato di calcio, non tragga poi dal calcio la sua principale verità: squadra che perde si cambia, e il primo a saltare è l’allenatore. Ha ragione Renzi quando pone davanti a tutto la questione del merito. Se poi lui, il Renzi, sia uno meritevole, questo è tutto un altro discorso. Per ora mi sembra solo l’ovvio frutto di ciò che è stato seminato.

This Must Be The Place, di Paolo Sorrentino

Proverò a spiegare perché un film tanto pieno di difetti, tanto incompleto e discutibile, sia comunque un grande film. Un parallelo forse azzardato e da prendere con le molle è relativo alla musica rock, e precisamente alla doppietta dei Radiohead Kid A e Amnesiac, lavori entrambi affascinanti nonostante – o grazie – la loro palese incompiutezza; lavori che manifestano una prepotente personalità non ben strutturata, non del tutto matura, bensì segnata dall’arrogante follia di chi ha qualcosa da dire, magari con confusione, magari con incoerenza, ma qualcosa da dire che lascia il segno e fa intravedere strade vergini da colonizzare. Qualcosa del genere mi è parso This Must Be The Place.

Due storie sostanzialmente, due storie che si passano il testimone tra il primo e il secondo tempo e ritrovano nella scena finale un tentativo di armonica sintesi, tentativo che personalmente non trovo del tutto convincente ma che accetto come prova che Sorrentino non abbia mai perso di vista tutti i livelli narrativi e semantici che ha scatenato nel corso del film. La prima storia è intimista, lenta, spesso noiosa, e riguarda l’evidente depressione del protagonista, “Cheyenne”, vecchia popstar irlandese (chiaro riferimento iconico a Robert Smith dei Cure) che nonostante la vita agiata e una moglie splendida non trova serenità, non accetta l’inevitabile decadenza né sembra trovare giovamento dai ricordi di un passato di celebrità. Anzi, forse è proprio quel passato mal digerito che gli crea il pesante fardello del presente. Se questa depressione non sfocia nel suicidio o nel ritorno all’eroina è esclusivamente grazie alla forza della moglie. A proposito della moglie, mi sembra una figura ben poco credibile questa donna sempre allegra e ottimista, innamorata di un buffo patetico fantasma quale è ormai il marito e addirittura – nonostante i soldi del marito – lavoratrice alle dipendenze dei pompieri, eppure anche questa scelta contribuisce a portare il film in quella dimensione di surrealtà che forse ne è la soluzione. Dunque, la nostra triste popstar chiusa in un’esistenza senza uscita, se ne va in America per il funerale di un padre con cui aveva interrotto ogni rapporto da 30 anni.

E qui inizia la seconda storia. Cheyenne si carica sulle spalle il compito di “vendicare” il padre – ebreo ex deportato in campo di concentramento – delle sevizie ricevute dal suo aguzzino nazista. Ne segue le tracce attraverso un lungo viaggio tra vari stati americani incontrando improbabili personaggi finché finalmente lo trova e compie l’agognata vendetta: lascia il 90enne ex nazista nudo e inerme sulla neve, in un’inquadratura molto Auschwitz. Torna quindi a casa sua in Irlanda, sereno e finalmente uomo.

Se il film fosse il racconto che ne ho fatto sarebbe un’evidente cretinata. Fortunatamente non è così. Fortunatamente la tanta carne al fuoco si rivela carne di qualità a momenti cotta molto bene. Come e perché ci riesce Sorrentino? Intanto perché l’incredibile storia raccontata ti avvolge man mano sino a darti una sensazione di credibilità, come se uscendo dal cinema si annullassero i confini tra l’incredibile e il banale quotidiano (credibile) e si restasse con l’idea che ogni storia banale nel momento in cui viene narrata divenga incredibile, e ogni storia assurda divenga a sua volta banale. E non è poi davvero così? Io credo di sì.
Il surreale è un po’ dappertutto, permea la narrazione ovunque e gli assurdi personaggi che Cheyenne incontra nel suo viaggio americano sono veri, riconoscibili, familiari. È un surreale caratterizzato da malinconia (il volto/maschera di Sean Penn ne è l’adeguata sinossi), ed è una malinconia caratterizzata da ironia. Il punto di forza, tuttavia, è stilistico, ed è evidente nella seconda parte, come se l’America non potesse essere narrata diversamente che da un trionfo di colori, come se in ogni dettaglio della quotidianità americana si nascondesse un mistero, un varco verso un altro mondo. Inquadrature, fotografia, visi, ritmo narrativo, tutto contribuisce a portare il film verso un livello espressivo questo sì “incredibile”, soprattutto se si pensa che non c’è Lynch dietro la telecamera, non c’è Tarantino né ci sono i Coen, c’è un regista italiano, probabilmente l’unico regista italiano in grado oggi di parlare un linguaggio internazionale. Infine, last but not least, un maestoso Sean Penn guida la narrazione tra credibile e incredibile, tra realtà e favola, caricandosi sul volto un personaggio che altrimenti avrebbe potuto essere un clone di Edward mani di forbice.

Piacerà probabilmente ai ventenni degli anni ’80, cresciuti col punk e la new wave. Io, avendo invece odiato quegli anni, Cure, Smith, Joy Division etc. (li recupererò musicalmente molto tempo dopo), non credo di aver subito il fascino dei ricordi, mi è piaciuto solo per i motivi detti sopra. In questo senso mi sento molto vicino al percorso filmico di Cheyenne, il cui sfogo al cospetto di David Byrne conferma la mia lettura di quegli anni, un trionfo di superficiale vanità, una sorta di errore evolutivo da cui la conoscenza della ben diversa vita di mio padre mi ha tenuto lontano.

Putrefazione (racconti del venerdì #5)

“Io non ho fatto proprio nulla”, disse. Erano appena tornati dalle vacanze, le valigie da disfare ancora nell’ingresso, e già la stava accusando di qualcosa. Entrati in casa il fetore li aveva investiti. Lui si era precipitato in cucina. La porta del frigorifero era socchiusa, il tanfo insopportabile. “Ci avrei giurato”, disse lui. “Chi ti dice che la colpa è mia”. Lui tirò fuori dal frigo un involto di carne, lei vide muoversi qualcosa attraverso la carta oleata e cominciò a urlare. Lui non ci badò, si liberò dell’involto gettandolo nel secchio. Lei se ne stava ferma a guardare, come chi si aspetta la fine del mondo. Le tremavano le mani. Lui represse a fatica un conato di vomito, spalancò la finestra poi, d’istinto, la prese per mano. “Andiamocene di qui”, disse. Nello scendere le scale, però, mollò la presa e affrettò il passo, tanto che lei dovette quasi correre per stargli dietro. Salita in macchina le venne da piangere. Vergognandosene, come si fosse ritrovata a urlare in mezzo a una strada, si abbandonò al pianto, piena di una rassegnazione dolcissima verso ogni cosa morta in fondo alla pattumiera, che aveva visto muoversi come fosse ancora viva, ma passata a una forma diversa e terribile oltre la vita. “Non è questione di farla tanto lunga”, disse lui. Faceva caldo, lei cercò nella borsa un fazzoletto, per tirare su con il naso e lasciar passare lo spavento. Lui non tentò di consolarla. C’era voluto del tempo perché accadesse, giorni e giorni mentre loro erano in vacanza. Li avevano trascorsi al mare, giacendo immobili all’ombra, alla larga dal sole, sotto l’ombrellone. C’era voluta una dimenticanza protratta nel tempo perché accadesse, la porta del frigo era rimasta aperta, c’era poco da fare. Di chi era la colpa? Non aveva importanza.

Racconto di Emanuela Cocco (http://www.franzbiberkoff.it/)